L’occasione di ragionare sull’Insegnamento di Religione (IRC) viene dal recente anniversario del Concordato tra Stato e Chiesa e da tutte le vicende che negli ultimi anni hanno portato a confliggere queste due realtà in molti campi. L’IRC è uno degli elementi più visibili di questo rapporto, lungo, profondo, che affonda nella relazione speciale e storica tra la Chiesa e l’Italia. Il fatto stesso di essere “la Chiesa di Roma” ha implicazioni che coinvolgono perfino la carta costituzionale. L’occasione è anche quella di raccogliere le suggestioni di Gianni Rodari (scomunicato dalla Chiesa e dal PCI, un eretico che ci interroga) che proprio sull’“ora di religione” si espresse favorevolmente su Paese Sera nel 1963. Nel suo editoriale lo scrittore e pedagogo sottolinea la centralità del problema per chi appartiene a una minoranza confessionale. Ed afferma, in maniera nodale ma anche problematica, che la prospettiva potrebbe essere completamente diversa «se la famosa ora di religione consistesse nel dare al bambino informazioni in materia religiosa». Ma subito dopo Rodari si pone una domanda nodale: «È possibile? Si può distinguere tra una informazione religiosa ed una formazione religiosa»?
Professor
Pacillo, ciclicamente, almeno una settimana l’anno per ogni anno scolastico, si
discute di IRC (e dunque di Concordato) nella scuola italiana: se abbia senso,
se sia discriminatorio, se sia o meno un vulnus alla laicità dello
Stato. Intanto iniziamo dicendo che l’Italia non è da sola, e che, sebbene i modelli
siano vari in Europa, non sono meno slegati dalle chiese locali di quanto lo
sia l’insegnamento in Italia. Cosa può dirci di questo?
L’IRC in Italia è un modello
che ha una sua fortuna ma che io stesso – prendendomi qualche strale – mi sono
permesso di mettere in discussione. Non è che sei veramente cattolico solo se
sostieni il modello del Concordato. Il Concordato è uno strumento che è servito
in un certo momento e in un certo luogo; forse oggi possiamo pensare che
esistano degli altri modelli. Il Concordato non è un dogma di fede.
Chiaro.
Quali sono le opzioni in campo, guardando primariamente a quei paesi più vicini
a noi, quelli europei, per storia e impianto giuridico? Difficile pensare di
poter adottare modelli asiatici o americani...
I modelli degli approcci
europei sono tradizionalmente raggruppati in quattro categorie:
- Learning
into religion, che è il modello italiano,
tendenzialmente improntato su base confessionale, gestito da una o più
chiese, sulla base dei loro assunti dogmatici. La cosa fondamentale del
modello italiano è che esso si deve inserire, a norma proprio del
Concordato, all’interno delle finalità della scuola. Cioè essa non è un’ora
di catechismo o un’ora buttata lì, bensì è chiamata a dialogare con le
altre discipline costruendo con essere una serie di obbiettivi formativi.
La seconda particolarità è che è un insegnamento facoltativo: questa è l’unica
cosa che dice chiaramente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Nessun divieto a fare insegnamenti di questo tipo, into religion,
purché siano facoltativi.
- Un
altro modello molto interessante è il learning from religion, usato
in Inghilterra. Esso deriva da considerazioni più didattiche che
giuridiche: si parte dall’esperienza dell’alunno per rispondere alle
grandi domande esistenziali della persona e, facendo notare la diversità
delle risposte, si costruisce un quadro di insegnamento dell’esperienza
religiosa. Ad esempio si ragiona sul significato delle feste religiose:
ciascun bambino porta la propria esperienza, l’insegnante le raccoglie e
predispone un “tappeto” per creare non solo la conoscenza di cosa vogliano
dire, ma anche di un clima di accettazione in cui emerge l’importanza del
parlarne insieme.
- Poi
c’è il modello del learning about, forse più scientificamente corretto
ma anche il più complesso da attuare: un insegnamento di filosofia, storia
e antropologia delle religioni. A partire dal dato oggettivo sul quale
riflettere, lo si porta dentro la scuola, con il rischio però di creare un’altra
materia che ai ragazzi offra meno sia rispetto al learning from che
al learning into. Infatti manca il dato esperienziale. Conoscere la
storia dell’Islam non significa conoscere la teologia islamica; non è
sufficiente sapere la storia del cristianesimo per capire come le trasformazioni
del Concilio di Nicea impattano ancora nella vita delle persone.
