di don Giovanni Sandonà
(tratto da www.dimensionesperanza.it )
Il volontariato è assistenza, relazione o identità?
Potremmo partire da questa sintetica e provocante domanda per provare a
scandagliare, a percorrere l’esperienza del volontariato, le sue motivazioni e
la sua umanità. Come? Accostandoci e provando ad abitare almeno un poco queste
quattro parole chiave: volontariato, assistenza, relazione, identità.
La
prima appunto, volontariato. Si impone subito il senso della “volontarietà”,
cioè il non obbligo, il non dovuto, la scelta libera e personale. Ecco perché
il volontariato viene percepito da tutti come sinonimo di autenticità, perfino
di libertà e spesso di gratuità. Ma proprio su questa ultima parola comincia il
primo distinguo: se il volontariato è sempre scelta libera, non sempre è
gratuito o addirittura a proprie spese. Ad esempio, talvolta si confonde chi
“lavora” nel terzo settore, nel cosiddetto sociale, con il volontariato.
Oppure, se in dati ambiti di volontariato la scelta di rendersi disponibili è
sempre libera non sempre è gratuita, in quanto intervengono delle convenzioni
fra lo Stato e l’Ente titolare di volontariato per cui si continua a percepire
il “normale” stipendio dal proprio datore di lavoro, che riconosce il
distaccamento per attività di volontariato e che quindi verrà poi - previa
convenzione- rimborsata dallo Stato. In altre parole si è al lavoro da un’altra
parte, ma a partire da una disponibilità
volontaria.
Assistenza: è la seconda parola della riflessione. Assistere di per sé
significa “farsi vicini” e quindi l’assistenza in sé è tutt’altro che negativa.
Do, faccio, presto assistenza significa anzitutto decido di non tirare dritto,
decido di voler vedere, decido di lasciarmi coinvolgere e di farmi vicino, di
assistere. Bella dunque questa dimensione di coinvolgimento, di consapevolezza,
di partecipazione attiva della persona rispetto al bisogno di un’altra persona,
o di una comunità. Bella e quanto mai necessaria in un tempo come il nostro
segnato da grandi individualismi, fino all’ipertrofia narcisista e da grandi
solitudini, frutto maturo anche di tanta indifferenza impermeabile a tutto e a
tutti! In tal senso troverei assai significativa l’introduzione
dell’obbligatorietà da parte dello Stato di un anno di servizio civile gratuito
per tutti i nostri giovani, maschi e femmine. Che scuola costituzionale di
“difesa della Patria”, di educazione civica, di partecipazione, di umanizzazione
sarebbe. Certo ben pensato e ben accompagnato, senza mai scadere nella
manovalanza gratuita, giustificata da mal celati fini di lucro e magari a
scapito di posti di lavoro a cui non ci si dovrebbe mai sostituire con il
servizio civile, semmai affiancarsi con precisa distinzione di ruoli e di
responsabilità.
E qui affiora anche il limite dell’assistenza: per lo
più si concretizza in una “prestazione” gratuita. Una prestazione che sta nel
profilo di un “ruolo”, e nella “univocità” relazionale. Un esempio: io “faccio”
qualcosa (una visita medica, un pasto caldo, ecc….) senza fare pagare
all’assistito la mia prestazione, dentro un “ruolo e una casacca” (volontario
della protezione civile, della croce rossa, delle misericordie, ecc…). Io
”sono” la mia prestazione-casacca, tant’è che mi chiamano: un volontario
di…… che fa…… Non è importante come mi chiamo e da dove vengo, è importante che
io faccia quella data cosa gratuitamente per qualcuno che ne ha bisogno.
