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Editoriale - Nipoti di Maritain 05

Queer, ideologia e tradizione. I temi della quinta pubblicazione di Nipoti di Maritain – scelti dai lettori della nostra pagina facebook – se accostati potrebbero quasi rivelare una trama coerente. Dopotutto, è quella di un (una?) Dio che si compromette con la storia umana ad un punto così spiazzante e sconvolgente – questo, in fondo, significa queer – da incarnarsi, travalicando i confini “tradizionali” tra sacro e profano, tra divino e umano, tra potenza e debolezza. In questa tensione carica di paradossi amati dall’apostolo Paolo, nasce la Tradizione vivente nella Chiesa, che si esprime in diversi luoghi ed epoche nella forma di una pluralità di tradizioni teologiche, disciplinari, liturgiche e devozionali. Le quali tuttavia sono esposte al rischio di una sclerotizzazione ideologica – assolutizzare un punto di vista unilaterale, ovverosia quello che in teologia si definisce “eresia” – ma il discernimento ecclesiale fa capire appunto se conservarle, modificarle o abbandonarle; sto semplicemente parafrasando l’articolo 83 del Catechismo della Chiesa Cattolica. Andrea Bosio evidenzia che il cambiamento è esso stesso Tradizione; Giovanni XXIII diede una definizione analoga di questo termine: «È il progresso che è stato fatto ieri, come il progresso che noi dobbiamo fare oggi costituirà la tradizione di domani». Insomma, anche etimologicamente, è ciò che si “porta avanti”.

Alcune rappresentazioni idolatriche che l’uomo si trascina con sé sono piuttosto zavorre che possono essere decostruite magari applicando alla teologia un approccio queer, sebbene esso viva sulla sommità di due spioventi: da un lato, quello di crearsi immagini altrettanto idolatriche e scontate soffocanti ripetizioni di sé nell’idea, direbbe il nostro Davide Penna – con il chiodo fisso del desiderio sessuale; dall’altro, quello di una liquidità asessuata, indeterminata, gnosticamente disincarnata (questa è la critica di Mattia Lusetti), dove l’aspetto prescrittivo si nasconde sotto le mentite spoglie della descrizione. Possiamo apprezzare come nell’intervento del 5 ottobre 2017 Papa Francesco sia finalmente uscito da una vaga (e vana) polemica “anti-gender” per scagliarsi più puntualmente contro l’«utopia del “neutro”» che rimuove la differenza sessuale; ciò non è il queer in senso stretto, però è indubbiamente uno dei rischi, così come è altrettanto pericolosa l’esaltazione incondizionata della differenza o della minoranza sessuale con i suoi gusti più strani, qualora venisse meno la dimensione della relazionalità incarnata. Quest’ultima può essere forse una chiave per poter fare teologia – in modo sfacciatamente queer con funzione anti-idolatrica e contro le cristallizzazioni gerarchiche del potere – senza tuttavia sbandare dalla verità cristiana. Qui prova a collocarsi la teologa Stefanie Knauss, autrice di un saggio pubblicato nel recente numero 3/2017 della rivista Concilium; abbiamo avuto l’opportunità di intervistarla, chiedendole ragione della possibilità di una spiritualità e di una teologia queer, cioè della sorpresa di Dio e della parzialità delle nostre parole su di Lui (o Lei, che dir si voglia). Senza dimenticarci che ci si accosta pur sempre ad un Mistero che non può essere reificato pretestuosamente per appiopparGli teorie filosofiche post-strutturaliste che si allontanano dalla quotidianità esperienziale e dal sensus fidei del Popolo di Dio; Federico Ferrari, nella versione estesa del suo articolo che abbiamo deciso di pubblicare integralmente sul nostro blog, dice di aver avuto talvolta proprio questa «spiacevole sensazione». Personalmente, pure io ho molte riserve su certe “esegesi queer” o “cristologie bisessuali” che spesso, più che nella blasfemia, tendono a scadere in riletture soggettivisticamente spirituali – consolatorie di minoranze che reclamano una “riabilitazione” vittimistica – delle Sacre Scritture, ignorando di esse l’intentio auctoris, il dato letterale delle parole, il genere dei testi, lo sfondo storico e la profonda intimità fraterna (fisicità compresa) di cui sono capaci gli uomini, senza dover scorgere sempre e ovunque appetito sessuale. Se Vincenzo Romano afferma che ogni tradizione «è valida solo nella misura in cui fa progredire la cristificazione dei soggetti», lo stesso si potrebbe dire di ogni teologia, che non può prescindere né dalla vita dello Spirito nella Chiesa né dagli eventi pasquali avvenuti in Gesù di Nazareth, ebreo e pur sempre maschio; questo nodo sembra ineludibile.

Del resto, quasi per paradosso, quel che si propone come teologia queer difficilmente scalfisce il piano ontologico, né riesce a rendersi indispensabile per una più profonda comprensione del Mistero di Dio e dell’uomo; certamente può rimuovere alcune incrostazioni storico-sociali, ma la riverniciatura poco si addentra sotto la superficie. Per essere realmente incisiva, si potrebbe (o forse si dovrebbe) sviluppare l’intuizione di portata ontologico-trinitaria e antropologica al tempo stesso – presente, ad esempio, negli scritti mistici di Chiara Lubich – di un’accoglienza integrale che non cancella l’identità, perché l’identità si dice nell’accoglienza dell’alterità. Ognuno è realmente sé stesso essendo l’altro, per cui anche il maschile è tale quando si dice nel femminile (e viceversa): per essere unitariamente perfetto, l’uomo dovrebbe ospitare in sé tutte le caratteristiche della donna (e viceversa).

