di Gabriele
Maestri
«Oltre il Senato c’è di più». Verrebbe da
introdurre così la riforma della Costituzione su cui saremo chiamati a votare
in autunno. Si è parlato molto (e in parte a sproposito, semplificando troppo e
male da una parte e dall’altra) delle trasformazioni che subirebbe la seconda
Camera, ma ci si è soffermati meno su altri contenuti, non meno importanti
rispetto alla struttura e alla formazione del secondo ramo del Parlamento.
Se di spazi di partecipazione popolare si
deve ragionare, è giusto farlo ad ampio spettro. A tutt’oggi, i cittadini possono
partecipare alla vita politica in più modi: indirettamente, votando i loro
rappresentanti al Parlamento; in maniera diretta, soprattutto presentando in
forma collettiva proposte di legge (per proporre alle Camere temi su cui
legiferare) o richieste di referendum
(per eliminare dall’ordinamento norme non gradite). Questi ultimi due
strumenti, col tempo, hanno mostrato alcuni limiti: le proposte di legge
popolari si impantanavano puntualmente nelle secche parlamentari, mentre la
disaffezione dei cittadini verso lo strumento referendario (forse anche per un
suo abuso) ha impedito spesso di raggiungere il quorum per la sua validità e, a volte, non si è neanche arrivati a
raccogliere le firme necessarie.
La riforma costituzionale interviene su
entrambi i punti. Sul piano dell’iniziativa legislativa popolare, a fronte di
un innalzamento sensibile del numero di firme necessarie (da 50mila a 150mila),
il nuovo testo dell’art. 71 prescriverebbe che la discussione e la
deliberazione conclusiva su quelle proposte di legge «siano garantite nei
tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari».
L’asticella in effetti si alza, anche se superarla
non è proibitivo (gli elettori, in settant’anni, sono quasi raddoppiati e oggi
è più facile firmare e far autenticare le firme); in compenso, si dovrebbero
avere tempi certi perché nelle aule parlamentari si discuta davvero delle
istanze che un numero consistente di cittadini ha tradotto in proposta di
legge. In teoria sarebbe un passo avanti, rispetto alla poca considerazione di
cui hanno goduto i testi di iniziativa popolare. Resta personalmente un po’ di
rammarico: sarebbe stato opportuno dare più regole già nel testo
costituzionale, invece che delegare la disciplina di tempi, forme e limiti
della discussione ai regolamenti parlamentari, cioè alle stesse Camere che
finora non hanno tenuto conto delle istanze popolari. Troppa sfiducia da parte
mia o troppa fiducia in sé del Parlamento?
Se il tema delle proposte di legge è stato
poco “gettonato” nel dibattito pubblico, si è parlato di più delle innovazioni
della riforma in tema di referendum. Queste
riguardano innanzitutto il referendum abrogativo,
che diventerebbe «a geometria variabile» (come dice il professor Pasquale
Costanzo) in caso di entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 75. Accanto
all’attuale ipotesi “normale” (raccolta di 500mila firme e necessità di
superare il quorum della metà più uno
degli aventi diritto al voto), si creerebbe un secondo percorso “rinforzato”,
qualora i promotori raccogliessero almeno 800mila firme: per la validità di
quella consultazione, basterebbe raggiungere la maggioranza dei votanti alle
ultime elezioni della Camera.
Tornando all’esempio dell’asticella, il nuovo
testo costituzionale farebbe decidere ai cittadini – specie ai promotori – il
livello di difficoltà: potrebbero mettere l’impegno consueto nella raccolta
firme, sperando che poi voti almeno un elettore su due, o impegnarsi di più
sulle sottoscrizioni, abbassando l’asticella all’atto di rivolgersi al corpo
elettorale. Si è parlato di “controriforma” del referendum, che non rimuove il quorum
e aumenta le firme, ma non condivido: si è aggiunta una nuova strada, che
chiede sì più firme (ma 800mila sono l’1,70% dei 46,9 milioni di elettori del
2013; 500mila sottoscrizioni, nel 1948, erano l’1,72% dei 29 milioni di
elettori di allora), ma rende più difficile avere consultazioni invalide
(prendendo i dati del 2013, invece che 23,5 milioni di votanti, ne basterebbero
17,6). Un minimo di partecipazione appare comunque necessario, per evitare che
spariscano dall’ordinamento norme sgradite a sparute minoranze.
Restando sul tema dei referendum, se nulla cambia per le consultazioni territoriali e per
il referendum confermativo di
revisione costituzionale, la riforma integra così l’art. 71: «Al fine di
favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche
pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di
referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di
consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe
le Camere sono disposte le modalità di attuazione».
Si tratta di qualcosa che nella Costituzione
non c’è mai stato e che è stato chiesto da più parti (dai cittadini come dagli
studiosi): nuove occasioni di partecipazione, non solo degli elettori ma di
tutti i cittadini, come singoli e membri di «formazioni sociali» (questa parte,
però, è tutta da precisare meglio in futuro). Quanto alle nuove forme di referendum, potrebbe aprirsi una
stagione di consultazioni propositive (per suggerire temi di cui Parlamento e
Governo dovrebbero occuparsi, senza sovrapporsi allo strumento dell’iniziativa
legislativa popolare) e d’indirizzo (per permettere a chi è al potere di
verificare, all’interno del corpo elettorale, il consenso su posizioni e
progetti specifici). A occhio, peraltro, questi strumenti avrebbero un valore
solo consultivo (e non immediatamente produttivo di norme): non sarebbero
comunque disponibili prima di un doppio intervento del Parlamento, prima con
una legge costituzionale che definisca meglio questi istituti, poi con una
legge ordinaria bicamerale, che attui nel dettaglio le regole ancora da
stabilire.
Si è dunque tentati di dire che, in questa
lettura della partecipazione popolare, chi ha voluto la riforma ha proposto un
passo adelante, pero con mucho juicio,
lasciando decidere al Parlamento che verrà: a volte non c’era altra scelta, a
volte si sarebbe potuto fare di più. C’è, infine, la grande incognita sulla
formazione del Senato: non sarebbe eletto direttamente, ma si è introdotto il
principio per cui i consigli regionali e di province autonome dovrebbero
eleggere i senatori «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i
candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Ci sarebbe
dunque spazio per far contare, in qualche modo, anche l’espressione degli
elettori; toccherà però sempre a una legge ordinaria
(bicamerale) stabilire le modalità di elezione dei senatori. Anche qui, dunque,
il giudizio dev’essere necessariamente sospeso.
(Nipoti di Maritain 01/2016, pp. 26-28)
Commenti