«La dissacrazione è uno dei meccanismi
di provocazione più utilizzati dall’arte contemporanea proprio perché va a
intaccare il senso del sacro che ha radici profonde nell’umano e nella
comunità»
(A. Crespi, Ars Attack. Il bluff del contemporaneo, Johan & Levi, Milano 2013, p. 38).
Nel cogliere un tratto distintivo dei filoni
visivi attuali, Crespi diagnostica una deriva delle arti che consiste nel
rigetto di princìpi che per secoli avevano colmato di senso e di valore
l’orizzonte spirituale dell’uomo. Un simile j’accuse
è alla base altresì del pensiero del francese Jean Clair, lucidamente esposto
in “Critica della modernità” e, con maggior durezza, in “De Immundo”, ove si
parla di «potenza profanatrice» dell’arte odierna (p. 30). Le idee di questi
autori sono censorie o inficiate da pregiudizi? Se l’idea di Hans Sedlmayr,
adombrata nel suo “Perdita del centro”, di una fine dell’arte, provocata
dall’allontanamento dell’uomo da Dio, trascende una valutazione
storico-artistica stricto sensu, è
lecito tuttavia interrogarsi su alcune espressioni che disvelano un’arte
disumanizzata, svuotata di significati e di etica. Ciò viene denunciato inoltre
da Simona Maggiorelli nel suo recente libro “Attacco all’arte. La bellezza
negata”, in cui si rileva segnatamente l’asservimento dell’arte al mercato e il
suo naufragio nichilista. Data la vastità del tema del blasfemo nell’arte di
oggi, ci focalizzeremo solo su alcune opere, mostrandone le aporie e proponendo
alcune riflessioni.
Le avanguardie dei primi due decenni del
Novecento non generarono – come Sedlmayr paventava – l’eclissi del rapporto con
il divino: anche se furono scardinati elementi formali e iconografici
cristallizzati dalla tradizione, provocando esiti inauditi in spregio a ogni
canone, non si spense mai negli artisti di quel tempo la fede o l’afflato
spirituale, spesso di impronta cattolica o legata a differenti correnti di
pensiero, come la teosofia. L’opera di Max Ernst “La Vergine sculaccia il bambino
Gesù davanti a tre testimoni” del 1926, che gli costò la scomunica, risulta
eversiva nei confronti delle convenzioni religiose e sociali della borghesia,
giacché tale era lo scopo del dada e del surrealismo, ma senza intenzioni
propriamente sacrileghe da parte dell’autore. Emil Nolde, nel dare alle figure
di Cristo e degli apostoli tratti mostruosi e deformati, era mosso da una
peculiare ideologia che non intendeva oltraggiare la religione: questa veniva
riletta risalendo a una visione ancestrale e arcaica del mondo, pienamente
connessa con la ricerca del divino. Siamo di fronte a opere blasfeme o
sull’orlo del blasfemo? Un’asserzione risulterebbe sbrigativa.
È invece a partire dagli ultimi decenni del
Novecento a oggi che si osservano un’estremizzazione e una gratuità di certi
metodi di spiazzamento e di sovvertimento dei valori, che segnano un mutamento
rispetto alle prime avanguardie. “Piss Christ” di Andres Serrano del 1987 è una
foto che ritrae un crocifisso completamente immerso nell’urina: il simbolo del
sacrificio compiuto per amore viene affogato nell’immondo; l’opera provocò
l’ira di molti cattolici, alcuni dei quali nel 2011 tentarono di distruggerla
in occasione di una mostra tenutasi ad Avignone. La rana crocifissa di Martin
Kippenberger del 1990, invisa a Ratzinger, voleva essere una denuncia dell’uomo
abbruttito dall’alcool e da altre bassezze, ma sconvolse financo uno storico
dell’arte come Philippe Daverio. Benché gli autori si siano discolpati da
intenzioni blasfeme, è legittimo sospettarne l’ipocrisia: essi, infatti, hanno
sfruttato il meccanismo della dissacrazione e dello sconfinamento in modo da
attrarre e da solleticare l’interesse morboso del pubblico, con notevole
riscontro in termini di pubblicità e di notorietà. È pertanto l’appiattimento
sullo shock e sul sensazionale – ormai consueti nella nostra epoca – che si
ricusa: gli esponenti delle avanguardie storiche impiegarono tali mezzi per una
convinta critica della società, al costo di rimanere isolati o perseguitati,
mentre l’artista odierno, con
scaltro calcolo, impiega a suo favore le strategie del marketing, alimentando
il clamore e lo scandalo, come garanzia di promozione commerciale,
incurante del sentimento religioso o del rispetto che andrebbe riservato alla
potenza dei simboli.
Il Cristo e il Buddha tramutati nel clown
Ronald McDonald di Jani Leinonen o il Gesù bambino con le sembianze di Hitler
in braccio alla madonna di Giuseppe Veneziano sono mere provocazioni? Non si
nega la genialità di questi artisti, ma utilizzare figure che hanno un peso sul
piano religioso, ideologico o istituzionale è una classica mossa del
contemporaneo, divenuta ormai quasi scontata. La libertà dell’artista non va
messa in dubbio, ma occorre riflettere se siano accettabili o meno
l’appropriazione e la dissacrazione fine a se stessa di figure legate alla
dimensione sacra, in particolare quando vengono trasformati in modo ridicolo o
quando viene stravolta loro “identità”. Si osserva oggigiorno il rovinoso crollo della frontiera
tra i concetti di critica e di insulto, tant’è che spesso vengono
impropriamente ritenuti sinonimi. La legittimità della critica alle istituzioni
religiose, se attuata senza sfociare nella diffamazione, va quindi difesa:
esempi inquietanti ma pertinenti sono la serie di fotografie “Gli intoccabili”
del cubano Erik Ravelo del 2013, raffiguranti bambini crocifissi sui loro
stessi aguzzini, e “Lucky Ehi” di Fabio Viale del 2017, una copia della “Pietà”
di Michelangelo in cui la figura di Cristo è sostituita da quella di un
immigrato africano, operazione che ha riattualizzato l’immagine di Gesù, in
quanto questi si identifica con chiunque venga respinto e disprezzato.
Sebbene l’analisi di un’opera non possa essere
affrontata da una visuale moralistica o peggio ancora bigotta, è possibile
tuttavia basarsi sull’assunto che l’arte è linguaggio e che il suo fine è
comunicare e al contempo muovere una critica. Di fronte ad alcune realizzazioni
disturbanti è perciò possibile dubitare che esse abbiano la valenza di opere di
denuncia, giacché si avvicinano piuttosto a una gratuita provocazione, a volte
denigratoria, anche quando le intenzioni originarie non lo erano. Se la
bellezza è stata esiliata dal campo dell’arte, è discutibile che le venga però
negata la sua missione di veicolare un messaggio profondo, di elevazione e di
trasfigurazione del mondo. La scelta dei mezzi espressivi dovrebbe riflettere
la responsabilità etica e l’onestà intellettuale dell’artista, al quale spetta
il compito di mantener salda l’unione tra forma e contenuto, che la
contemporaneità ideologica ha dissociato in modo estraniante. Dunque, più che di un deliberato atto di
blasfemia visiva, si può parlare piuttosto di una cinica strumentalizzazione
votata al facile sensazionalismo.
Alessio Santiago Policarpo su Nipoti di Maritain n.9 (luglio 2020).
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