La guerra è un fenomeno antico almeno come l’uomo, se non di più (si pensi al conflitto tra gli scimpanzé del Parco Nazionale di Gombe, osservato dalla primatologa Jane Goodall), e quasi altrettanto antica è l’idea di normare e regolamentare anche questo fenomeno. Nelle civiltà antiche (particolarmente conosciuto e vicino a noi è il caso romano), le operazioni di guerra erano generalmente sottoposte a un complesso sistema di riti religiosi, volte a scongiurarne gli effetti spirituali negativi ed assicurarsi il favore delle divinità. Allo stesso modo, il tema era affrontato e discusso da trattati filosofici (es. il De Officiis di Cicerone) e poemi sapienziali (es. la Bhagavad Gita).
In ambito cattolico, la discussione s’innesta
su quella degli autori latini e greci, e trova i suoi classici di riferimento
nella Civitas Dei di S. Agostino e
nella Summa Theologica di S. Tommaso,
dal quale prende l’avvio una vera e propria coerente teoria della guerra
giusta. I suoi principi fondamentali riecheggiano quelli delle civiltà pagane,
e normano sia la dichiarazione delle ostilità (jus ad bellum), che la loro condotta (jus in bello). La guerra giusta (bellum iustum) deve essere dichiarata da un’autorità legittima (legitima auctoritas) per una giusta
causa (iusta causa), e combattuta con
mezzi giusti e proporzionati (debitus
modus). Nella prospettiva cristiana però la guerra è considerata
essenzialmente un mezzo di legittima difesa per la società rispetto a un
aggressore esterno (analogamente alla pena di morte – mezzo di difesa da un
aggressore interno).
L’attuale esposizione di questa dottrina, così
come esposta nel Catechismo (§§
2307-2317), risente dello sviluppo della Scolastica (in particolare la Scuola
di Salamanca), ma anche della nascita, nel XVII secolo, del diritto
internazionale, e soprattutto delle considerazioni magisteriali del XX secolo,
nel corso del quale i nuovi mezzi di distruzione di massa hanno messo in crisi
l’idea che si potesse effettivamente condurre una guerra con mezzi giusti e
proporzionati. Per una prospettiva storica, segnalo il libro di Daniele Menozzi
dal titolo Chiesa, pace e guerra nel
Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti (Il Mulino,
Bologna 2008).
Oggi si sottolinea sempre più l’idea della
guerra come extrema ratio, e si tende
pertanto ad escluderne il ricorso, nelle dispute internazionali, se non in casi
di legittima difesa, e sempre a patto che vi siano sensate probabilità di
successo e non si causi un male maggiore. La riflessione, inoltre, ha
individuato ulteriori problematiche, specie relativamente alla fine delle
ostilità e alla conclusione di una pace giusta (jus post bellum). Una discussione su questo tema richiede non solo
che si faccia riferimento agli sviluppi classici e recenti di questa teoria, ma
soprattutto che ci si confronti con le nuove forme assunte dal fenomeno
bellico. Da questo punto di vista è interessante la teoria generazionale della
guerra, elaborata da alcuni analisti statunitensi sul finire della Guerra
Fredda, secondo la quale la guerra moderna si sarebbe articolata lungo quattro
generazioni differenti.
La prima
(da Westfalia a Napoleone), faceva riferimento ad un’economia ancora agricola,
e vedeva scontrarsi i primi eserciti regolari, armati dagli Stati moderni, che
combattevano in linea e in colonna, armati di moschetti.
La seconda
(dalla guerra civile americana alla prima guerra mondiale) era già di carattere
industriale, ed era caratterizzata da comunicazioni più rapide (ferrovie,
telegrafo) e una maggiore potenza di fuoco diretto (fucili, mitragliatrici) e
indiretto (artiglieria).
La terza
(dalla seconda guerra mondiale in avanti), pienamente industrializzata, si è
fondata sull’impiego rapido e massiccio di forze corazzate, meccanizzate e
aeree, coordinate tra loro, per rompere le linee nemiche e colpire in
profondità.
La guerra di quarta generazione (o guerra ibrida) viene spesso confusa con la
guerra asimmetrica, cioè condotta da formazioni irregolari attraverso tecniche
di guerriglia, ma corrisponde in realtà a un concetto più complesso,
strettamente legato alla natura liquida della società postmoderna e
post-industriale. Non solo è altamente decentralizzata, senza un vero campo di
battaglia, ma viene spesso meno la distinzione tra militari (regolari o
irregolari) e civili, data la confusione e intercambiabilità dei ruoli e dei
mezzi a disposizione. Gli attuali conflitti in Siria e in Ucraina ne
costituiscono esempi illuminanti, che ci costringono a ripensare la teoria
della guerra giusta.
Prima di tutto, la legitima auctoritas ad bellum non può essere più limitata al
sovrano o allo Stato nazione dotato di riconoscimento internazionale, e
tantomeno essere ristretta alle sole organizzazioni internazionali come le
Nazioni Unite, ma deve tenere conto anche di attori politici non-riconosciuti,
sia di natura para-statale (es. il Rojava o la Nuova Russia), sia
deliberatamente non-statale (es. Hezbollah). A questo si aggiunga l’emergenza di
varie formazioni di auto-difesa comunitaria (es. i Dwekh Nawsha assiri in Irak)
e l’adesione, sia di gruppo che come singoli, di volontari internazionali sulla
base di una comunanza ideale o ideologica.
Pertanto, anche la iusta causa oggi vede la compresenza di attori differenti, ciascuno
con una propria agenda e motivazione, all’interno di una pluralità di
schieramenti (es. i quattro della guerra civile siriana: i lealisti, i ribelli
islamisti, i jihadisti dello Stato Islamico e i miliziani curdi). Dal punto di
vista della teologia morale, qui si aggiunge alla discussione il diritto alla
resistenza, fino all’insurrezione o al tirannicidio, da parte di comunità o
singole persone.
Infine, su queste premesse, anche lo jus in bello deve tener conto sia dei
nuovi ambiti di guerra ibrida, come la cibernetica e l’informazione – che vanno
ad interferire con alcuni aspetti chiave della società contemporanea –, sia del
venir meno di una distinzione netta tra militari e civili, che complica la
scelta degli obiettivi e il trattamento nei confronti del personale nemico. Le
stesse considerazioni già applicate ai casi storici di guerra asimmetrica sono
ora da estendere dunque a una casuistica più ampia e articolata.
Lasciando al lettore le considerazioni finali su questa riflessione, mi limito ad uno spunto sommario: posto che ormai la distinzione in bello è tra combattenti (militari, paramilitari, civili) e non-combattenti, e che comunità non statuali o singole persone rivendicano uno jus ad bellum, solo una prospettiva politica personalista e comunitaria, fondata sui concetti di coscienza e responsabilità, può moralizzare il conflitto armato all’interno della nostra società liquida.
Andrea Virga su Nipoti di Maritain n.8 (novembre 2019), pp. 18-20.
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