- Infine
c’è il learning out of, che è l’approccio francese. Non si possono
evitare gli aspetti religiosi, ma se ne parla nelle altre ore. Non c’è un
insegnamento ad hoc di religione: le questioni vengono affrontate
con l’insegnamento della storia, o della geografia quando si parla, ad
esempio, di immigrazione. È chiaramente la scelta – appoggiata soprattutto
negli ultimi anni – di un paese separatista, che di conseguenza impone ai
professori un aggravio di conoscenze e competenze che sarebbero tipiche di
un docente di religione. Forse anche questo perde di vista il fatto
esperienziale. Però in Francia i luoghi pubblici devono restare
assolutamente neutri, e diventerebbe complesso presentare esperienze
religiose personali.
L’evoluzione
storica prima come obbligo, poi come materia esonerabile e infine come materia
facoltativa (ancorché assicurata da uno status diverso dalle materie
opzionali che le scuole possono istituire) sembra una soluzione dettata in
parte dal buon senso, ma soprattutto informata della più classica delle
soluzioni italiane: l’“ammuina”. Muoviamo tutti i pezzi sullo scacchiere, ma
tutto in fondo resta uguale, sebbene lo status giuridico degli insegnanti di
IRC sia tutt’altro che parificato con quello degli altri insegnanti (creando
dei lavoratori a volte di serie B). L’IRC – si argomenta – resta una propaggine
della Chiesa nella scuola italiana.
Su questo sarei meno
“cattivo”: nell’impostazione delle norme sull’IRC una progettualità educativa c’è
stata. Il solo fatto – non scontato – del garantire la libertà di coscienza
attraverso la libertà di scelta è importante. Si sottovaluta che sia esplicito
che l’IRC deve entrare a far parte delle finalità della scuola; non è un
inciso, ma una parte fondamentale. Non è non un passaggio scontato, perché
cambia radicalmente la prospettiva con cui la religione è insegnata; se è
inserita nelle finalità della scuola, allora occorre una finalità specifica. È
vero, la formazione degli insegnanti è demandata integralmente alla Chiesa; su
questo si potrebbe ragionare, instaurando canali di dialogo tra la Chiesa e l’università
laica.
Uno
degli aspetti che spesso si sottovaluta dello status dell’IRC è che
direttamente collegato all’assenza – voluta, anzi cercata, dalla Chiesa
cattolica – di non avere dipartimenti o facoltà di Teologia nelle università
italiane (pubbliche e private). L’unica eccezione di fatto, è la Facoltà
Teologica Valdese. Che ne pensa?
Le università italiane già
offrono la laurea magistrale LM-64 in Scienze delle Religioni: bisognerebbe
capire cosa farne. Un esperimento senza rompere con il Concordato – che è
comunque un punto importante e con il quale è bene fare i conti – è quello dell’Università
di Palermo; nell’ateneo siciliano, a determinate condizioni, la teologia torna
nelle aule. Attualmente coordino un accordo analogo per una LM-64 interateneo
tra le Università di Bologna, quella di Modena e Reggio Emilia e la Facoltà
Teologica dell’Emilia Romagna. Sarebbe possibile mettere attorno a un tavolo il
MIUR, la CEI e la Santa Sede per dare – con tutte le cautele che servono – alla
LM-64 un ruolo nella formazione degli insegnanti di religione? È vero che l’IRC
è confessionale, ma se c’è una convenzione tra la diocesi e la singola
università italiana, la LM-64 – eventualmente collaborando con anche l’Istituto
Superiore di Scienze Religiose locale – potrebbe diventare uno strumento anche
per la formazione continua, oppure per la prosecuzione degli studi verso gradi
accademici superiori, quali il dottorato. Ciò motiverebbe gli insegnanti all’aggiornamento.
Lo spirito del Concordato dovrebbe essere quello di un dialogo franco e aperto
alla collaborazione; posto che il Concordato non è un dogma, finché c’è
usiamolo: non deve essere uno strumento fossilizzato, ma dinamico.
Mi
pare che ci siano delle inerzie e dei riflessi pavloviani ad impedire questo
dialogo. Da un lato è bastato un emendamento per equiparare LM-64 alle
magistrali di Filosofia, Storia o Antropologia per far gridare allo scandalo
dell’intromissione della Chiesa nell’Università da parte dei laicisti (polemica
assurda perché, appunto, la LM-64 è conferita dallo Stato), dall’altra si vede
la lentezza con cui la Chiesa italiana sta rispondendo alle sollecitazioni del
Papa sulla sinodalità ...
