di Domenico Bilotti
Se volessimo schematicamente dividere in due tronconi la critica
manzoniana sui personaggi de “I Promessi Sposi”, avremmo probabilmente quelli
che vedono nei personaggi di Manzoni funzioni narrative molto tornite, ma
sempre strumentali a uno svolgimento logico-morale, da un lato, e quelli che,
invece, sottolineano la dignità e l’autonomia di ogni singola voce, anche la
più piccola (anche la “comparsa”, si direbbe al cinema), dall’altro.
La singolarità e l’eccezionalità di un personaggio come Fra Cristoforo metterebbero d’accordo le due tendenze, salvo poi vederle a ridividersi sui perché e sui quanto di questa singolarità e di questa eccezionalità.
Fra Cristoforo è frate cappuccino. Lo ricaviamo, innanzitutto, dal modo in cui sono raccontate le modalità attraverso cui il personaggio si adegua -e con che profondità ben più che auto-identificativa- alle prescrizioni interne della sua appartenenza, che, in realtà, eccedono o attuano e specificano l’ambito propriamente canonistico (in ciascun ordine, infatti, può essere forte anche quella consuetudine che non arriva mai a codificazione scritta di regola e, nondimeno, anima profondamente la vita e l’obbedienza dei singoli membri).
E, tuttavia, la parvenza fisica di Lodovico-Cristoforo giace tutta nella dialettica tra Provvidenza e inquietudine esistenziale. Il volto è scavato dal digiuno, ma anziché presentarsi emaciato acquisisce una carica di austerità e forza. Gli occhi saettano e lo stesso artefice di quello sguardo (a turno: vivace, furente, compassionevole) deve tenerli a bada, con mesta, sobria e fallibile autorevolezza e auto-coscienza.
Potremmo dire che in Cristoforo dietro ogni ruga c’è una cicatrice: un accidentato crocevia tra intemperanze caratteriali, insofferenza all’ingiustizia, eventi luttuosi e inquietudine interiore.
Caratteristiche, del resto, che, in una continuità giustamente valutata di “sapore giansenistico”, non sono estranee all’uomo che c’era prima del saio: di modi signorili, figlio di uomo di commerci e fortune materiali, ma di limitato ascendente sul ceto propriamente nobiliare, il giovine detestava e inveiva contro soverchierie e convenzionalismi. È a causa di questi, in particolar modo: sul diritto di precedenza al passo con un nobile, che compie un delitto: certo è anche peccato, ma nella sua ontologia per gli ordinamenti giuridici secolari sta, verosimilmente, a metà tra lo sdegno per gli eredi del mondo post-feudale e le loro rigide maniere artefatte, che difendono la propria asserita inviolabilità, e il ricorso al duello per questioni solo formalmente riconducibili all’onore, sebbene implicanti un’astiosità mai dichiarata verso l’arroganza del potere dogmatico, censitario ed ereditario (Manzoni ci dice che si può essere nemici senza conoscersi).
Lodovico, però, lungi dal divenire guerrigliero o brigante, come molti furono, anche in ossequio all’idealismo, tra il XIII e il XVII secolo in Italia, riconosce nella propria condotta davvero il crimen che nasce dall’offuscamento dei cuori: non si risponde a male con male, a una violenza di classe (alta) con una violenza ricercata a tutela di una classe più bassa. Si rifugia, così, in un convento e qui troviamo gli estremi di un altro, possibile, contenzioso giuridico che nel voto di Lodovico riceve compensazione, ma che, probabilmente, Manzoni tocca senza sapere scendere nel dettaglio: la situazione paradossale dei cappuccini del convento. Essi si trovano a dare, e devono dare, rifugio a chi ha chiesto loro asilo, tremebondo, ma così facendo vanno contro al desiderio di vendetta di una famiglia nobiliare, che, altrimenti, dovrebbe aprire un alterco formale con l’istituzione ecclesiale, per farsi ridare o, comunque sia, riottenere il presule e -facile a dirsi- farne scempio.
Non manca in Cristoforo la forza di prendere decisioni che mettono in moto la storia. Se quella sua personale è definitivamente movimentata dal desiderio di un’esistenza più vera, che, però, ha coinciso con un gesto tra ribellione e furore, tra delitto e liberazione, tra segregazione e purezza, nel quadro generale dell’opera grande rilievo assume il progetto di istruire la fuga di Lucia e Renzo dal territorio lecchese.
Del resto, ancora nel primo scorcio del volume, il colloquio di Cristoforo con Don Rodrigo, così discontinuo rispetto ai bagordi del Palazzotto (una vita che, verosimilmente, non aveva caratterizzato per libagioni, sfrontatezze e, soprattutto, gratuite ingiustizie nemmeno il giovane Lodovico), si conclude con una premonizione finale, stanca, un po’ irata, preoccupata, che annuncia al “tirannello” sventure e, soprattutto, apre brecce, poi richiuse, nella sua coscienza.
Ed è sempre un Cristoforo di pensosa spiritualità e di approfondito travaglio interiore che affronta la peste, che altera la temperatura del corpo e devasta i pensieri dei più: nel suo tormentato e, però, certo abbandono di resistenze biofisiche al morbo assassino, non trasecola per il dolore, ma ammonisce a non ricercare vendetta.
Come Don Rodrigo non è buttato dal Manzoni nell’improbabile resa dei conti di un girone infernale (il Griso lo vende per trenta denari, in fondo dovremmo dire, se aderissimo a un’interpretazione esclusivamente negativistica del personaggio evangelico di Giuda), come Renzo viene restituito solo alla fine del libro a quel sogno di robusti vincoli familiari esteriori e di benessere monocorde, così Cristoforo si immerge stanco nel suo letto di morte. Il giovane non conformista, l’omicida occasionale da rissa e duello che poteva pure finire ucciso, il cappuccino devoto, il viandante che cerca la tregua col potere solo a beneficio della quieta esistenza degli umili, lì convenuti e da sempre riuniti, non cessano di restituirci un personaggio così inquieto, eppure (o proprio per questo) di integrità sensazionale.
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