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Eucarestia e Penitenza, Intercomunione e Summorum Pontificum. Intervista ad Andrea Grillo

di Lorenzo Banducci

Presentiamo oggi un’intervista al professor Andrea Grillo. Si e' laureato in giurisprudenza nel 1985, presso l'Universita' di Genova, con una tesi in Teoria generale del diritto sul tema Giurisprudenza ed ermeneutica. Per una critica della giurisprudenza intesa come scienza positiva.Ha compiuto gli studi teologici a Savona, presso la scuola di teologia "Ut unum sint" legata al Seminario di Savona, poi a Padova, presso l'Abbazia di S. Giustina, dove ha frequentato il corso di specializzazione in liturgia-pastorale e conseguito la Licenza in teologia presso l'ILP di Padova nel 1990, con una tesi dal titolo Ludwig Wittgenstein e l'apertura al Mistico nell'orizzonte del rapporto tra immediatezza e mediazione: dal silenzio, ai giochi linguistici alla ritualita'. Una ipotesi di lettura in prospettiva liturgica. Si e' laureato in filosofia nel 1993, presso l'Universita' di Genova, con una tesi di Filosofia teoretica sul tema L'Etica di W. Herrmann tra filosofia e teologia. Ha conseguito il Dottorato in teologia nel 1994, presso l'ILP di Padova, con una tesi dal titolo Teologia fondamentale e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e mediazione nella riflessione teologica. Dal 1990 al 1995 ha insegnato presso le scuole pubbliche (medie e medie-superiori) della propria Diocesi di Savona-Noli, come insegnante di Religione cattolica. E' iscritto dal 1992 all'ATI (Associazione Teologica Italiana) e dal 1994 all'APL (Associazione Professori di Liturgia). Dal 1994 e' docente di teologia (sacramentaria e liturgica) presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo in Roma e presso l'ILP della Abbazia di S. Giustina in Padova. Dal 1995 e' lettore presso la Facolta' Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo, in Roma. Dal 1998 al 2005 ha insegnato presso la Specializzazione sacramentaria dell'Istituto Teologico Marchigiano di Ancona. Dal 1996 al 2000 ha fatto parte della Commissione CEI incaricata di tradurre e adattare il nuovo rito del sacramento del Matrimonio. Dal 1999 e' divenuto professore "consociato" presso la Facolta' Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo, in Roma.
Dal 2001 al 2009 e' stato Coordinatore della Specializzazione Dogmatico-sacramentaria presso la Facolta' Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo, in Roma. Dal 2002 al 2006 e' stato eletto nel Consiglio di Presidenza dell'APL, di cui e' stato Vice-presidente per un quadriennio. Nel 2003 e' divenuto professore "straordinario" presso la Facolta' ologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo.
Nel 2004 e' stato nominato membro della Consulta dell'Ufficio Liturgico Nazionale per un quinquennio. Il 4 settembre 2006 e' stato nominato Professore Ordinario di Teologia Sacramentaria presso la Facolta' Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo. Dal 2007 al 2010 ha insegnato nella Facolta' Teologica di Lugano (CH) come professore invitato.
Dal 2008 al 2010 ha insegnato nella Facolta' Teologica della Pontificia Universita' Gregoriana come professore invitato
Dal 2012 è divenuto membro del Consiglio Scientifico della rivista "Studium" e del Conseil Scientifique della rivista "La Maison-Dieu"


Professor Grillo nel videomessaggio in occasione del congresso eucaristico nazionale dell’India Papa Francesco ha voluto ribadire un concetto che aveva già espresso durante la celebrazione per il Corpus Domini dello scorso Giugno: “Così l’Eucaristia attualizza l’Alleanza che ci santifica, ci purifica e ci unisce in comunione mirabile con Dio. Così impariamo che l’Eucaristia non è un premio per i buoni, ma è la forza per i deboli, per i peccatori. E’ il perdono, è il viatico che ci aiuta ad andare, a camminare.” A molti credenti semplici, come il sottoscritto, viene spontaneo domandare cosa abbia voluto dire di preciso il Papa con questa affermazione. Davvero l’Eucaristia perdona i peccati? Non c’è il rischio con questa affermazione di svilire il sacramento della Riconciliazione? Siamo di fronte a un cambiamento dottrinale?

Penso che si debba riconoscere un grande merito a papa Francesco: dice cose elementari, che la tradizione ha custodito e tramandato, ma che negli ultimi secoli, almeno nel pensiero e nella prassi europea, si sono profondamente offuscate e che addirittura possono essere scambiate per “errori”! Proviamo a considerare bene le affermazioni riportate nella citazione. Le schematizzo, per comodità:

