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Una riforma a metà


di Lorenzo Banducci

Oggi diamo spazio all’amico Gioele Anni, segretario nazionale del Movimento Studenti di Azione Cattolica, che, rispondendo ad alcune mie domande, ci parla del ddl “La buona scuola” da poco approvato dal Parlamento e che si propone di riformare la scuola italiana.

 

Per prima cosa, ci tengo a ringraziare i Nipoti di Maritain per questo spazio di dialogo. