di Raffaele Dobellini
Il 4 dicembre 2016 gli elettori italiani saranno
chiamati ad esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso nei confronti
della Riforma costituzionale, cosiddetta “Renzi-Boschi” o “Boschi-Napolitano”.
Già dalla scelta di come appellare questa Riforma si possono comprendere le
posizioni in campo. Chi la chiama Renzi-Boschi
vuole porre attenzione sul significato che l’approvazione della stessa avrà per
le sorti del Governo in carica. Chi la denomina Napolitano-Boschi pone, invece, l’accento sul fatto che la legge
costituzionale aveva avuto inizialmente l’avallo della maggioranza delle forze
politiche presenti in Parlamento, anche grazie all’esplicito sostegno del
Presidente emerito, Giorgio Napolitano, che aveva accettato la propria rielezione
per contribuire, tra l’altro, alle riforme istituzionali. Al di là, però, dei
risvolti politici che avrà l’esito referendario è opportuno soffermarsi su
quali effetti questa Riforma avrà nel concreto e, nello specifico, su come
condizionerà la partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Come ho premesso, l’attuale Riforma
assume ben precise coloriture politiche, che vanno ben oltre quelle che
naturalmente assume un cambiamento della Costituzione. Ritengo, pertanto,
opportuno esplicitare fin da subito i miei convincimenti in materia
politico-istituzionale, così da permettere al lettore, soprattutto a quello non
avvezzo alle materie giuridiche, di orientarsi al meglio. Sono un
parlamentarista convinto, favorevole ad un limitato rafforzamento dei poteri
del Presidente del Consiglio, che evito, infatti, di chiamare “Premier” per
ribadire il suo ruolo di primus inter
pares. Il Consiglio dei Ministri, infatti, dovrebbe essere non solo luogo
di decisioni esecutive, ma anche di un ampio ed approfondito confronto sulle
sorti del Paese. La svolta maggioritaria dei primi anni Novanta, l’elezione
diretta degli organi monocratici di governo locale, il ricorso alle primarie
per la scelta del Segretario nazionale del Partito Democratico hanno, col
tempo, mutato la natura del Presidente del Consiglio, che è andato accentuando
il suo ruolo direttivo, a scapito di quello di coordinamento. Sono
dell’opinione che ibridare i sistemi istituzionali non sempre sia corretto. Se,
quindi, si vuole un rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio, tanto
da trasformarlo in un Primo ministro o in un Cancelliere, questo va fatto in
modo esplicito e con una certa coerenza giuridico-legislativa. Schematizzando
posso affermare: un sistema di coerente rafforzamento dei poteri del Presidente
del Consiglio era già in linea con il precedente dettato costituzionale,
sarebbe bastate poche modifiche per semplificare il processo legislativo e
rafforzare il ruolo di indirizzo del Presidente del Consiglio. È evidente,
però, che la Riforma non ha avuto solo quest’intento. Se è vero che Renzi si è
mosso secondo il modello del “Sindaco d’Italia” – il combinato disposto Riforma
Costituzionale-Italicum è chiaro in questo senso – è altrettanto vero che il
sistema dei comuni non è immediatamente riproducibile a livello nazionale. I
comuni non legiferano e, soprattutto, l’attività legislativa non può ridursi ad
un semplice confronto tra maggioranza e opposizione. Il venir meno dei partiti
“ideologici” impedisce di collocare tutti i temi, soprattutto quelli eticamente
sensibili, in un confronto tra opposte parti politiche. Al rafforzamento del
ruolo dell’Esecutivo e al superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (o
paritario) si affiancano altri due intenti: assecondare un elettorato che è
sempre più diffidente nei confronti della classe politica e riportare lo Stato
al centro dell’azione politico-legislativa. Il primo intento è perseguito
attraverso la riduzione drastica del numero dei senatori, l’eliminazione del
CNEL, l’esclusione di una indennità di incarico per i nuovi senatori,
l’abolizione della figura del senatore a vita di nomina presidenziale (i nuovi
senatori di nomina presidenziale dureranno in carica sette anni). Se
l’eliminazione del CNEL non costituisce un problema di sorta e, comunque, non
costituisce una svolta epocale, diversa è la scelta che riguarda il Senato. Qui
bisogna fare alcune precisazioni: in molti Paesi si è fatta la scelta del
monocameralismo; in nessuno Stato occidentale esiste un bicameralismo perfetto;
dove esiste una seconda Camera, questa è spesso oggetto di critiche; il ruolo
della seconda Camera assume un ruolo rilevante nei sistemi federali – es. USA o
Germania – dove serve a rappresentare le esigenze delle realtà regionali/statuali
che compongono la Federazione. Il progetto originario della Riforma aveva una
sua coerenza: guardava al modello tedesco e, pertanto, prevedeva l’elezione di
tutti i senatori ad opera dei Consigli regionali e ne prevedeva la caducazione
alla cessazione dell’incarico di primo livello (sindaco o consigliere
regionale) o al termine della legislatura del consiglio regionale eleggente.
