Parlare di libertà di coscienza attraverso l’esamina della vita e degli scritti del cardinale inglese John Henry Newman (1801-1890) non è impresa facile a farsi. Non si può parlare di Newman senza far costante riferimento al valore fondamentale che lui attribuiva alla coscienza quale base naturale e religiosa per la concretizzazione delle opinioni personali dell’uomo, rendendo di fatto il prelato inglese uno dei massimi esponenti della cosiddetta filosofia dell’azione, come fu riconosciuto a suo tempo dai filosofi Nicola Abbagnano e Giovanni Reale. La produzione letteraria newmaniana, nella sua complessità, è intrisa di questa costante ricerca di sé stesso: il ricchissimo epistolario, i trattati apologetici, le opere filosofiche, i romanzi e, anche, gli articoli redatti da Newman trasudano di questo anelito di libertà e di autocoscienza che lo rendono, per molti aspetti, un “Agostino moderno”. Nella sua biografia apologetica, intitolata Apologia pro vita sua (1864), Newman esplica, con uno stile narrativo improntato all’esperienza empirica, quella che lui chiama “la storia della sua anima” motivando, davanti all’opinione pubblica che non aveva mai perdonato la sua conversione al cattolicesimo, prima i vari “cambiamenti d’opinione” all’interno della Chiesa Anglicana, poi il suo passaggio alla Chiesa Cattolica. Questa vocazione alla libertà di coscienza, però, non vuol dire assoluta arbitrarietà dell’agire umano, inteso come quell’hic et nunc autarchico che slega l’agire umano da qualsiasi tipo di relazione. Newman stesso, nella Lettera al Duca di Norfolk (1875), si preoccupa di coniare in più passaggi cosa sia la coscienza cristianamente intesa: «la coscienza non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui ... ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suo rappresentanti», dove per rappresentanti si intendono i Vicari di Cristo. La coscienza, intesa quindi come quella voce silenziosa già rimarcata dagli antichi filosofi e poi scoperta nella sua interezza con il messaggio cristiano, è pertanto quel trait d’union che lega la Creatura con il Creatore in un vincolo di consapevolezza della scelta delle proprie azioni: «la coscienza ha diritti perché ha doveri», scrive a tal proposito il futuro cardinale. La costante – quasi ossessiva – attenzione posta sul valore della coscienza, intesa secondo la scia tracciata da Agostino d’Ippona col suo motto scito te ipsum, si può comprendere soltanto contrastivamente con l’interpretazione “liberale” in vigore nel XIX secolo e che ancora oggi continua a persistere, secondo la definizione di Benedetto XVI, sotto la denominazione di “relativismo etico”:
«[gli uomini] intendono [per coscienza] il diritto di pensare, parlare, scrivere e agire secondo il proprio giudizio e il proprio umore senza darsi alcun pensiero di Dio … rivendicano semplicemente … di essere ciò padron[i] di se stess[i] in ogni cosa, di professare quello che gli piace senza dover avere il beneplacito di chicchessia».
Sulla base di queste osservazioni, rielaborate in modo più approfondito e in chiave epistemologica nel trattato filosofico La Grammatica dell’Assenso, si può comprendere in tutta la sua forza quel motto letterario citato dai divulgatori dell’opera newmaniana quale simbolo sia del valore della Coscienza, sia del suo rapporto con il dogma dell’infallibilità papale: «Senza dubbio … brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla Coscienza, poi al Papa».
L’efficacia dell’espressione non si potrebbe comprendere se prima non si analizza il retroterra storico-religioso che fa da sfondo alla redazione dell’opera. Essa fu redatta, sotto forma di lettera, dall’ormai cattolico Newman come controrisposta alla dura presa di posizione formulata dal primo ministro conservatore William Ewart Gladstone il quale, in un articolo intitolato The Vatican decrees, accusò duramente i cattolici inglesi di non essere più buoni fedeli di Sua Maestà Britannica a causa della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale. Secondo l’anglicano Gladstone, i cristiani fedeli a Roma erano vincolati in ogni decisione, sia spirituale che politica, alla volontà pontificia. Davanti a quest’interpretazione fuorviante, il pacifico e serafico Newman, spinto dal leader dei cattolici inglesi e destinatario fittizio della lettera apologetica, Henry Fitzalan Howard XV° duca di Norfolk, decise di scendere in campo per affermare l’esatta correttezza interpretativa del documento conciliare e per ribadire l’esatta interpretazione della coscienza che il dogma, in sé, non inficiava. L’opera, completamente scevra di quell’acredine confessionale che caratterizzava i pamphlet teologici composti da cristiani di diversa confessione religiosa, è impregnata al contrario di una profondità intellettuale insolita e di grande serenità umana. Gli elementi stilistico-tematici dominanti, vale a dire il radicato umanesimo cristiano, lo squisito stile colloquiale tipico della buona società britannica e il finissimo humor, permettono a Newman di ricusare diplomaticamente le dichiarazioni di Gladstone, suo vecchio amico fin dai tempi di Oxford. Se la coscienza è quella «voce divina che parla a ciascuno di noi», essa «non può entrare direttamente in conflitto con l’infallibilità della Chiesa o del Papa», i quali sono infallibili appunto perché eredi della dottrina impartita alla Chiesa da Cristo stesso. Al contrario, «un Papa non è infallibile nelle sue leggi, né nei suoi ordini, né nei suoi atti di Stato o nella sua amministrazione e strategia pubblica» e che «nessun Papa potrà mai creare per i suoi scopi personali, come vorrebbe l’obiezione [di Gladstone, NdA.], una falsa coscienza», dove per falsa coscienza si intende la commistione di verità divine con interessi prettamente umani, com’era avvenuto nel passato quando, per esempio, papa Sisto V (1585-1590) benedisse l’Invencible armada lanciata dal cattolico Filippo II di Spagna contro la protestante Elisabetta I Tudor. Pertanto, la prima vera Vicaria di Cristo è la Coscienza, senza la quale non vi può essere una piena adesione al messaggio divino lasciato in eredità ai successori di Pietro.
Il messaggio fondamentale che Newman volle lasciare in eredità ai cristiani delle generazioni future (un’eredità accolta assai positivamente dal magistero della Chiesa nei decenni a venire, tanto da considerare il prelato inglese come «il Padre assente del Concilio Vaticano II») consiste, in conclusione, nella presa di coscienza critica, da parte dei cristiani cattolici, del proprio impegno sia verso le promesse battesimali, sia verso quell’impegno nella società civile cui il cristiano, nella sua vocazione alla carità, non può sottrarsi. Ed è in questo lascito che Newman può essere considerato uno dei nuovi giganti su cui noi “nani”, secondo la felice definizione di Bernardo di Chartres, possiamo scorgere gli infiniti prati che la fede in Cristo continua ad offrire.
Christian Alberto Polli su Nipoti di Maritain n.02/2016
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