di Lorenzo
Banducci
Mi è impossibile – data
la mia esperienza, sia personale sia collegata alla professione – parlare di un
tema delicato quale quello del testamento biologico senza accennare al ruolo
che il medico o, in generale, l’operatore sanitario deve avere nello stare
vicino a chi soffre. Stare accanto al malato significa essenzialmente mettersi
in ascolto della condizione di estrema sofferenza che sta vivendo la persona
vicino a noi, accompagnandola un passo alla volta nel cammino terapeutico di
qualsiasi natura esso sia (di cura, palliativo ecc.). È su questo aspetto che
si gioca un duplice tema che mi è più caro sottolineare in queste righe più che
quello del presunto “diritto di morire”.
Da una parte occorre,
perché si realizzi sempre più questo legame fra colui che cura e colui che
soffre, che le strutture sanitarie, di qualsiasi livello esse siano, abbiano la
capacità di porre al centro la persona nella sua integrità trovando il coraggio
di andare oltre due grandi tentazioni che assillano la medicina contemporanea.
La prima è quella legata a una visione
soltanto economicistica della salute incentrata su politiche esclusivamente
attente al bilancio e al risparmio fatto, troppe volte, sulle spalle del malato
e a vantaggio di pochi furbi pronti sempre ad approfittarsene. Con questo,
però, non voglio giustificare una sanità di spese pazze e fuori controllo, ma
che, garantita un’attenzione reale alle modalità con cui siano spesi i denari
pubblici, fornisca a tutti, e specie ai più deboli, quei diritti
all’assistenza, alla cura e all’accompagnamento necessari affinché il malato
sia messo al centro del sistema. La seconda è invece legata a una visione eccessivamente frammentaria della
persona umana. La medicina, in questa fuga verso l’iper-specializzazione,
in alcune sue branche sta rischiando di perdere il contatto con l’integralità dell’uomo.
È solo entrando al cuore della persona nella sua totalità e nella sua
complessità che ci potremo porre accanto a lei e accompagnarla correttamente
nel cammino terapeutico. Appare chiaro però come questo obiettivo sia
tutt’altro che semplice. Richiede pazienza e ascolto, ma anche la capacità, da
parte del malato, di sapersi in qualche modo aprire. L’operatore sanitario ha
però sempre l’obbligo di provarci ponendosi nel corretto atteggiamento verso
colui che soffre.
Dall’altra parte non
esistendo, come affermato in precedenza, un reale diritto di morire è
importante riconoscere alla persona– come affermato anche dalla nostra
Costituzione – una sfera di autonomia nel modo di affrontare la morte in
maniera naturale e non come una lotta fino alla fine. Sul tema mi sento di
citare il filosofo Vittorio Possenti che nel 2008 così scriveva: «Se la morte è
il massimo limite umano che va riconosciuto, l’interruzione del trattamento non
vale come rifiuto della vita ma come accettazione del limite naturale ad essa
inerente. Non si rinuncia alla vita, non si rifiuta la vita, ma si accetta di
non potere impedire la morte o di non doverla ulteriormente procrastinare». Logicamente,
e qui emerge il secondo tema per me importante, si rende necessario ribadire
quanto sia terribile e assolutamente da evitare l’abbandono terapeutico del
malato con tutte le sue tristi ricadute. Più negativo dell’abbandono
terapeutico è però l’abbandono dell’accompagnamento, ossia la presenza di
troppe macchine e di poche persone nell’itinerario di cura del paziente che può
finire col sentirsi lasciato solo. L’abbandono terapeutico e l’abbandono
dell’accompagnamento da una parte e l’accanimento terapeutico ingiustificato
dall’altra sono, seppur opposti, i due grandi rischi ai quali una corretta
legislazione sul testamento biologico può provare a porre rimedio, purché si
tenga conto che alla base di tutto sta essenzialmente una corretta relazione
fra il malato e chi lo cura.
Concludendo non posso
non sottolineare da cristiano come l’atteggiamento di fondo da tenere, anche
quando parliamo di testamento biologico, sia quello dell’amore. Agostino dice:
«Io non so come accada che quando un membro soffre, il suo dolore divenga più
leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non
deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che
si trova nella carità degli altri» (Epist. 99,2). La malattia e la sofferenza
trovano un senso nell’amore e diventano sicuramente più sopportabili. Ecco
perché diventa fondamentale, prima di ogni discussione, lo stare vicino a chi
soffre, ascoltarne la sofferenza e accompagnarlo nelle scelte. Proprio perché
sono medico, quello del “testamento biologico” è forse l’unico fra i temi di
bioetica in cui ho difficoltà ad avere una posizione netta; non saprei cosa
scrivere nel mio testamento biologico, se non di non essere lasciato solo.
Tutto questo, come ho
provato a dire nelle righe precedenti, si realizza attraverso 3 livelli. Quello
della politica con scelte
lungimiranti e orientate al bene comune per porre la persona al centro, quello
della medicina che deve considerare
la persona nella sua integrità e infine quello di ciascun operatore sanitario che attraverso il proprio ruolo deve
mettersi al servizio di chi soffre. Se questi tre livelli saranno così
strutturati allora il paziente potrà davvero essere ben accompagnato nel suo
percorso e in qualsiasi scelta decida di condurre nel suo itinerario
terapeutico.
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