Limiti delle neuroscienze: corpo oggetto
ed Io-corpo
Pur esercitando indubitabile fascino, al metodo scientifico adoperato nello
studio delle neuroscienze, fondato sull’oggettivazione del corpo umano, e
talvolta sulla sola analisi elettrochimica molto parziale del sistema nervoso
centrale, sfugge qualcosa di fondamentale, ossia gli aspetti che rendono l’uomo
tale, e ne qualificano l’essenza. La prima di queste è la capacità di trascendere
l’esperienza attraverso l’intuizione. A questo proposito si riportano, sempre
per analogia, alcune riflessioni del fisico-matematico R. Penrose, che si
basano sulla critica dell’IA forte (assimilazione della coscienza ad un
software, più o meno indipendente dall’hardware cerebrale), a partire da alcuni
corollari del teorema di Goedel. Uno di essi afferma: esistono proposizioni
deducibili dagli assiomi di un sistema formale evidentemente vere ma che non
hanno una dimostrazione all’interno del sistema. In altre parole, si riesce a
stabilire la verità di certi tipi di proposizioni perché in qualche modo siamo
riusciti a “vedere” che la proposizione è vera, pur non essendo ciò formalmente
dimostrabile all’interno del sistema. Siffatta proposizione è denominata
“proposizione di Goedel”. Si potrebbe pensare di allargare il sistema di
assiomi originario per arrivare a comprendere tale proposizione, ma in tale
sistema si creerebbero altre proposizioni indecidibili eppur evidenti, in un
processo all’infinito. La deduzione logica cui conducono tali teoremi è,
secondo Penrose, la seguente: l’algoritmo non è sufficiente per procedere
all’interno della matematica, ed è quindi necessario un certo tipo di “intuito
matematico”, un “intelletto” capace di “intus
legere”: è necessario prendere le mosse da quello che i logici chiamano “principio di riflessione”, ovvero la
capacità di riflettere sul significato del
sistema di assiomi e di regole procedurali, trascendendo i limiti del sistema
stesso, per essere in grado di codificare questa percezione intuitiva in
ulteriori enunciati matematici veri, non deducibili da quegli stessi assiomi o
regole. La mente non potrebbe dunque essere intesa semplicemente come un
software –elenco consecutivo di istruzioni computabili–, seppur di vari ordini
di grandezza più complicato dei sistemi operativi dei nostri persona computer,
poiché suddette capacità che mostra trascendono la tipica compilazione dei
programmi [7].
Ma
vi è anche un altro limite, più grave, della pretesa da parte delle neuroscienze
di spiegare in toto il “meccanismo”, o “processo”, del pensiero in generale, e
della coscienza in particolare. Il
corpo che io vivo, infatti, è il corpo che io sono, quello mediante il quale
intenziono (in senso fenomenologico) il mondo, mediante il quale, attraverso il
linguaggio, “do un significato comprensivo” al mondo (vedi Searle [8]); il corpo che studio come oggetto, su cui per
lo più si basa la ricerca scientifica, è il corpo che io sperimento come
estraneo a me. L'errore dello scientismo (ovvero della scienza empirica che
attraversa i suoi limiti legittimi) è quello di assolutizzare un modo di
apparire, quello del corpo come oggettività. Ora, la scienza ha il diritto di
considerare il corpo come una cosa qualunque per comprenderne meglio i fattori
fisico-chimici, ma sbaglia quando conclude che il corpo oggettivato è il solo
corpo reale, perché ciò significherebbe affermare che i significati scientifici
sono gli unici possibili. La scienza, una volta che ha ridotto il corpo a puro
organismo, introduce una fantomatica psiche, perché anche la scienza deve
riconoscere che ci sono dei fatti nel comportamento umano che non si possono
spiegare mediante elementi fisici. Se invece impostiamo il problema a livello
fenomenologico, non c'è bisogno della psiche, perché il corpo vivente è già un
uomo che conosce, un essere-nel-mondo, quindi già dotato di quelle capacità che
la tradizione ha sempre attribuito all'anima. Noi siamo il nostro corpo inteso
come corpo vivente. La mia esistenza è corporea, e il mio corpo è la modalità
del mio essere: i miei tratti, le mie espressioni esteriori non sono
manifestazioni di un io nascosto, ma sono quell'io stesso [9].