Comprendo la considerazione,
ma qui ognuno deve prendersi la propria quota di responsabilità. Io non faccio
il Vescovo, ma il professore universitario; dal lato dell’Accademia, cosa si è
fatto? Poco o nulla. È facile attribuire l’intera responsabilità alla
Conferenza Episcopale Italiana. Come possiamo migliorare l’IRC all’interno del learning
into religion? Non è un sistema da buttare, ma occorrerebbe mettere, come
diceva Rodari, il ragazzo al centro di questo processo, assicurando un
insegnamento di qualità all’interno delle finalità della scuola. Sta anche a
me, come docente universitario, proporre delle convenzioni, andare a bussare
alle porte. Non dobbiamo pensare sempre che sia la CEI a doversi muovere per
prima. Anche che il mondo cattolico si deve prendere le proprie responsabilità.
Se – facciamo un esempio – il ddl Zan non andasse bene, perché nascondersi
dietro a una nota della Santa Sede anziché esprimere i propri dubbi come
politica cattolica? Se pensiamo che l’IRC vada migliorato, e si possano creare
canali più strutturati di formazione continua, perché non siamo noi stessi a
metterci in gioco su questo, provando a dedicarvi tempo ed energie?
È la
famosa responsabilità dei laici di cui parla Papa Francesco...
Esattamente. Quando il Papa se
la prende col clericalismo, intende questo. L’insegnante di religione non deve
fare il prete, né vestirsi da prete davanti agli studenti; deve essere un
laico, con la sua vocazione, che si prenda la sua parte di responsabilità
rispetto alla sua comunità. La Chiesa è la mia comunità, è fatta dei miei
fratelli in Cristo; prendere sul serio tale responsabilità significa mettersi a
servizio: è una cosa importante. Ciò implica un dialogo del docente, su questi
temi, con il proprio vescovo. Sono assolutamente convinto che le Università e
le istituzioni religiose presenti sul territorio possano e debbano dialogare
insieme. La laicità non è indifferenza nei confronti delle religioni, ma la
garanzia del pluralismo confessionale e culturale dentro la salvaguardia della
libertà di religione, che vuol dire anche libertà di espressione della propria
religione. Gli interventi contro l’equiparazione della LM-64 sembrano cartoline
ottocentesche della laicità.
Lei ha
scritto un interessante articolo proprio sull’insegnamento religioso nelle
scuole, in prospettiva europea, partendo da una riflessione del 1963 di Gianni
Rodari, per la rivista “Il Diritto Ecclesiastico”. Emerge come anche
laddove il legame con le chiese sia più stretto, regolato – come nel modello
latino – dal Concordato, in molti casi l’insegnamento non sia più da intendersi
(al di là della vulgata) come indottrinamento o catechesi, ma come un nuovo
modello nato dalla contrattazione con gli studenti e il pensiero debole della
società attuale: imparare il fatto religioso dalla religione, esprimendo
giudizi critici e idee su di essa. In Italia molto spesso l’IRC è l’unico
insegnamento dove i ragazzi parlano della propria esperienza del mondo. Dei
vari modelli abbiamo parlato, ma Gianni Rodari che consiglio ci darebbe?
L’idea generale è quella di un
alunno protagonista, anche dell’ora di Religione. Questo, secondo me, passa
attraverso tre punti. Prima di tutto un approccio pedagogico che parta dalla
relazione e dall’esperienza con l’alunno, e non da una dogmatica. In secondo
luogo una formazione continua dell’insegnante, sia dal punto dei vista dei
contenuti che dei metodi pedagogici. In terzo luogo avere a cuore l’alunno! L’“I
care” di don Milani rischia di diventare un slogan, ma è pur vero che solo se
fai sentire l’alunno amato e parte di una comunità, se lo sai guardare con
occhi diversi, allora riesci a essere protagonista di un’ora di religione che
non è solo la dottrina. Essere cristiano vuol dire questo: avere una relazione
d’amore e di cura con il prossimo; e penso che sarebbe anche il consiglio di
Rodari ...
a cura di Lucandrea Massaro
Vincenzo Pacillo, foto da modenatoday.it |
L'intervista è stata pubblicata online sulla rivista Nipoti di Maritain n.11 (marzo 2022)
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