Appunto qualcuno. Non importa neanche per lui come si chiami e da dove sia, ma
solo che sia in quel momento oggetto di una prestazione gratuita. Oggetto, non
soggetto, per cui la relazione-prestazione va da me volontario, nel mio ruolo
di aiuto, all’altro oggetto del mio aiuto, da cui non mi aspetto altro che
questo, ossia che sia destinatario del mio aiuto in quanto bisognoso di qualche
“cosa”. Ecco la relazione “a senso unico” in cui vi è un soggetto solo che
aiuta e un altro oggetto dell’aiuto. La direzione è solo dall’aitante
all’auitato. E tuttavia se questo in sé resta vero, e altrettanto vero che
spesso la prestazione di assistenza si apre anche ad una relazione, in cui ci
si scambia il nome e si condivide qualcosa delle proprie vite o famiglie…, ma
di per sé non è richiesto: quando io ho svolto il mio ruolo di volontario nella
prestazione gratuita dentro l’organizzazione che ho scelto, di per sé sono
apposto. Sono un buon
volontario.
Qui, vi è la zona di confine, da dove spesso avviene
lo sconfinamento nel senso negativo dell’ assistenza: l’assistenzialismo. Tutti
lo percepiamo subito sentendo odore di bruciato. Si tratta di un possibile
percorso che però si ferma nella prestazione gratuita, nel ruolo univoco, nel
fare qualcosa, dentro il sistema aiutanti
aiutati.
L’assistenzialismo è l’intervento di aiuto che si limita e in tal modo si
definisce, nel calmierare una povertà, nel contenere un deficit,
nell’intervenire nell’ emergenza e rischia, con gli anni e l’abitudine, di
considerare gli aiutati appunto solo un deficit, uno svantaggio, un’emergenza.
Ne viene che senza averne consapevolezza anche le loro identità finiscono
nell’indeterminato di parole come paziente, utente, assistito, alluvionato,
terremotato, tossicodipendente, ecc.. L’intervento assistenzialista si limita a
calmierare una mancanza. Ma paradossalmente potrebbe perfino diventarne
funzionale, complice ignaro anche del suo ampliarsi. Per capirci: se io continuo
ad assistere gente alcolizzata senza mai chiedermi perché sempre più gente
esagera nel bere finisco per esserne in certo senso complice; bevi pure tanto
poi c’è chi ti assiste. Se io continuo a dare qualcosa come la borsa spesa al
bisognoso senza mai chiedermi da dove parte quel bisogno, alla fine divento
complice di un sistema che può permettersi di non considerare coloro a cui
mancano i generi alimentari di prima necessità, tanto poi ci sono i volontari
che ci pensano a sopperire, a calmierare l’emergenza. Con un detto famoso: il
limite dell’assistenza che diventa assistenzialismo è quello di continuare a
dare pesci, addirittura gioire perché son sempre di più quelli che hanno
bisogno di me e del mio pesce, ma non insegnare a pescare né interrogarsi sul
perché non c’è pesce per tutti. Addirittura se persisto in un fare senza
pensare posso arrivare al patologico: son contento di essere indispensabile per
l’altro e mi sento frustrato quando l’altro non ha più bisogno di me. Come se i
volontari del ricovero notturno della caritas fossero frustrati perché vi sono
pochi ospiti, qualora e per davvero, le persone senza dimora fossero finalmente
rare. E’ patologia.
Se cioè oltre a fare qualcosa, non si pensa al
“perché” qualcuno ha bisogno di quel qualcosa o perche la società , la città
(polis) non si accorge o non risponde, vuol dire che davvero sono bloccato su
me stesso, sul mio dare. Sono autoreferenziale. Per spigarmi meglio: se l’obiettivo
di un corso di alfabetizzazione gratuito per adulti fosse aumentare i
volontari, di fatto è come se desiderassi che sempre più persone ne abbiano
“bisogno”! Semmai il mio volontariato si darà da fare, anche, perché tutti ne
abbiano “diritto” e quindi sia la scuola pubblica, la città, la polis, la
società a farsene carico riconoscendo un diritto di tutti e da tutti
effettivamente fruibile. Sbandierare o sognare i grandi numeri di un
volontariato che fa un poco di tutto e dappertutto, come sinonimo di grande
tasso di altruismo sociale non mi convince semmai mi insospettisce. Un
volontariato che diventa socialmente in dispensabile porta, alla lunga, a
marcare le diseguaglianze. E’ la logica dei party di beneficienza o delle
grandi maratone televisive di beneficienza . In altre parole il bello del
volontariato, che non scade nell’assistenzialismo, è quello di sognare e di
darsi da fare peri diventare inutile o per lo meno il meno indispensabile
possibile. E ciò nonostante sia vero che lo Stato sociale non può, e potrà
sempre meno, fare tutto e dappertutto.