Il metodo scientifico e i limiti del
teismo: la cosmologia può rendere ragione, ma non basta
Dall’antropologia, l’argomentare si sposta in
questo paragrafo sulla cosmologia. Il metodo scientifico gode qui della sua
“ontologia regionale”, parafrasando un po’ indebitamente il professor Husserl,
in particolare nello studio del cosmo (il Kosmos greco e la natura fisica) quale
insieme di fenomeni legati, principalmente, dalla relazione causa-effetto. Ci
limiteremo, qui, a trattare in modo sbrigativo alcuni aspetti della moderna
cosmologia che potrebbero suffragare la convinzione dell’esistenza di un Dio
causa prima, ma che di per sé non bastano a dimostrare l’esistenza del “Dio dei
filosofi”. Altrove [10], [11], [12], e in altri tempi, ho praticato una strada,
al limite del concordismo e di certa apologetica, volta a giustificare
l’esistenza di Dio, ma sottobanco l’intento era dimostrativo. La riflessione
sulle unicità “antropiche” del nostro universo (il tema principale che avevo
affrontato), da sola, non consente di dischiudere il mistero di senso che rende
l’uomo tale. Certo l’argomento entropico basato sulla freccia termodinamica [10]
attrae molto, la fede nell’unitarietà ultima del reale descritto da un’unica
lagrangiana fondamentale è così forte poiché noi stessi siamo esseri unitari [10],
la simmetria delle leggi del cosmo affascina lo scienziato [11], il fine-tuning delle costanti fondamentali
e le coincidenze eccezionali nei processi di nucleosintesi del carbonio, che in
ultima analisi consentono un universo popolato da esseri autocoscienti [11], è
un argomento affascinante. Sullo stesso terreno della fisica si possono addurre
pesanti critiche ad ognuna di quelle argomentazioni: ad esempio, le costanti di
accoppiamento fra le interazioni fondamentali possono aver subito, nel corso
dell’evoluzione dell’universo, variazioni pur piccole ma apprezzabili [13]. La
Creazione ex-nihilo, suggerita dall’attuale modello cosmologico standard,
presenta anch’essa diversi problemi: anzitutto, può essere “spiegata”
ricorrendo ad eventi quantistici che si verificano alle scale di Planck, oppure
ad elucubrazioni riguardanti un eventuale Multiverso contenente miriadi di
universi possibili, o ancora ricorrendo alle conseguenze della teoria
cosmologica di stringa che, allargando la singolarità puntiforme in cui le
soluzioni delle equazioni di evoluzione tendono ad infinito, elimina il
problema della densità infinita, e popola l’iperspazio di strutture (le
D-brane) più matematiche che fisiche. O forse, noi, dal nostro sistema di
riferimento, mai potremmo spingerci indietro nel tempo, poiché, se il tempo è
misurato, ad esempio, dal numero di collisioni fra particelle e dalla
velocità/frequenza di queste, esso tenderebbe all’infinito (poiché lo spazio a
disposizione della materia-energia che collide tende a zero all’approssimarsi
della singolarità primeva, e anche la relatività ristretta fallisce) man mano
che cerchiamo di spingersi verso l’Origine? Ma, d’altra parte, al dato rivelato
biblico poco importa di una creazione dal nulla: allo Jahvista, infatti,
interessa fondare la relazione dell’Alleanza unica con Dio anche a partire
dalla natura creata oltre che dalla rivelazione mosaica; gli interessa risalire
al senso dell’Essere a partire dalle condizioni attuali e, all’inverso,
spiegare il dipanarsi nella storia della Salvezza [14]. Ma il problema
fondamentale dell’identificazione del Big-Bang con l’atto della creazione ex-nihilo del mondo –figlia della filosofia
greca– risiede nel salto dall’ordine fisico-logico degli eventi all’ordine,
ontologicamente diverso, dell’Essere: si corre il rischio di fare di Dio il
tappa-buchi della scienza. Sintetizzando, ed estremizzando, questo pensiero, Trinh
Xuan Thuanm, nel saggio La Mélodie
secrète, (Fayard, Paris 1989),
sostiene che
“l’apparizione
dell’universo, mediante la magia del flusso quantico, non sembra aver bisogno
né di una causa prima né dell’esistenza di Dio. L’emergere dell’universo si può
spiegare mediante processi puramente fisici. Di più: l’organizzazione e la vita
possono sorgere spontaneamente in un universo in espansione e inventore di
stelle. La mano di un Dio organizzatore non sembra più necessaria” [15]
Fatte
queste brevi considerazioni, che necessitano di un approfondimento futuro,
ritengo che il teismo (Dio Uno) possa risultare, ad un analisi che non prenda
le mosse solo dalla scienza sperimentale, ma anche dalla storia (personale ed
epocale) dell’uomo, pari se non meno ragionevole del Cristianesimo (Dio Uno e
Trino). Il Dio della metafisica, affermerebbe Heidegger, è un Dio entificato:
l’Essere, nella “superbia” dell’uomo, viene concettualizzato, racchiuso in
categorie razionali, posto all’inizio della cascata di eventi cosmici, Lui che
è altro rispetto alle coordinate spaziotemporali; in una parola, Colui che
alcuni hanno avuto l’ardore di definire il Totalmente Altro, l’Essere, viene
imbrigliato nella ragnatela dell’ente, pur ammantato di infinita perfezione. Ma
procediamo all’analisi di un altro limite fondamentale della scienza.
