di Lorenzo Banducci
Su
suggerimento di Vatican Insider sono andato a ricercarmi un vecchio intervento di Ratzinger del 2005 nel quale, fra varie tematiche, affrontava, in risposta a
una domanda di un prete, la questione dei “divorziati risposati”.
Qui
vi proponiamo l’estratto in cui Benedetto XVI accennava alla soluzione proposta
dalle Chiese Ortodosse, ma soprattutto diceva di non avere ricette rapide a
questa questione perché se da un lato c’è da tutelare il bene della comunità e
quello del Sacramento, dall’altro c’è da aiutare la sofferenza delle persone. L’intervento
del Papa lasciava dunque presagire l’apertura verso un dibattito aperto all’interno
della Chiesa senza che però poi vi fosse una concreta discussione fino al
Sinodo di quest’anno.
Sappiamo tutti che
questo è un problema particolarmente doloroso per le persone che vivono in
situazioni dove sono esclusi dalla comunione eucaristica e naturalmente per i
sacerdoti che vogliono aiutare queste persone ad amare la Chiesa, ad amare
Cristo. Questo pone un problema.
Nessuno di noi ha una
ricetta fatta, anche perché le situazioni sono sempre diverse. Direi
particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma
non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi
in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono
esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono
stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato
diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un
sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento
di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso
dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho
capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito. Ma
data la situazione di sofferenza di queste persone, è da approfondire.
Non oso dare adesso una
risposta, in ogni caso mi sembrano molto importanti due aspetti. Il primo:
anche se non possono andare alla comunione sacramentale non sono esclusi
dall'amore della Chiesa e dall'amore di Cristo. Una Eucaristia senza la
comunione sacramentale immediata non è certamente completa, manca una cosa
essenziale. Tuttavia è anche vero che partecipare all'Eucaristia senza
comunione eucaristica non è uguale a niente, è sempre essere coinvolti nel
mistero della Croce e della risurrezione di Cristo. È sempre partecipazione al
grande Sacramento nella dimensione spirituale e pneumatica; nella dimensione
anche ecclesiale se non strettamente sacramentale.
E dato che è il
Sacramento della Passione di Cristo, il Cristo sofferente abbraccia in un modo
particolare queste persone e comunica con loro in un altro modo e possono
quindi sentirsi abbracciate dal Signore crocifisso che cade in terra e muore e
soffre per loro, con loro. Occorre, dunque, fare capire che anche se purtroppo
manca una dimensione fondamentale tuttavia essi non sono esclusi dal grande
mistero dell'Eucaristia, dall'amore di Cristo qui presente. Questo mi sembra
importante, come è importante che il parroco e la comunità parrocchiale
facciano sentire a queste persone che, da una parte, dobbiamo rispettare l'inscindibilità
del Sacramento e, dall'altra parte, che amiamo queste persone che soffrono
anche per noi. E dobbiamo anche soffrire con loro, perché danno una
testimonianza importante, perché sappiamo che nel momento in cui si cede per
amore si fa torto al Sacramento stesso e l'indissolubilità appare sempre meno
vera.
Conosciamo il problema
non solo delle Comunità protestanti ma anche delle Chiese ortodosse che vengono
spesso presentate come modello in cui si ha la possibilità di risposarsi. Ma
solo il primo matrimonio è sacramentale: anche loro riconoscono che gli altri
non sono Sacramento, sono matrimoni in modo ridotto, ridimensionato, in una
situazione penitenziale, in un certo senso possono andare alla comunione ma
sapendo che questo è concesso "in economia" - come dicono - per una
misericordia che tuttavia non toglie il fatto che il loro matrimonio non è un
Sacramento. L'altro punto nelle Chiese orientali è che per questi matrimoni
hanno concesso possibilità di divorzio con grande leggerezza e che quindi il
principio della indissolubilità, vera sacramentalità del matrimonio, è
gravemente ferito.
Da una parte, dunque,
c'è il bene della comunità e il bene del Sacramento che dobbiamo rispettare e
dall'altra la sofferenza delle persone che dobbiamo aiutare.
Il secondo punto che
dobbiamo insegnare e rendere credibile anche per la nostra stessa vita è che la
sofferenza, in diverse forme, fa necessariamente parte della nostra vita. E
questa è una sofferenza nobile, direi. Di nuovo occorre far capire che il piacere
non è tutto. Che il cristianesimo ci dà gioia, come l'amore dà gioia. Ma
l'amore è anche sempre rinuncia a se stesso. Il Signore stesso ci ha dato la
formula di che cosa è amore: chi perde se stesso si trova; chi guadagna e
conserva se stesso si perde.
È sempre un Esodo e
quindi anche una sofferenza. La vera gioia è una cosa distinta dal piacere, la
gioia cresce, matura sempre nella sofferenza in comunione con la Croce di
Cristo. Solo qui nasce la vera gioia della fede, dalla quale anche loro non
sono esclusi se imparano ad accettare la loro sofferenza in comunione con
quella di Cristo.
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