E’ il
giorno di Pasqua, la domenica della risurrezione. Arriviamo qui dopo una
settimana così densa di tragedie e di sofferenze vissute attraverso la
televisione, i giornali e i mezzi di informazione. Dall’autobus spagnolo pieno
di giovani morti, fino ad arrivare al kamikaze nello stadio in Iraq, passando
attraverso i tragici fatti di Bruxelles che nuovamente ci lasciano basiti
e senza certezze.
Ancora
una volta, per fortuna, possiamo però annunciare la Pasqua del Signore, la sua
risurrezione, la sua vittoria sulla morte.
Non
voglio soffermarmi a parlare di queste cose, ma, partendo da un altro
evento triste di questi giorni, ho voglia di trattare un argomento a me molto
caro ma decisamente più leggero di quelli sopracitati, ovvero il calcio.
Johan
Cruijff scomparso l’altro ieri a 68 anni dopo aver combattuto contro una brutta
malattia è stato uno dei più grandi calciatori e poi allenatori di tutti i
tempi, avendo militato e vinto tutto nell’Ajax e nel Barcellona.
La
sua grandezza, oltre alle indiscusse doti tecniche, sta, senza dubbio,
nell’essere stato icona di un momento di passaggio storico per lo sport del
calcio che andava di pari passo con l’intera società del tempo.
Il
fenomeno sportivo del cosiddetto “calcio totale” prende infatti il largo in
quelli anni nella sua Ajax e nella nazionale olandese.
Il
“calcio totale” è stato un sistema di gioco che, basandosi sui principi della
flessibilità dei ruoli e di funzione dei giocatori (tutti attaccano e tutti
difendono), ha rivoluzionato i concetti statici e quasi militareschi del calcio
del tempo dove disciplina in campo e ordine nei ruoli spadroneggiavano nelle
altre squadre di club o compagini nazionali.
In
quelli anni di rivoluzione sociale e culturale – siamo a cavallo fra la fine
degli anni ’60 e i primi anni ’70 – il modello calcistico olandese è diventato
lo specchio di una società in mutamento radicale. Il “calcio totale” è stato “il
1968 del pallone” e Johan Cruijff ne è stato la punta di diamante.
Ho
sempre pensato che il calcio sia ben più di uno sport. Esso si inserisce in
modo inscindibile nella società e nella cultura che abita, proprio per merito
della sua popolarità.
Sa
prendere i vizi e le virtù di ogni popolo, di ogni cultura e li porta con sé
all’interno del rettangolo di gioco.
Forse
anche per questo guardo alla contemporaneità con un filo di rammarico.
Mi
domando che cosa potrebbe rivoluzionare da una parte il calcio di oggi? Che
cosa potrebbe cambiare dall’altra la società odierna?
Provo
allora a rispondere a queste domande che mi sono posto, perché penso che possano
esserci risposte comuni, per quanto possa sembrare impossibile.
La
prima risposta non è relativa al “gioco”, ma alla struttura del mondo del
calcio e dall’altra parte a quella della società che viviamo. Il calcio, per
rilanciare se stesso, deve riuscire a far passare in secondo piano tutti gli
aspetti affaristici che lo imbrigliano. Milioni, televisioni, interessi,
business. Ormai anche i giornali sportivi spesso affrontano questioni di
bilanci dei club, di sponsorizzazioni, di premi sportivi e parlano meno delle
questioni di campo e del gioco. Sicuramente gli aspetti economici hanno un
valore anche nello sport, ma non possono diventare una delle fette principali
della torta. La porzione più importante deve averla lo spettacolo, il
divertimento, la passione, lo sport.
Queste
affermazioni sono totalmente sovrapponibili alla società contemporanea.
Sappiamo quanto il legame con il denaro complichi la nostra vita e aumenti le
diseguaglianze fra gli uomini. Una società che mette al centro il profitto è
una società che ha fallito in partenza, che non è capace di essere fertile e
che arriva a distruggere gli ultimi e gli indifesi pur di arrivare al successo.
Rivedendo
dunque la presenza di aspetti strettamente economicistici e affaristici dal
mondo del calcio e dalla nostra società potremo dare slancio a un primo
cambiamento che rimetta al centro da una parte la passione per il gioco e
dall’altra quella per la vita.
Altro
aspetto attraverso il quale provo a rispondere a queste domande è più
strettamente legato al gioco, da una parte, e alle dinamiche che muovono la
società dall’altra.