Oltre il tempo spazializzato: al confine
fra eternità e tempo
Altro
studio “limite” del dominio scientifico è infatti quello che riguarda la natura
del tempo. Essa è stata uno dei temi centrali del pensiero filosofico fin dalla
sua origine, e ha continuato a dominare per secoli il dibattito fra i diversi
pensatori. Cosa possiamo dire di esso, basandoci sulla fisica contemporanea? Relatività
generale e fisica quantistica si combattono da quasi un secolo nell’arena dello
spazio-tempo, e se la contendono. Da una parte, l’indagine intorno a forme di
spazio-tempo bizzarre che sembrano permettere di viaggiare nel passato (es.
linee di universo chiuse), e intorno ad ipotetiche particelle tachioniche
rimane un attivo campo di ricerca. Qui, il tempo che compare come
variabile/parametro nelle lagrangiane che descrivono l’evoluzione di campo gravitazionale
e materia, gode della simmetria di inversione; la varietà spaziotemporale è
liscia e differenziabile, e anche se il concetto di simultaneità ci disorienta
un poco, al principio, date le condizioni al contorno di un sistema accelerato
noi sappiamo come misurarne il tempo (proprio). Dall’altro versante delle
teorie scientifiche contemporanee, si estende il dominio quantistico. Qui, il
tempo ricopre davvero un ruolo fondamentale, e tuttavia entra a far parte della
teoria in un modo unico, che lo isola in una trattazione a sé. La relatività
del tempo mal si adatta alla visione quantistica di un mondo in cui le
transizioni, e le “concretizzazioni” o i “collassi” concomitanti con le misurazioni,
avvengono apparentemente in maniera improvvisa, in momenti specifici. I
problemi nascono quando gli stati quantistici riguardano regioni spaziali di
una certa estensione in cui si eseguono osservazioni simultanee [vedasi il
paradosso EPR e il teorema di Bell connesso, che trattai in 12]. La stessa
misura del tempo diventa un problema, dal momento che gli orologi sono oggetti
fisici e quindi soggetti all’indeterminazione quantistica. Le difficoltà si
inaspriscono quando bisogna applicare la meccanica quantistica al problema
della gravitazione, perché allora lo stesso continuum spaziotemporale è
soggetto alla “confusione” quantistica. Gli esperti non sono d’accordo se
fissare una sorta di “tempo principale”, una misura naturale del cambiamento in
un mondo fisicamente incerto, oppure porre il tempo del tutto al di fuori
dell’esistenza. Il mistero del tempo “che scompare”, svanisce, nella schiuma
quantica porta alcuni a pensare che il tempo verrà, presto o tardi, abbandonato
come entità fisica fondamentale; una proposta, questa, considerata da altri
oltraggiosa ed assurda. Potrebbe davvero accadere che, dopo millenni di
riflessioni sul tempo, si scopra alla fine che esso non esiste come componente
fondamentale della realtà, ma che si tratta, invece, solo di una proprietà
approssimativa di un particolare stato quantistico che casualmente è
sopravvissuto al Big-Bang? Problematiche non inferiori sorgono a riguardo
dell’origine del tempo, se il tempo sia anteriore al Cosmo stesso, o se sia
nato con esso, o se ambedue siano eterni: alla questione abbiamo accennato nel
precedente paragrafo. Infine, altro grande problema riguarda la natura della
cosiddetta “freccia del tempo”, intimamente connesso con la questione
cosmologica: essa si traduce in un’asimmetria fra passato e futuro, ma dove
ricercare il motivo fisico di questa “direzione preferenziale” se le equazioni
godono della proprietà di T-invarianza? La maggior parte degli scienziati
concorda sul fatto che la fonte dell’asimmetria possa alla fine essere fatta
risalire alla cosmologia e al comportamento su larga scala dell’universo, ma
l’esatta natura della relazione rimane tuttavia oscura e controversa (es. espansione