- Il perdono del peccato è anzitutto custodito della linea Battesimo/Cresima/Eucaristia: è nella ripetizione settimanale della celebrazione eucaristiche che facciamo esperienza storica della misericordia di Dio in Cristo; questa celebrazione ci accompagna e ci nutre, ci rafforza e ci plasma, domenica dopo domenica;
- Il perdono del peccato assume poi, per coloro che smarriscono la comunione ecclesiale e sacramentale, la forma di un “processo penitenziale” che ha nel sacramento della penitenza il suo luogo autorevole, ma non esclusivo. Il “fare penitenza” è molto più ampio del solo sacramento della penitenza.
- Il recupero di una “dinamica penitenziale” riporta lo stesso sacramento della penitenza ad una dimensione “diacronica” che gli appartiene fin dall'origine, superando quelle forme “istantanee” che non corrispondono alla esperienza del peccatore perdonato.
- Non esiste “concorrenza” tra il centro del perdono (Eucaristia) e il procedimento di recupero della comunione perduta (Penitenza). La storia ha conosciuto diversi equilibri, e ancora il Concilio di Trento affermava, solennemente, che la comunione eucaristica “copre anche i peccati più gravi”.
- Una precedenza strutturale della confessione alla comunione è indice  di una Chiesa che non sa vivere ordinariamente in comunione: una ripresa della iniziazione cristiana – come è avvenuta negli ultimi 50 anni - era inevitabile che portasse ad una ridefinizione delle relazioni tra confessione e comunione, restituendo alla seconda il primato sulla prima.
- Decisivo è acquisire che confessione e comunione sono “atti puntuali” dal punto di vista di Dio, ma sono “percorsi e itinerari” dal punto di vista umano ed ecclesiale. Lo “stato di peccato” e lo “stato di grazia” sono anzitutto “cammini” e “storie”, non atti o autorizzazioni.


A che punto siamo come Chiesa Cattolica nel cammino dell’intercomunione, ovvero la possibilità di partecipare insieme alla stessa Eucaristia per cristiani di confessioni differenti attualmente prevista, stando al Catechismo, solo alle Chiese Ortodosse e Cattolica? Papa Francesco ne ha parlato lungamente nella Chiesa Luterana di Roma la scorsa domenica, ma davvero si può dire che vi sia un percorso concreto in questa direzione? E’ più giusto, come lasciava intravedere il Papa in quella occasione, rinviare le scelte ai singoli o prevedere come Chiesa situazioni precise e normate?

Non vi è dubbio che la relazione tra Chiesa cattolica e Chiese evangeliche stia cambiando profondamente. Alla rottura e alla reciproca scomunica, si sta gradualmente sostituendo una accoglienza e addirittura una “comunione” riconosciuta. Ovviamente questo non può essere “sempre e ovunque” - almeno per ora – ma può acquisire, gradualmente, la forma di una percorso favorevole e promettente. Guai se non avessimo regole, che permettano di distinguere i “gradi” della comunione possibile. Ma vorrei sottolineare il fatto che il papa, nella sua risposta alla domanda formulata nella Chiesa Luterana, faceva riferimento non ad una “comunione” in astratto, ma alla “comunione familiare” tra luterani e cattolici. Se una famiglia è composta di membri appartenenti a diverse comunità ecclesiali, deve rinunciare per sempre a “comunicare all'unico pane” tenendo unita la famiglia oppure può evitare di dover separare la famiglia per non separare la fede?
Credo che la risposta di papa Francesco – sia pure con tutte le cautele dovute e sottolineate – apra verso una direzione nella quale il “fare la comunione” è anche un modo di “riconoscere la comunione”. Chi altro potrebbe farlo, in una famiglia, se non i membri della stessa? Per quante leggi potremo avere, anche molto migliori delle attuali, sarà inevitabile che la coscienza dei singoli e il “sensus fidei familiaris” possa, in determinate circostanze, trovare la via più adeguata alla comunione.

Sono passati più di otto anni dal motu proprio di Benedetto XVI “Summorum Pontificum” che ha di fatto liberalizzato la messa tridentina e del quale abbiamo già parlato sul nostro blog. Ha oggettivamente prodotto qualcosa nel riavvicinamento dei Lefebvriani alla Chiesa Cattolica questo testo o è servito solo ad inserire due riti differenti per celebrare l’Eucaristia e i Sacramenti aumentando la confusione? Dove dobbiamo ancora lavorare come Chiesa per attualizzare la Sacrosanctum Concilium (il documento conciliare sulla liturgia)?

Molte sono le questioni formulate in questa domanda e cerco di rispondere distinguendole bene.
Anzitutto non si può dire che la “messa tridentina” sia stata liberalizzata. Sono le ansie libertarie dei tradizionalisti (sì, proprio così) che parlano in questo modo forzato. Anche Summorum Pontificum specifica bene le condizioni di applicazione. Solo successivamente, in uno dei documenti più disastrosi della tradizione curiale recente (Universae ecclesiae) si è cercato di “liberalizzare” in modo spudorato, ma senza grande successo, tutti i riti tridentini.
Papa Benedetto XVI ha motivato il provvedimento sul piano del rapporto con i Lefebvriani. Fin dall'inizio si capiva che quella argomentazione non era all'altezza del teologo e neanche del pastore: da un lato non avrebbe spostato di un millimetro gli interlocutori (che furono solo incitati ad alzare la asticella delle loro richieste reazionarie); dall'altro avrebbe creato problemi potenzialmente in ogni parrocchia.
Oggi, grazie al nuovo corso, la questione è largamente superata. La stessa Ecclesia Dei è diventato un “ente inutile”. Resta, invece, una questione decisiva e seria: come assicurare alla Riforma Liturgica una recezione profonda ed efficace? Per questo occorrre una valorizzazione della “strumentalità” della Riforma, in vista di un atto di “iniziazione alla fede mediante i riti e le preghiere” che è il vero obiettivo di SC. La riforma dei riti è al servizio di una relazione più intima e più elementare con la tradizione cristiana. Questo è il compito delle prossime due generazioni, a 50 anni dal Concilio Vaticano II.

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