Ecco il senso dei diritti di cittadinanza che
dovrebbero sempre marcare la formazione d ogni tipo di volontariato alla
persona: il diritto alla vita, alla salute, alla casa, all’istruzione, al
lavoro,…. in una parola alla cittadinanza attiva e solidale. Ed eccoci ad una
dimensione centrale ma non sempre riconosciuta e praticata da tante forme di
volontariato: la formazione di base e permanente. Formazione, non solo ad una
prestazione competente ma anche al senso di quella prestazione che proprio
perché libera da ogni obbligatorietà se perde il senso perde l’anima. Un senso
da continuare a scandagliare, rispetto all’altro che aiuto, al suo mondo
personale e relazionale, al contesto che ha generato o per lo meno favorito o
non contrastato l’inspessirsi di un bisogno che differenzia, che mette ai
margini. In altre parole la formazione è indispensabile. La formazione al senso
della prestazione non è affatto perdita di tempo in nome di quel attivismo che
ama misurar-si col contapassi: “non perdiamo tempo in chiacchiere!” Se fosse
questo il nostro motto in quanto volontari sarà ben difficile che il nostro
volontariato di assistenza resti immune dalla patologia assistenzialista. Anche
se questo è il volontariato che di più, e non senza malizia, le istituzioni
applaudono. Ma il perché è ovvio. Non pensa, non fa politica, non si interroga
sulla polis, sulla città, sulla società ossia sulle cause, sul contesto, sulle
risposte al bisogno. Perciò, fa molto comodo.
E cosi, continuando il nostro percorso -di fatto-
siamo già entrati nel “territorio” della nostra terza parola giuda: relazione.
Sì perché evitando di scivolare nell’assistenzialismo mi sono accorto che non
basta dare qualcosa nel senso unico di una prestazione, ma comincia a nascere
una relazione dove ci si chiama per nome e dove l’altro non è più solo oggetto
indeterminato: utente, terremotato, handicappato, povero, ecc.. ma diventa
soggetto nella reciprocità. Non mi limito più a dare o fare qualcosa ma
comincio, dentro il fare, ad incontrare a stare con qualcuno, che ha un nome,
una storia, dei sentimenti, delle paure ma anche delle speranze, dei sogni ,
degli affetti, delle responsabilità. Più o meno come me. Appunto! Ecco la
reciprocità di un volontariato che riconosce il primato della relazione sulla
prestazione, il primato dello stare-con sul fare-per, il primato del nome sulla
casacca, il primato del volto da incontrare sulla cosa da dare o da fare. Ecco
perché i volontari spesso dicono: “è più ciò che ricevo di quello che do”.
Constatano che, se all’inizio si credeva solo di dare all’altro (oggetto del
mio aiuto) alla fine ci si accorge che anche l’altro mi ha aiutato, è diventato
soggetto capace di dare a me, perfino mi ha cambiato. Infatti attraverso questo
modo di fare volontariato e di essere volontario, nell’attenzione alla
relazione nella pur necessaria prestazione, è cambiato il mio modo di guardare
la mia città o paese quando li attraverso, è cambiato il mio modo di guardare
alla mia famiglia, è cambiato il mio modo di considerare ciò che possiedo e
che, peraltro, ho sempre considerato scontato dover avere, è cambiato il mio
modo di spendere o di far le ferie. Insomma sono cambiato io. Il volontariato mi
ha cambiato lo stile di vita. Ha inciso sulla mia identità, sulla mia persona,
sul mio modo di vivere.
