di Rocco Gumina
“Prendete nelle vostre
mani la vostra vita e vogliate decidere di farne un autentico e personale
capolavoro”. Così Giovanni Paolo II si rivolgeva nel 1985 ai giovani genovesi.
L’invito del Papa polacco, recentemente canonizzato, stimola il mondo giovanile
alla responsabilità personale, ecclesiale e civile per rispondere alla chiamata
alla santità proposta da Dio e pertanto per rendere l’esistenza un capolavoro.
Tali parole hanno un oggettivo significato in ogni parte del globo sia nei Paesi
dove il cattolicesimo è ampiamente diffuso e radicato, sia nelle terre
destinate alla prima evangelizzazione. Tuttavia, in un territorio così ricco di
problematiche sociali, politiche e ambientali – qual è il mezzogiorno italiano
dove si trova la nostra Sicilia – questo invito mette chiaramente in risalto
come il problema giovanile dell’assenza di formazione e preparazione umana, del
lavoro, di una prospettiva credibile per progettare il futuro si leghi a filo
doppio alla comunità ecclesiale.
Talvolta nelle parrocchie
dove vi sono maggiori investimenti educativi, formativi, spirituali e anche
economici per la pastorale giovanile si presenta la questione di un inaspettato
e immaturo cambio generazionale degli educatori. Infatti, centinaia di giovani
del sud – fra questi tanti formati e impegnati nelle parrocchie – per
continuare il percorso di studio all’università o per ricercare lavoro si
recano in altre regioni italiane. Suddetto dato ha dei risvolti positivi – si
pensi alle esperienze di crescita accademica, umana e lavorativa che compiono i
nostri giovani fuori dal proprio contesto locale – ma anche negativi se
osserviamo attentamente lo smembramento del tessuto parrocchiale, sociale e in
genere umano che provoca l’esodo verso città più ricche e con possibilità
d’inserimento lavorativo e sociale.
La comunità ecclesiale non
ha certo fra le sue finalità la progettazione politica di autentici, duraturi e
trasparenti percorsi di sviluppo per il nostro territorio tali da consentire la
permanenza in città della quasi totalità dei giovani. Nondimeno, le parrocchie
sono investite di una responsabilità assai importante: formare i giovani sin
dai primi anni dell’adolescenza affinché nel futuro prossimo – ovunque si
trovino – siano testimoni credibili di Cristo risorto ma anche autentici
cittadini attivi in una società plurale, diversificata e ormai da parecchio
tempo non più “cattolica”. Questa missione delle parrocchie può essere espressa
metaforicamente tramite la figura dei genitori i quali educano, temprano,
formano i propri figli poi destinati a fiorire in luoghi distanti da quelli
delle origini. Se è davvero questa la finalità della comunità parrocchiale per
i propri membri più giovani, allora bisogna interrogarsi sui metodi, sulle proposte
e sulle possibilità che l’intera famiglia della parrocchia – in primis i
ministri ordinati assieme agli educatori – offre dinanzi al problema giovanile.
Anzitutto pare d’obbligo
precisare che i giovani vanno pian piano seguiti, accompagnati, formati nella
prospettiva umana-spirituale. Questa trova il mezzo nei percorsi educativi
dell’anno pastorale, il culmine nella partecipazione
consapevole alla liturgia e solo secondariamente alle attività esterne,
celebrative e connesse alle ricorrenze parrocchiali. Circa quest’ultime
attività, i giovani dovranno essere collaboratori ubbidienti e preferibilmente
non stabili degli educatori adulti e dei ministri ordinati onde evitare che le
forze, l’attenzione e l’impegno per il primario ordine educativo-spirituale
siano messe da parte o del tutto annullate. Qualora non fossero presenti e
disponibili educatori adulti per l’organizzazione delle attività celebrative,
non siano i giovani a sostituirli poiché non occorre bruciare in anticipo una
vitalità da indirizzare verso la formazione. Il fine della parrocchia,
soprattutto per i giovani, è di ordine formativo-educativo-spirituale. Se non
si trovano le forze per la preparazione e lo svolgimento di eventi celebrativi
e festaioli vi si può anche rinunciare.
Inoltre, sarebbe opportuno – prima di offrire
pacchetti di proposte spirituali o ricreative – ascoltare con dovuta calma e
dovizia i giovani i quali sono portatori di interessi, di ansie, di progetti,
di idealità, di passioni, di vitalità e soprattutto di carismi che – anche se
non in linea con percorsi già avviati da tempo nelle parrocchie – vanno
valorizzati, indirizzati e definitivamente liberati per portare molto frutto.
Ascoltare realmente apre alla dimensione della vera collegialità che pertanto
deve includere condivisione nelle scelte pastorali, organizzative, economiche.
A me pare, pertanto, che
il problema giovanile sia questione ecclesiale da affrontare con i mezzi di cui
la Chiesa dispone: l’annuncio di Cristo che converte l’uomo e salva il mondo.
Solo in questa dimensione possiamo cogliere il vero fine della nostra missione
e dunque relativizzare molte dimensioni che spesso ci appesantiscono, ci
annebbiano la mente e ci impediscono di pensare che aver formato giovani oggi
impegnati in parrocchie e città distanti da noi sia un’autentica
ricchezza.
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