Con verve provocatoria, Niccolò Bonetti prova invece a contrastare certi esiti relativistici del decostruzionismo queer riproponendo il senso fecondo, fedele, complementare, donativo e indissolubile del matrimonio, valori che con una certa cautela prova ad estendere anche alle persone omosessuali – anch’esse chiamate alla medesima santificazione nell’amore, avvisa Mario Giagnorio – che fanno una scelta definitiva di coppia. Forse qui un criterio per discernere potrebbe essere la qualità della diversità presente in esse che metterebbe in discussione persino molte relazioni “tradizionali” tra uomo e donna. Ad ogni modo, la proposta finale di Bonetti può suonare strana – queer nel vero senso della parola – alle orecchie di chi fa del queer una bandiera. Forse è un modo per affermare, come fa Christian A. Polli, che «senza tradizione non vi può essere innovazione, e viceversa».

Resta però indiscutibile che la Buona Notizia è ontologicamente pro-vocante: ci chiama avanti; sulle nostre ferite brucia: è «sale, non miele», recita il titolo dell’ultimo libro di don Luigi M. Epicoco, e noi possiamo continuare a proporci di essere pure il pepe della terra, come premettevo nel mio primo editoriale. Lo stesso Spirito si rivela anti-ideologico in molti ambiti, perché porta una riserva di senso che ad esempio ricorda come l’uomo vada al di là di un sistema sociopolitico/tecnocratico che si propone come assoluto; in tal senso, si leggano i contributi, seppur con parvenze differenti, di Rocco Gumina e di Mattia Zerbino, ma anche di Davide Penna un commento al film Inception e una riflessione sul fenomeno migratorio che esce dalle usuali contrapposizioni ideologiche pro/contro, entrambe carenti di uno sguardo umano.

Nella sezione dedicata a Maritain, Lorenzo Banducci riprende la sua idea di un’Europa federale; mi sia concesso motivare il mio disaccordo con l’autore dell’approfondimento e con altri amici e lettori della nostra rivista. Il federalismo europeo – forse cinquant’anni fa con potenzialità feconde – ha mostrato la sua debolezza nel momento in cui la cessione di sovranità (di alcune nazioni) è divenuta copertura ideologica di un paradigma tecnocratico su cui si basano i trattati europei e il funzionamento della moneta unica. Poiché sono stati volutamente resi impossibili molti interventi di politica economica e monetaria che avrebbero potuto perlomeno attenuare le situazioni di crisi – «negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune» (Evangelii Gaudium 56) – a me tutto ciò sembra poco umano. Al contempo è vero che permangono egoismi nazionali ma in un gioco squilibrato che avvantaggia, scivolando su un piano inclinato, strutturalmente alcune parti a scapito di altre, senza prevedere riequilibri. Sulla base degli attuali trattati e del peso mastodontico di alcune nazioni rispetto ad altre, mentre le diseguaglianze continuano ad accentuarsi, continuare a ripetere oggi – sottovalutando la diversità tra i tempi di Maritain e quelli contemporanei – che il federalismo garantirebbe pace all’Europa mi pare perlomeno ingenuo.

Chiusa tale parentesi, tra le altre rubriche – oltre al gradito ritorno di Stefano Sodaro con uno sguardo trinitario che scardina le pericolose ideologie binarie che separano il bianco dal nero – troviamo l’abbozzo di Polli per una lettura “teologica” di Giovanni Boccaccio, mentre Emanuele Pili riprende una meditazione di Henri De Lubac che ricorda come la Chiesa sia composta tradizionalmente da persone che il mondo scarta per la loro miseria materiale, intellettuale o spirituale, ma che mai devono essere da noi disprezzate, perché in esse si compie il Mistero di Dio che si svuota completamente, facendosi ultimo tra gli ultimi. Non vorrei dimenticarmi per giunta di segnalare, nel dibattito sulla tradizione, l’articolo di Andrea Virga che ripercorre la recente genesi di alcuni tradizionalismi – da quello “sedevacantista” a quello “esoterico” e “perennialista” – astrattamente incompatibili con il Magistero cattolico, scorgendone però un terreno fondamentale di sintesi che potrebbe agevolare, anziché ostacolare, l’ecumenismo.

Il numero si conclude con la consueta recensione a cura di Lucandrea Massaro; questa volta ci viene presentato un libro che raccoglie le condanne dei più importanti sapienti musulmani che si sono espressi fermamente contro l’Isis. È una prospettiva che merita assai più risonanza di quanto ne abbia avuta; per questo motivo, se può giovare a qualcosa, gli ho concesso volentieri qualche pagina della rivista. Si tratta pur sempre di uno sforzo anti-ideologico, rinnovando l’auspicio che cristiani e musulmani possano camminare più speditamente insieme nell’unica Verità. La quale è eccedente, dirompente, e comunque sempre più grande di ogni lettura queer: Allāhu Akbar!

Piotr Zygulski, Nipoti di Maritain 05, pp. 6-9

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