Il
gioco del calcio ha cercato di dare una forte priorità, anche per colpa dei
media, alla figura del leader carismatico, sia esso il grande campione in campo
o l’allenatore condottiero in panchina, a discapito, troppo spesso, dell’elogio
della squadra intera. Tutto questo nonostante, parecchie volte, siano gli stessi
protagonisti del gioco a sottolineare l’importanza di tutta la squadra nel
conseguire successi anche personali. Ma gli appassionati hanno bisogno del
campione, del leader, del condottiero, di qualcuno in cui identificare i
successi o gli insuccessi, le cadute o i trionfi. Anche in questo il calcio è
diventato specchio della nostra società incapace di far sua la logica del
gruppo, l’idea della squadra. La società ha bisogno di trovare l’individuo sul
quale caricare o tutte le proprie speranze per salvarsi o tutte le colpe per i
fallimenti. Non vi è idea o immagine di corresponsabilità e manca una reale
educazione in questo. Lo sport, e nello specifico lo sport di squadra, è arrivato
anch’esso a questo punto. Nel calcio lo vediamo con gli allenatori: osannati
quando vincono, esonerati appena perdono. Mi hanno colpito molto le parole dell’allenatore
del Bayern Monaco Guardiola al termine dell’ottavo di finale di ritorno contro
la Juventus in cui sostanzialmente diceva: “Al 90esimo ero un fallito, al
91esimo dopo il nostro gol sono diventato un eroe.” E in quella partita il
rovescio della medaglia subito dal giocatore della Juventus Patrice Evra
fortemente attaccato dai tifosi sui social network per non aver ben gestito
quell’ultimo pallone. Evra che fino alla partita antecedente era leader
indiscusso della squadra bianconera.
L’invito
dunque per la nostra società e per il mondo del calcio è quello di recuperare
raziocinio nel gestire i momenti alti e i momenti critici e soprattutto tornare
a quello spirito di squadra che ci potrà permettere di guardare al futuro con
speranza e fiducia. Le vittorie sono reali quando siamo consapevoli di
raggiungerle insieme e le sconfitte possono essere superate velocemente se
ciascuno sa riconoscere le proprie responsabilità.
E in
tutto questo il calcio italiano come sta? Il calcio italiano è come il paese
che rappresenta: estremamente legato a forme e schemi del passato, incapace di
proporre qualcosa di innovativo e originale. Strutture vecchie, squadre che non
hanno il coraggio di dare spazio ai giovani e la crisi che non è stata del
tutto colta come strumento per innovare o cambiare.
Il
nostro gioco conserva però elementi tradizionali importanti che risultano
ancora abbastanza efficaci per provare ad essere competitivi a livello
internazionale. Mi riferisco su tutti alla solidità difensiva e alla
meticolosità tattica.
Ma
al giorno d’oggi è anacronistico costruire un sistema di gioco basato solo su
questi principi, così come è impensabile che le strutture istituzionali del nostro paese e le
nostre aziende possano essere leader con schemi così poco originali e
antiquati.
Per
rinnovare il calcio mi hanno molto colpito il coraggio visto da alcune
compagini nel provare a fare gioco mettendo in mostra le nostre comunque buone
basi tecniche. Vedendo recentemente la Juventus contro il Bayern o anche la
nazionale italiana contro quella spagnola si è visto come la rinascita italiana
a livello internazionale possa partire da una rivoluzione però inserita nel
solco di una tradizione forte. Non saremo italiani se non facessimo un po’ di
catenaccio, se non lavorassimo su una fase difensiva attenta e precisa, se non
costruissimo le partite attraverso piccoli dettagli tattici. Ma dall’altra parte
dobbiamo avere il coraggio di proporre un sistema di gioco moderno basato su un’occupazione
corretta di tutti gli spazi e sulla capacità di tenere palla e farla girare con
una certa velocità. Immagino un sistema di gioco misto per il calcio del nostro
paese. Offensivo e pronto a colpire in certi momenti della partita, capace di
difendere e ripartire in altri. La grandezza dei nostri allenatori starà nel
saper leggere le singole situazioni della partita e capire quando proporre la
prima piuttosto che la seconda fase.
Vedo
lo stesso per tutta la nostra società e per le sue istituzioni. Una capacità di
innovare conservando la nostra tradizionale qualità per essere in grado di
proporre delle eccellenze sempre nuove capaci di diventare nuovi punti di
riferimento a livello mondiale. Per ottenere tutto questo sarà fondamentale
svecchiare le nostre strutture, allentare la burocrazia, investire nella
formazione dei giovani, liberare energie e creatività.
Sono
anni che lo pensiamo e che lo diciamo. E’ il tempo di farlo a cominciare dalla
nostra quotidianità, dal modo in cui portiamo avanti i nostri compiti
lavorativi e professionali, da come ci interfacciamo con gli altri, da quanto
investiamo nella nostra formazione e nella nostra crescita.
Potremo
forse tornare a sognare da tifosi e da cittadini un calcio diverso inserito in
una società migliore meno legata al profitto, più coesa e più creativa.
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