= avanti nel tempo e contrazione = indietro nel tempo?) L’altra direzione verso
cui cercare la direzionalità del tempo è il mondo subatomico: la scoperta che
le particelle chiamate kaoni violano la simmetria temporale (che tuttavia è da
associare alla rarità del quark strange
rispetto a up e down, più che ad una percezione intrinseca del tempo da parte del
kaone) ha dato origine a svariate ricerche sulla T-violazione, finora senza
successo: si ricercano indizi nella simmetria del momento di dipolo elettrico
del neutrone (i dettagli tirano in ballo l’assioma dell’invarianza fondamentale
CPT) e in alcune molecole, ma anche qui, finora, i risultati si sono dimostrati
deludenti [16].
Eppure,
sussiste un problema ancora più sconcertante di quelli finora proposti: esso
riguarda l’evidente discrepanza fra tempo fisico (o, per dirla alla Bergson,
tempo spazializzato) e tempo soggettivo o psicologico. Le opinioni a questo
proposito, fra filosofi e scienziati, sono totalmente discordanti. Taluni
(soprattutto fra questi ultimi) ritengono reale il tempo fisico, e il flusso
del tempo soltanto un costrutto mentale; talaltri affermano la priorità
ontologica del tempo come “durata” sul tempo spazializzato. In questa sommaria
esposizione, cercheremo di vedere la ragionevolezza dell’opinione di questi
ultimi, anzitutto perché, come mostrato poc’anzi, un’analisi fisica del tempo
rischia di lasciarci, in definitiva, con un pugno di mosche, soprattutto in
riferimento alla differenza di approccio fra relatività generale e mondo
quantistico, e alla sostanziale simmetria passato-futuro tipica della fisica;
in secondo luogo, perché una diversa concezione del tempo potrebbe rendere
possibili conclusioni non scettiche sulla relazione tempo-eternità. Nel suo “Saggio sui dati immediati della coscienza”
[17], Bergson espone la propria dottrina del tempo come “durata interiore”. Ad
essa il filosofo perviene attraverso la critica del tempo come concepito dalla
meccanica e, a monte, dalla matematica stessa: esso, grandezza che gli orologi
dividono in particelle uguali, corrisponderebbe ad un concetto spurio, prodotto
dall’intrusione delle idee di spazio, numero e quantità. Il tempo si riduce
così a grandezza misurabile ed omogenea, del tutto simile a quella spaziale, e
pertanto si distingue dal tempo reale della vita, cui Bergson riserva il nome
di “durata”: essa è costituita da momenti diversi fra loro solo
qualitativamente, irriducibili a misura, irripetibili, a differenza del tempo
della fisica caratterizzato dalla reversibilità. Ponendo al centro della
propria riflessione il concetto di “intervallo di tempo”, e di “atto
irriducibile”, Bergson propone una sua spiegazione ai paradossi di Zenone:
“Traducendo il movimento in un
intervallo spaziale divisibile all’infinito, ne deriva inevitabilmente che
Achille mai potrebbe raggiungere la tartaruga. Ma la verità è che ogni passo di
Achille è un atto semplice, indivisibile, e che, dopo un certo numero di questi
atti, Achille avrà superato la tartaruga. L’illusione degli Eleati deriva dal
fatto che essi identificano questa serie di atti indivisibili e sui generis con
lo spazio omogeneo che li sottende” [17]
Inoltre,
alla meccanica non interessa l’intervallo di tempo nella sua differenza
qualitativa, per cui un momento della nostra vita può valere assai più di una
lunga successione di anni (si pensi, solo, all’istante dell’innamoramento). Nel
suo Saggio, Bergson si propone di
recuperare l’autentica dimensione del “tempo-durata” attraverso “un potente
sforzo di astrazione”, che restituisca alla coscienza la sua qualità primaria. Mentre
infatti nello spazio i diversi elementi fisici che in esso si distinguono, gli
oggetti materiali, sono esterni gli uni agli altri, separati da intervalli che
ne fissano i contorni, e stanno tra loro in un rapporto di “giustapposizione”,