Dunque eccoci, sia pur al galoppo, alla quarta nostra parola guida: identità.
In certo senso il percorso del volontariato che non si accontenta della sola
prestazione gratuita, diventa in realtà un percorso che mi cambia. Ho
cominciato a fare volontariato con una data motivazione, ma via via mi accorgo
che le motivazioni cambiano ma con loro cambio soprattutto io e il mio stile di
vita. Potremmo perfino arrivare a dire che quel prendermi “cura”, consistente
nel dare qualcosa a qualcuno che è nel bisogno, matura diventando “cultura”: un
modo di vedere, di progettare, di “coltivare” la vita, la società, la
relazione, ecc… Allora si può ben dire che certamente il volontariato, che lo
voglia o no, di un tipo o di un altro, fa cultura. Cioè non è e non può essere
neutro. Che lo voglia o no, che lo sappia o no comunque fa cultura, comunque
semina e costruisce” volontariamente” spazi di libertà, di
volontarietà-consapevolezza, di incontro, di aiuto di un tipo o di un alto
tipo, di un colore o di un altro.
Un’ assistenza che marca il volto dell’altro
piuttosto che l’aiuto, lo fa soggetto, risorsa che mentre riceve dà e magari
più di quel che gli do. Ecco perché da ultimo, possiamo perfino dire che il
volontariato che privilegia la qualità della relazione nella reciprocità sulla
quantità della prestazione, finisce per cambiarmi fino al punto di poter far
stare tutto il senso della mia vita, in una parola. In una sola piccola parola:
grazie. Mi accorgo che avevo cominciato il mio percorso di volontariato volendo
essere “attivo” e di “aiuto” e mi ritrovo maturato, capace di abitare la mia
vita come se fosse una nuova. Infatti si è fatta molto più bella, saporita,
desiderabile, sana, perché se il volontariato mi ha educato al primato della
relazione, mi ha insegnato a dire grazie. A dirlo e a capirlo qual grazie. A
farci stare dentro la vita. Ero partito volendo aiutare, volendo fare, volendo
amare, volendo capire, volendo accogliere, volendo cambiare le cose, in realtà
aiutando mi sono accorto quanto sono stato aiutato; quanto sono stato amato,
quanto sono stato capito, quanto sono stato accolto. Come dire che diventare
grandi, anche attraverso il volontariato, significa scoprire che il DNA, le
radici vive della mia vita si lasciano dire con i verbi prevalentemente al
“passivo”. Ero partito per” fare” e mi ritrovo a parlare di “essere”. Ero
partito da un interesse e mi ritrovo a vivere meglio, un bene-essere forgiato
dal senso nuovo della parola inter-esse(re).
Dunque il volontariato ha bisogno, esprime e genera
un’antropologia. O per dirla come qualche anno fa un “progetto uomo”. Perciò
chi ne ha la responsabilità dovrebbe avere anche l’onestà di informare il nuovo
volontario che entra in una qualche realtà o associazione di volontariato, a
quale antropologia fa riferimento quella associazione-gruppo, a quale volto
d’uomo, a quale ideale di società. Spetterà poi alla libertà del volontario
accettare di percorrere quel volto, ossia accettare o meno anche il viaggio
nell’essere. Diversamente, il volontario, potrà scegliere di fermarsi al primo
gradino della bella e lunga scala, quello della prestazione, del solo fare
qual-cosa. Importante non è il primo o il decimo gradino, importante è che il
volontario lo sappia e lo scelga.
Il dopo si vedrà, perché come abbiamo visto, se
volontariato non significa solo manovalanza gratuita, è sacrosanto diritto
sapere da dove si parte ma non è detto si riesca a prevedere con altrettanto
sapere dove si arriverà.
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