Si può osservare, tuttavia, una crescita
costante della forza attiva dei miti, o per meglio dire, degli Immaginari, che,
pur avendo breve durata rispetto al passato e trovandosi in contesti più che
differenti rispetto all’originale, riescono a conservare un velo di nulla, come direbbe Sartre. Per
fare un esempio dall’attualità politica potremmo riferirci all’uso
mass-mediatico della canzone partigiana Bella
Ciao, che, anche fuori dai temi dell’antifascismo, riesce comunque a
com-muovere l’uditorio. La ritroviamo infatti con un testo diverso nelle piazze
dei Fridays, nelle Serie tv e,
ultimamente, anche cantata dalla Commissione Europea. Non spetta a noi
giudicare l’uso strumentale o meno di certi Miti o Immaginari, perché ciò che
ci interessa è proprio il loro uso, ben sapendo che i simboli sono da sempre
“per” qualcosa e da sempre sono lontani dal mondo che vorrebbero richiamare.
Secondo Fulvio Carmagnola (Il Mito
profanato p. 10) al Mito tocca una sorte strana, perché esso è sempre già
profanazione, cioè, come dice anche Giorgio Agamben, re-immissione del Sacro
nell’uso comune delle cose. Potremmo dire che già il Mito, nel momento stesso
in cui viene composto, è già un rendere meno sacro qualcosa. Però che un
simbolo possa venir richiamato quando il suo pubblico – la sua realtà – è ormai
scomparso non è un evento nuovo che caratterizza solo la società contemporanea.
Si potrebbe fare l’esempio della parola d’ordine, oggi diremmo Slogan, della Prima Guerra Persiana,
cioè “liberare i Greci d’Asia”. Chi si è confrontato un po’ con la storia greca
ricorderà che questo stesso Slogan è
stato usato dagli Spartani nelle guerre contro la Persia di due secoli dopo; in
seguito ancora sia da Filippo di Macedonia che da Alessandro Magno, e, infine,
addirittura, durante le guerre romane contro i Parti! Questo perché, anche se
la Comunità a cui era originalmente rivolto non esisteva più, il mito della
libertà dei Greci d’Asia manteneva una carica simbolica enorme, utilissima per
la propaganda politica. Prendiamo però in esame altri miti molto usati
recentemente in ambito politico, cioè la “Civiltà cristiana” (o anche le
“radici cristiane dell’Europa o dell’Occidente”). Secondo Riccardi, fondatore
della “Comunità di Sant’Egidio”, (video-intervista a Presa Diretta del 13-02-2020) ci sarebbe oggi un tentativo di
utilizzo “nazionale” del Cristianesimo Cattolico, che per sua natura, invece,
sarebbe universale. Si direbbe una profanazione, come le precedenti, ed è
evidente il fatto che essa è una profanazione di profanazione, perché non è
certo la prima volta che questi Miti religiosi vengono usati a scopo politico. Ovviamente
per Riccardi essa è innegabilmente negativa, ma è possibile, invece, utilizzare
la profanazione in termini positivi? Agamben pensa di sì, anzi, la profanazione
sarebbe l’unico modo per intendere correttamente il mito, a patto che essa non
si fermi, o meglio, che resti sempre profanazione, senza “solidificarsi” nel
Sacro. Abbiamo visto che è proprio del mito fin dalle origini “profanare” e
vivere proprio di questa opera, ma, se è vero che con la profanazione si
avvicina il Sacro al profano, cioè al mondo del senso comune, perché è
possibile profanare e ri-profanare uno stesso mito, senza esaurire mai la serie
delle profanazioni? Agamben utilizza la metafora fisica dell’alto-basso, nella
quale il Mito occupa l’alto e il basso invece è l’uso ordinario delle cose. L’ottimo
sarebbe una profanazione senza sbocco,
un uso senza uso, in modo tale da non produrre altri miti da sé, ma questo non
avviene, né può avvenire. Anche negli esempi “perfetti” di profanazione senza
sbocco, cioè l’arte astratta, il design, l’alta moda, che usano senza scopo,
sono valore senza esserlo, c’è sempre uno sbocco “Sacro”, in quanto proprio
queste esperienze vengono elevate, sottratte all’ordinario e divengono quindi
un nuovo Sacro. Oppure semplicemente ci si annoia. Tutte le forme di “gioco”,
come il Dada, alla fine si stancano del proprio stesso movimento profanatorio
senza sbocco. È il caso di alcuni designer olandesi, i Droog, che hanno provato a “giocare” con la dinamica commerciale
dell’arte contemporanea, che assegna come criterio di qualità un prezzo ad ogni
opera. (Carmagnola, Il mito Profanato,
pp. 24-35). Hanno provato infatti a far assegnare ai visitatori delle loro
mostre il prezzo delle opere, de-costruendo il meccanismo valore-qualità
dell’opera. Però poi semplicemente si sono stancati di continuare!
Quindi, tralasciando la possibilità di rimanere
nel gioco-profanazione senza sbocco, torniamo al Mito. La dinamica alto-basso
della profanazione non rende conto del fatto che le profanazioni sono continue
e non avvicinano mai davvero il Sacro all’ordinario. Per fare un esempio
dobbiamo immaginare “il profanatore” e i suoi simili come un centro di una circonferenza
e i punti della circonferenza come il piano del simbolico-Sacro. Ogni
profanazione non farà scendere il punto della circonferenza verso il suo
pubblico, ma lo sposterà sulla circonferenza, producendo sì un movimento, una
velocità e anche un’accelerazione, ma angolari! La distanza tra simbolico e
ordinario non si riduce mai, perché come sappiamo ogni punto della
circonferenza è equidistante dal suo centro. In questo modo è possibile
immaginare quello che vediamo nel nostro mondo post-simbolico, cioè continue
profanazioni che non restituiscono il mito, il Sacro all’ordinario, ma solo lo
spostano più in là sulla circonferenza. Non possiamo quindi “profanare senza
uso”, ma nemmeno possiamo arrenderci di fronte alla ridda di continue
profanazioni. Cosa serve, allora, per interpretare questi movimenti angolari,
sempre più veloci e contraddittori che avvengono nel Mondo post-simbolico?
Dovremmo accettare fino in fondo la mitopoiesi e discuterla criticamente, senza
però aspettarci una fine del Mito, né una fine della Critica-Profanazione:
rassegnarci al movimento insomma. La risposta, quindi, è forse antica, cioè
utilizzare la lentezza, la calma concettuale del pensiero che osserva i
movimenti, non li nega, né li esalta, e aspetta il far della sera.
Commenti