Nel corso dell’Era volgare, gli uomini hanno sempre cercato di dare una giustificazione alle operazioni militari anche se si professavano cristiani: crociate, guerre “sante”, lotte contro gli eretici. Quando ci professiamo seguaci del Principe della Pace, Gesù Cristo, e osserviamo gli stermini contro gli Albigesi ad opera di Innocenzo III e dei signori dell’Occitania, oppure a quell’immondo macello che fu la Guerra dei Trent’Anni tra protestanti e cattolici nel XVII secolo, è difficile non rimanere indifferenti su quale fosse la consistenza della morale religiosa di coloro i quali, accedendo ai sacramenti e recitando il Padre nostro, ordinavano di compiere dei veri e propri genocidi “in nome di Dio”. Non so a quale Dio si richiamavano, dal momento che la violenza è stata condannata fermamente da Cristo stesso all’inizio della Sua passione quando, rivolgendosi a Pietro che aveva estratto la spada ferendo il servo di Anna, lo rimproverò dicendogli: «Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada» (Mt 26,52). Purtroppo, anche nei tempi più recenti si è assistito ad una ripresa di questa blasfemia: basti pensare alla Prima Guerra Mondiale, ove i francesi combattevano contro i tedeschi colpevoli di aver avviato la Riforma protestante; e i tedeschi luterani che, intonando i Lied di Lutero, si avviavano verso la Mosa e la Marna per liberare il mondo dello spirito anticristiano della Rivoluzione francese.
Questa deformazione gratuita e aberrante in
senso bellico dello spirito cristiano, d’altro canto, è stata più volte
“legalizzata” da alcuni padri della Chiesa ed inserita nella stessa agiografia
durante l’Alto Medioevo, quando i popoli germanici avevano bisogno di coniugare
la fede cristiana cui avevano aderito con lo spirito bellico e militare proprio
della loro cultura: si pensi all’ordine sociale di Aldaberone di Laon, diviso
tra oratores, bellatores e laborates. Il vescovo d’Ippona, in più
riprese del suo vastissimo corpus teologico-filosofico,
cerca di trovare un compromesso al grande quesito morale che attanagliava i
cristiani ormai assunti alla guida dell’Impero Romano: come praticare la guerra
se Cristo aborriva qualsiasi forma di violenza. Le risposte le troviamo
nell’epistola 189 inviata al governatore romano della provincia d’Africa
Bonifacio e nell’opera polemica contra
Faustum manicheum.
Nella prima Agostino, che sta rispondendo ad
un’esigenza concreta quale l’invasione dell’Impero d’Occidente da parte dei
barbari, motiva il connubio guerra-cristianesimo facendo riferimento a passi
del Primo Testamento, elencando i vari “santi guerrieri” che non erano
dispiaciuti a Dio (dal re Davide fino ai due centurioni apparsi rispettivamente
nel Vangelo e negli Atti degli Apostoli) ma dichiarando al contempo che «non si
cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace»
(cap. 6).
La seconda opera, di ben più largo respiro,
vede Agostino polemizzare contro il manicheo Fausto quando Agostino difende
l’operato delle guerre condotte da Mosè e dagli altri profeti, dichiarando che
della guerra bisogna deplorare la violenza insita in sé, non la lotta contro
chi tende a prevaricare gli altri con la violenza stessa (Libro 22, cap. 74).
Il sunto del pensiero agostiniano sulla guerra giunge però con il capitolo 75
del medesimo libro: la guerra è lecita se è dichiarata dall’autorità pubblica
(«l'autorità e la decisione di intraprendere una guerra spettino al principe»)
e se la si fa per allontanare i malvagi dai loro propositi su invito stesso di
Dio che è infinitamente buono e non può ordinare nulla di malvagio («la guerra
che si intraprende sotto l'autorità di Dio, non è lecito dubitare che sia
intrapresa giustamente allo scopo di intimorire, distruggere o soggiogare la
superbia dei mortali […] Dio il quale non può ordinare nulla di cattivo»).
Si può considerare ciò come un estremo
tentativo logico-teologico per salvaguardare il bene pubblico, dettato dal
fatto che Agostino rappresentava pur sempre un’autorità a livello pubblico
nell’ottica della Chiesa imperiale, oltre al suo essere vescovo e quindi
“vicario” dell’insegnamento di Cristo. In sostanza, per Agostino la guerra
«nella vita terrena dell’uomo non è un bene assoluto né un dono, ma il
risultato di uno sforzo personale o paradossalmente il frutto positivo di una
lotta che tende al ritorno dell’ordine»[1].
L’analisi storica e teologica fin qui condotta
deve però rivestire, nella coscienza collettiva della Chiesa del XXI secolo,
quale sia la posizione di un cristiano nei confronti della guerra.
Personalmente ritengo che il compromesso agostiniano sia frutto di una lunga,
quanto tormentata, elaborazione di carattere politico-teologico: il pacifismo
assoluto di Cristo e, al contempo, la necessità di mantenere l’ordine da chi
intende sovvertirlo ha fatto sì che questa teoria venga ancora accettata
dall’insegnamento della Chiesa, sviluppandolo proprio dalle riflessioni di
Agostino e poi di Tommaso d’Aquino[2]. La guerra non può mai
considerarsi “giusta” ma al massimo “ipoteticamente necessaria” per evitare un
male ancora maggiore come quello dei soprusi condotti da chi intende ridurre in
cenere ciò che si è costruito con la pace. L’istinto umano alla violenza, che
ha condotto gli uomini al grido blasfemo di Deus
vult nelle Crociate più o meno antiche, dev’essere reciso a favore, invece,
di una rassegnata quanto decisa lotta nel preservare il valore supremo della pace intesa come il
benessere civile e spirituale dei cittadini. Per quanto ad un cristiano
come me ripugni anche questo compromesso dettato dalla presenza del male nel
mondo, della “carne” contro il puro spirito, del materiale contro l’ideale, la
guerra è senz’altro un male, ma un male contro il quale si deve, in forza di
necessità, combattere se tutti gli strumenti che Cristo e la ragione ci hanno
fornito vengono meno davanti all’istinto della brutalità pura e disumana.
Christian Alberto Polli su Nipoti di Maritain n.8 (novembre 2019), pp. 12-14.
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