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Educare tutti al pluralismo religioso: verso un insegnamento aconfessionale e/o pluriconfessionale?

Quando andavo a scuola volevo “esonerarmi” dall’IRC. Infatti, pur avendo più dei miei compagni un interesse verso la spiritualità, mi risultava scomodo un Insegnamento della Religione Cattolica nell’istituzione scolastica laica. A disturbarmi era precisamente l’aggettivo cattolica, considerando i tempi del ruinismo politico e del mio protestantesimo adolescenziale. Alla fine continuai a seguirla: i docenti non avevano impostazioni dottrinali né aggiungevano studio ma si limitavano a innocui cineforum, spesso privi di attinenza al religioso; come me, la maggioranza dei miei compagni. Ora mi ritrovo per contrappasso dall’altra parte della barricata, da insegnante IRC a Savona. Mediamente trovo metà degli studenti non avvalentesi; ma le percentuali raggiungono il 90% nelle periferie a prevalenza musulmana. Ai superstiti chiedo le motivazioni della frequenza: l’abitudine del “l’ho sempre fatta”, “mi piacevano i film che vedevamo alle medie”, “abito lontano e non so che fare se esco per un’ora”, ma anche il desiderio di parlare di tematiche diverse da quelle abituali.

La scomodità dell’aggettivo cattolica resta. Nel 1984 venne meno l’ora di “dottrina” impartita sovente dal parroco e nacque l’IRC facoltativo, esteso alle scuole dell’infanzia: le attuali indicazioni nazionali, per quanto generiche e aperte alle “altre” convinzioni, sono “cattocentriche”, così come le idoneità all’insegnamento sono attribuite dall’Autorità diocesana, che più o meno discrezionalmente esamina la preparazione/ortodossia (alcune prevedono esami di abilitazione, altre collocano disoccupati e neoiscritti a scienze religiose, benché la legge chieda il titolo magistrale o il baccellierato teologico) e la moralità (alcune la negano a conviventi, divorziati o omosessuali dichiarati) degli insegnanti, in larga maggioranza laiche e laici, precari ricattabili. Pochi sono i docenti di ruolo che se privati dell’idoneità resterebbero dipendenti pubblici: l’ultimo concorso del 2004 era accessibile da chi aveva insegnato per 4 anni continuativi nel decennio precedente. A qualcuno fa comodo così, temendo il concorso ordinario che metterebbe in concorrenza neolaureati e precari storici, i quali non sempre detengono requisiti e conoscenze fresche per affrontarlo; per essi si è invocato un semplice concorso straordinario, analogamente ad altre classi di concorso.

Una stabilizzazione rischia però di sancire lo status quo dell’IRC, che resiste alla soppressione grazie alla residua influenza dell’episcopato italiano; le questioni sindacali sottraggono energie al ripensamento della disciplina, improrogabile su due versanti: la confessionalità (e quindi anche i requisiti d’accesso all’insegnamento) e la facoltatività. Infatti, se è vero che l’assenza di concorsi e lo stipendio statale alimentano pregiudizi verso i docenti IRC, l’essere “cattolica” e la conseguente non obbligatorietà scoraggiano molti; eventuali argomenti da studiare o docenti che si limitano a “dettare il libro” rendono ancora più allettante l’uscita anticipata, lo studio assistito o l’ora di alternativa, ove prevista. La diffidenza di colleghi, studenti e genitori va vinta di volta in volta; film e chiacchiere sono le opzioni preferite per limitare gli “esoneri”. Qualcuno vorrebbe abolire l’IRC; il rischio, in certi contesti, è che ogni conoscenza e competenza del religioso sia abolita di fatto dai non avvalentesi.

Lo scorso anno, nell’emergenza pandemica che impediva alternative, mi è stato detto che – con l’assenso delle famiglie – sarebbero stati presenti alle mie lezioni tutti gli studenti, inclusi gli “esonerati”; inoltre, su alcune classi, mi erano stati attribuiti moduli orari aggiuntivi da dedicare all’educazione civica. Tale inconveniente si è rivelato l’opportunità di uscire dall’imbarazzante autoreferenzialità confessionale per rivolgermi all’intera classe, lasciandomi interpellare da chi non l’aveva mai frequentata; ho alternato lezioni sul cristianesimo e sull’islam, con un approccio storico-letterario e al contempo appassionato verso entrambe le tradizioni. Senza obblighi, tutti potevano intervenire; alcuni hanno persino svolto prove ed esposto ricerche. Ho trasformato l’ora in occasione di affezione verso le reciproche sensibilità religiose e culturali, nello scambio di doni che accende il desiderio di una conoscenza più profonda di sé e dell’alterità. Quindi ho fornito coordinate culturali, lessico e nozioni per orientarsi nell’attuale contesto post-secolare, con un fortissimo retaggio cattolico nel caso dell’Italia.

