In quanto medico neuropsichiatra vorrei offrire
una chiave di lettura probabilmente meno formale rispetto a quella dei
riferimenti normativi o magisteriali, ma più empirica. Spesso, infatti, sulla
carta l’esperienza della sofferenza e della morte tende ad essere parziale e
superficiale, senza tener sufficientemente in considerazione le conoscenze
mediche.
Ho vissuto circa due anni in un reparto pediatrico
in cui si praticavano anche cure compassionevoli in pazienti che terminavano la
loro breve esistenza terrena. Veder soffrire un bambino giorno dopo giorno – per
mesi, a volte – mi ha insegnato che la vita non è data da un cuore che batte,
dalle escursioni di volume di due polmoni o da una attività cerebrale lenta se
pur presente. La vita è la possibilità di entrare in relazione con se stessi e
con gli altri, di poter godere del calore del sole e della sensazione fresca
del vento, di poter comunicare i propri stati d’animo, le proprie emozioni e
sentimenti. Se ciò viene a mancare e si aggiungono atroci sofferenze fisiche, non
posso stare lì impotente, ma neppure intervenire in maniera invasiva: piuttosto,
il mio compito è quello di valutare se non ci sia un accanimento terapeutico in
atto a cui spesso gli stessi familiari ci spingono.
Una persona in uno stato di coscienza dubbio,
non rispondente agli stimoli ambientali né dolorosi e la cui unica
manifestazione di “vita” sarebbe un respiro affannoso e un cuore che batte
troppo veloce o troppo lento non credo, in scienza e coscienza, che si possa
definire in vita. Stabilita l’irreversibilità di un quadro clinico è dovere di
qualunque medico non “accanirsi terapeuticamente” – conformemente sia al codice
di deontologia, sia al Catechismo della Chiesa Cattolica – e lasciare che non
venga alterato il decorso naturale per mantenere integra la dignità della
persona, oltre che il suo diritto di autodeterminazione. Il labile confine tra
cure e accanimento terapeutico è sicuramente legato alla scienza e coscienza
del medico a cui ci si affida per le cure.
In alcuni casi, alla fine della corsa della
vita, penso sia giustificato il desiderio di interrompere la sofferenza giornaliera,
continua, che si ripete ad ogni istante rendendolo identico al precedente; non
può essere il paziente stesso oggetto di biasimo per un tale “desiderio di
morte”. Nei miei ultimi giorni, non vorrei che mi venisse infilato
ripetutamente in ogni vena del mio corpo un ago da pochi gauge per essere
idratato o nutrito o, ancor peggio, che mi venisse posizionato un accesso
venoso centrale per infondere i liquidi “vitali” direttamente nella vena
giugulare interna, esattamente come non vorrei un sondino buttato giù dal naso
fino allo stomaco o una tracheotomia.
Non vorrei
quindi sancito per legge il dovere di idratare e nutrire artificialmente
chiunque, sempre e comunque: sarebbe la negazione della naturalità. Un sondino
nasogastrico fa male, provoca lesioni e ulcere lungo il suo decorso e le agocannule
nelle vene le fanno rompere a lungo andare, creano stravasi di liquidi quando
vanno fuori vena. Filtrate dagli occhi di un medico, tali manovre sono un po’
come nel giardino della sofferenza dello Zibaldone
di Leopardi: «Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si
corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape,
nelle sue parti più sensibili, più vitali».
Vorrei poter
esprimere la mia dichiarazione di volontà anticipata affermando che qualora le
mie condizioni fossero ritenute dai clinici come irreversibili, cioè senza alcuna possibilità di ritorno ad una
vita “non artificiale”, non vorrei alcun tipo di intervento se non una adeguata
sedazione farmacologica che mi accompagni alla morte.
Di certo i non
addetti ai lavori prima della fase di stesura del cosiddetto “testamento
biologico” necessitano dell’ausilio di un medico di fiducia per un supporto
informativo circa le manovre più o meno invasive a cui si può essere sottoposti
e anche per definire quale sia lo stato di irreversibilità in cui interrompere
le manovre rianimatorie, lasciando comunque un margine di azione ampio ai
medici che dovrebbero valutare il quadro clinico. Forse introdurrei anche un
termine temporale: ad esempio, se le mie condizioni cliniche rimanessero
stabili per un mese, due mesi o un anno, vorrei l’astensione da ulteriori pratiche
invasive e/o rianimatorie. Non so ancora esprimermi sul criterio temporale, perché
dovrei riflettervi più esaustivamente. Ad oggi, nelle proposte di legge in
discussione, sono affrontati tutti gli aspetti formali, però non ci sono chiari
riferimenti al contenuto (cosa fare e cosa non fare e in quali casi) che
dovrebbe essere espresso in tale documento.
Insomma, sposo la bioetica laica contemporanea
che non considera, sul piano puramente razionale, “un dovere incondizionato di
continuare a vivere” e che ritiene non si possa invocare il concetto di
“interesse alla vita” ove sussista una situazione di “insostenibile sofferenza”
tale da rendere la vita disumana. Al contempo, la redazione di un testamento
biologico non può essere considerata una sorta di suicidio o un atto di
superbia nei confronti di Colui che ci ha donato la vita; essa rientra nel
margine di autodeterminazione che discende dal libero arbitrio.
Non mi riconosco appieno nell’enciclica Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo
II, perché la dichiarazione di volontà anticipata non può essere definita una
fuga dalla sofferenza vissuta come «uno scacco insopportabile» in una cultura
volta all’edonismo. Nella mia prospettiva empirica non riesco a considerare la
sofferenza di un bambino, di un giovane o di un anziano come un “castigo
purificatore”; sarebbe come ammettere una posizione sadica di Dio nei confronti
dell’uomo. Le posizioni del Catechismo mi suonano troppo generali e poco aperte
al discernimento personale di ciascun caso, come invece il Magistero più
recente sottolinea. Al contrario, posso dirmi maggiormente vicino a quanto
espresso nel 2013 dalla Conferenza episcopale tedesca circa la possibilità di
ricorrere, in alcune circostanze, ad una eutanasia passiva o indiretta, ammesse
solo parzialmente dal Catechismo come mancato accanimento terapeutico.
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