di Davide Penna
Non si
riesce proprio a dormire questa notte a Genova. Sono troppe e troppe fresche le
immagini che si rincorrono del Ponte Morandi spezzato, sbriciolato lungo 200
metri di cemento armato caduti come se fossero trucioli di legno. Il dolore,
l’angoscia, il respiro corto che accompagna ogni genovese sono segni e ferite
che non possono lasciare in pace. C’è un perché?
che non si accontenta delle assurde polemiche partitiche già scattate, anche
dalla voce di ministri (!!!?). Un perché?
che coinvolge te e tutti i tuoi concittadini, amici, parenti, compagni di
derby; sì, perché a Genova quel ponte lo abbiamo preso tutti un milione di
volte. I tuoi familiari lo hanno preso due giorni prima, tu dovevi prenderlo il
giorno dopo, tanti amici lo hanno preso qualche minuto prima o dopo. Ti ricordi
di quante volte lo vedevi e ti faceva sempre un po’ impressione… così alto,
così maestoso che sembrava il ponte di Brooklyn, così lungo che ti veniva da
accelerare per finire di percorrerlo presto e tornare a casa dai cari che come
te lo percorrevano sempre. Adesso non più. Sì, al posto di quelle tante persone
morte e disperse potevi tranquillamente esserci tu… perché? Tutte queste immagini, tutti questi ricordi, tutti questi
pensieri ti strozzano il cuore e la testa e il cuscino è sempre più duro e
arroventato, il letto un sasso che ti inghiottisce e non ti lascia riposare.
Non c’è riposo da una tragedia del genere. Questo è il nostro Vajont. Questo è
il nostro 11 settembre.
Ti
risvegli e quel cumulo di macerie e detriti è ancora lì a ricordarti che non è
stato un incubo, ma è tutto vero: Ponte Morandi, quello che vedevi tornando a
Sampi, ovvero Sampierdarena per i genovesi, che scorgevi maestoso dalle alture
di Belvedere e ti sembrava di stare a Detroit con tutte quelle strade che si
intersecano tra i monti, che scrutavi pensieroso in via Fillak perché ti sovrastava
come un gigante grigio, che ti dava un senso misto di stupore, paura, sicurezza
e fiducia (tipici sentimenti contrastanti del genovese) perché pensavi a quanto
efficiente possa essere la tecnica umana da realizzare opere così
complesse… è completamente spezzato come
le vite di circa cinquanta o forse più persone, come i sogni di famiglie in
partenza per le vacanze in questa vigilia tremenda e apocalittica di Ferragosto.
Il Ponte simbolo degli anni ’60, della fiducia nello sviluppo, nel futuro,
nelle grandi opere, è crollato. E con esso è crollato tutto quello che gli anni
’60 hanno significato, appunto. A vederlo sotto un potente temporale estivo,
tra fulmini e lampi, tagliato a metà, ti sembra di vivere un incubo.
Ed è
così. Un incubo realissimo. L’inquietudine che non lascia allontanare nessun
pensiero dalle macerie del ponte, non è solo per i morti, per gli sfollati, per
una città che sarà paralizzata, per la paura di quanto il tutto poteva essere
ancora più disastroso… no, la profonda angoscia che sentiamo tutti è dovuta
anche al fatto che quanto è successo è un punto di rottura che ha cambiato per
sempre la storia di Genova e dei genovesi. Una storia che deve essere riscritta
con coraggio, umiltà e lavoro, tutte caratteristiche che segnano nel profondo
questa città la quale, per la sua storia travagliata e maestosa, ha dovuto
passare continui momenti di cadute profonde e paurose, e resurrezioni forti e
maestose. Pensare al Novecento, alla medaglia d’oro per la resistenza (l’unica
città europea in cui i soldati nazisti hanno firmato la resa al cln cittadino),
agli anni ’60, alle alluvioni del ’70, ’94, del 2011, del 2014. Ma oggi questo futuro non lo riesci a vedere,
la disperazione è troppo grande. Oggi è il giorno del pianto e dell’angoscia,
ed è giusto che sia così. Sì, le lacrime di oggi potranno diventare il seme
della speranza, perché solo tanti cuori che sanno angosciarsi per tragedie
comuni potranno, uniti, costruire il futuro e scrivere una nuova pagina. Ti
ritrovi allora a contattare la Protezione Civile per offrirti volontario, ti
rechi al Centro Civico di Sampierdarena dove hanno allestito un punto di
accoglienza per sfollati, e trovi una macchina di soccorsi all’opera da ore con
efficienza, coraggio, forza di volontà che esce da quello spirito indomito e
rude dei genovesi, così mugugnoni ma così generosi. Questo ti dà speranza, una
speranza vera, impastata di lacrime e sangue dei morti e senso di completa fragilità
nei vivi.
Eppure…
eppure senti già il rumore dei politicanti e dei ministri arrivare, senti già
il puzzo della polemica e della rivendicazione partitica. «È colpa di questo,
piuttosto che di quello, loro devono pagare… i cittadini hanno bisogno di
risposte»… no! I genovesi adesso non vogliono risposte, perché non esistono a
dolori e interrogativi così grandi. Lasciateli stare i genovesi. Difendiamoli i
genovesi, anche da loro stessi quando non riescono a vivere e ad affrontare il
dolore senza tormentarsi con polemiche che, ad oggi, non hanno alcun senso né
sono segno di vero amore per il bene comune.
Genova
risorgerà? Senz’altro? Quando? Non si sa. Adesso è il tempo di ingoiare fino in
fondo il groppo della paura, dell’angoscia, della assoluta fragilità della nostra
esistenza. Solo da qui, da questo venerdì santo tutto genovese potremmo
risorgere.
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