Nonostante l’IRC, o a causa della sua facoltatività, l’analfabetismo religioso è galoppante e urgono strumenti di comprensione interculturale, per tutti. Va altresì affrontato il tema della laicità, che l’Italia interpreta quale accoglienza delle variegate sensibilità spirituali, libere di esprimersi nello spazio pubblico, ove sono chiamate a rispettarsi, conoscersi e valorizzarsi. L’alternativa alla soppressione dell’IRC sta nel bivio tra due modelli: quello aconfessionale e quello pluriconfessionale, più diffuso in Europa.

Nel caso di un insegnamento aconfessionale, la disciplina avrebbe un taglio marcatamente culturale, sempre più affine alle discipline storiche, artistiche, socio-antropologiche e letterarie. Potrebbe diventare una Storia delle Religioni, senza idoneità diocesane né obbligo di titoli pontifici, bensì aperta anche ai laureati delle università italiane con esami in ambito religioso; l’optimum sarebbero gli storici delle “Scienze delle Religioni” (LM-64). Attribuendo piena dignità laica all’insegnamento, esso diventa obbligatorio; ciò non esclude che il docente possa essere cattolico, come del resto può insegnare filosofia un professore agostiniano o neotomista, oppure, di converso, esistenzialista ateo; i liceali non possono esonerarsi dalle sue lezioni per il fatto che il docente ha idee differenti.

Se invece si propendesse per un insegnamento pluriconfessionale, si darebbe la possibilità di scegliere la confessione religiosa (o non). Accanto all’IRC nascerebbe l’Insegnamento della Religione Islamica, e così via per ogni confessione, con docenti di nomina confessionale, stipendiati a partire da un numero minimo di studenti, e con un programma che problematizzi il contributo della propria convinzione etica nello spazio pubblico: come essere buoni cittadini italiani a partire dalla propria fede. Parte dell’insegnamento andrebbe svolta congiuntamente dai docenti delle varie confessioni, educando al dialogo interreligioso e prevenendo devianze terroristiche. La disciplina più affine sarebbe educazione civica, adesso spalmata su ogni materia. Venendo ai problemi, penso al fatto che le comunità islamiche non abbiano ancora un’intesa con la Repubblica Italiana.

Nella pratica oscillo tra i due modelli, verso una terza via. A volte spiego con entusiasmo dal punto di vista credente, cristiano e/o islamico, per entrare in essi evitando integralismi; altre volte offro strumenti storico-sociologici per interpretare i fenomeni religiosi. Gioisco quando a qualcuno sorge il dubbio sulla mia appartenenza religiosa: la verità di entrambe le tradizioni mi infiamma, senza per questo fare proselitismo per una delle due. Le questioni occupazionali degli attuali docenti non vanno trascurate; forse proprio per questo sarebbe opportuno che una coraggiosa proposta di riforma per educare tutti al pluralismo religioso venisse da chi l’IRC lo vive e ne sperimenta pregiudizi, limiti e tensioni.

Piotr Zygulski

Nato a Genova nel 1993, è laureato in Economia e commercio all’Università di Genova, in Filosofia ed etica delle relazioni all’Università di Perugia e in Ontologia Trinitaria all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), dove è dottorando su tematiche escatologiche islamo-cristiane. È ricercatore all’Università “Lucian Blaga” di Sibiu (Romania), nonché docente e sinodale per la Diocesi di Savona-Noli. Tra le pubblicazioni: “Il battesimo di Gesù. Un’immersione nella storicità dei vangeli” (EDB 2019). Giornalista pubblicista, è redattore di “Termometro Politico” e dal 2016 direttore di “Nipoti di Maritain”.

L'articolo è stato pubblicato online sulla rivista Nipoti di Maritain n.11 (marzo 2022)

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