che consente di numerarli e misurarli, i fatti di coscienza, quali si svolgono
nel tempo reale –che Bergson chiama anche “tempo vissuto”– non sono separati
gli uni dagli altri, bensì si organizzano fra loro, si arricchiscono sempre
più, si “compenetrano” l’un l’altro, “cosicché
nel più semplice di essi si può riflettere l’anima intera”. La durata
temporale è pura successione senza esteriorità reciproca di elementi,
caratterizzata sì da una molteplicità di stati di coscienza, ma ben diversa,
per essere una “molteplicità qualitativa” priva di distinzioni numeriche, da
quella molteplicità che è propria di ciò che si colloca nello spazio, che al
numero è invece irriducibile. Ma come conciliare la radicale dualità di spazio
e mondo degli oggetti materiali, con la durata, la vita interiore dell’io? “È per noi incredibilmente difficile
rappresentarci la durata nella sua purezza originaria”: ciò dipende dal
fatto che, per esigenze pragmatiche della vita sociale, ed in particolare del
linguaggio, che di essa è il veicolo indispensabile, si adatta molto meglio un
io i cui stati interiori siano ben definiti, solidificati, numerabili e
misurabili. Nascerebbe così quel tempo omogeneo della meccanica e della vita
quotidiana, vera e propria “quarta dimensione dello spazio” (sebbene nel continuum
spaziotemporale il tempo, in riferimento alle variabili reali dello spazio, sia
descritto da variabili immaginarie), immagine simbolica della durata reale, nel
quale gli stati di coscienza vengono ad allinearsi l’uno accanto-dopo l’altro,
in una successione-giustapposizione, che assume l’aspetto di un dispiegamento
nello spazio. Ciò si verificherebbe in questo modo:
“C'è uno spazio reale, senza durata, ma
in cui certi fenomeni appaiono e scompaiono simultaneamente ai nostri stati di
coscienza. C'è una durata reale, i cui momenti eterogenei si compenetrano, ma
ciascun momento della quale può essere avvicinato a uno stato contemporaneo del
mondo esterno e, per l'effetto di questo stesso avvicinamento, separato dagli
altri momenti. Dal confronto di queste due realtà si genera una
rappresentazione simbolica della durata, ricavata dallo spazio. La durata
assume così la forma illusoria di un mezzo omogeneo, e il collegamento fra
questi due termini - lo spazio e la durata - è la simultaneità, che si potrebbe
definire come l'intersezione tra il tempo e lo spazio” [17]
Ma
perché tutto questo ripensamento del concetto di tempo? Perché è proprio in
queste categorie filosofiche che, forse, si inserisce la possibilità
dell’Essere, eterno, di comunicare con l’ente temporale “uomo”: è
l’irriducibilità dell’evento, dell’istante, la fusione di
passato-presente-futuro nella temporalità della coscienza. L’approfondimento di
questa fondamentale riflessione, che si trova ad un livello teologico, con i
dovuti distingui, nell’autocomunicazione di Dio in Rahner come nella
presenzialità del Kerygma in Bultmann, o in Pannenberg ed in Theobald, per
limiti di spazio e di competenze dell’autore, viene lasciata al lettore [18].
(continua...)
Note
[7] R. Penrose, La mente nuova dell’imperatore, BUR Scienza, 2000
[7] R. Penrose, La mente nuova dell’imperatore, BUR Scienza, 2000
[8] J. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel modo reale, Raffaello
Cortina Editore, 2000
[9] don R. Cortinovis, Antropologia filosofica ed etica, ISSR BG, 2013
[14] don P. Rota Scalabrini, Corso di introduzione al Pentateuco e Libri
storici, ISSR BG, 2013
[15] Trinh Xuan Thuanm, La
Mélodie secrète, Fayard, 1989
[16] Paul Davies, I misteri del tempo, Mondadori, 2011, pagg. 312 e sgg
[17] H. Bergson, Saggio sui dati
immediati della coscienza, in Opere (1889-1896),
Mondadori
[18] M. Epis, op.cit., pagg. 213 e sgg.
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