Sostanzialmente i senatori erano immaginati come delegati delle Regioni a
rappresentare gli interessi della comunità regionale. L’assenza di un diretto
mandato popolare giustificava: l’eliminazione dell’indennità; l’eliminazione
dell’immunità parlamentare; il ridotto potere legislativo. Il sistema mancava,
però, di uno strumento fondamentale: la possibilità per l’ente delegante di
revocare l’incarico al senatore, qualora questi avesse votato in modo difforme
agli orientamenti della Regione sulle questioni strettamente legislative.
Almeno si sarebbe dovuto prevedere che i senatori avrebbero potuto esprimere
solo un voto percentualizzato o unitario. Se, infatti, il Senato è immaginato
come Camera delle Regioni, quello che viene in rilievo è l’ente; quindi nella
stragrande maggioranza dei casi i voti si sarebbero dovuti esprimere non in
modo individuale, ma unitario. Cioè ad ogni Regione sarebbe spettato un solo
voto e per esprime questo i senatori di ogni singola Regione si sarebbero
dovuti accordare o avrebbero espresso un voto pari solo ad un percentuale del
voto della Regione.
Nonostante alcuni limiti (anche seri) che
presenta la Riforma costituzionale ritengo che la stessa abbia un indubbio
vantaggio: aumenta le occasioni di partecipazione democratica. Questa Riforma,
pur non incidendo sulla prima parte della Costituzione – e, quindi, sui
principi che reggono il nostro sistema repubblicano – va ad incidere sul
procedimento legislativo e sull’equilibrio tra alcuni poteri dello Stato.
Soffermarsi sulle convinzioni politiche e filosofiche alla base di questa Riforma
sarebbe troppo complesso. È bene, quindi, soffermarsi solo sugli effettivi
cambiamenti prodotti, indipendentemente dalle conseguenze politiche che agli
stessi si vuole attribuire. È noto, infatti, che al di là del dato normativo
ciò che assume rilievo è anche il modo in cui la dottrina, la giurisprudenza,
soprattutto costituzionale, e la politica comunemente interpretano la
Costituzione. La Riforma del Titolo V avvenuta nel 2001 è stata, ad esempio,
oggetto di numerosi interventi della Corte Costituzionale, che è intervenuta a
delimitare e ridefinire il riparato di competenze legislative tra Stato e
Regioni, depotenziando di fatto il portato della riforma c.d. federalista.
Nella Riforma costituzionale Renzi-Boschi-Napolitano
assumerà rilievo il modo concreto in cui verranno utilizzati gli istituti di
partecipazione popolare e come i senatori intenderanno il proprio ruolo. Come
precisato, infatti, non è previsto l’istituto della revoca dei sentori e agli
stessi è riconosciuta l’immunità. È discutibile, comunque, fin dove si possa
spingere la loro azione politica, quanto cioè possano giovarsi dell’assenza di
un vincolo di mandato, pur rappresentando la propria Regione. Del resto, a
seguito delle obiezioni della minoranza interna al PD, la norma costituzionale
prevede che – relativamente ai consiglieri regionali da eleggere come senatori
– il Consiglio regionale eleggente dovrà tener conto delle “indicazioni”
dell’elettorato. Come questo avverrà e come questo si tradurrà in una elezione
effettiva ad opera del corpo elettorale non è dato saperlo. Sicuramente non
dovrebbe avvenire per i sindaci che saranno eletti senatori. Le principali
novità in termini di partecipazione popolare, però, sono altre e sono spesso
passate sotto silenzio, pur determinando importanti cambiamenti. Del resto,
sono le riforme che meno hanno subito le obiezioni dei costituzionalisti,
godendo di un sostegno quasi unanime. Il maggiore coinvolgimento dei cittadini
nel processo decisionale passa attraverso: la previsione di referendum
propositivi o d’indirizzo; l’abbassamento del quorum alla metà dei votanti alle
ultime politiche, nel caso in cui il referendum sia stato chiesto da almeno
800.000 elettori; l’aver fissato tempi certi per la calendarizzazione delle
leggi d’iniziativa popolare. Decisive risulteranno le leggi attuative del
dettato costituzionale. Il superamento del bicameralismo paritario e la
sottrazione alla scelta dell’elettorato di una parte dei senatori è ampiamente
compensata dall’introduzione di queste forme di partecipazione diretta. Su
questo versante, quindi, difficilmente la Riforma può essere oggetto di
critiche decisive.
(Nipoti di Maritain 01/2016, pp. 22-25)
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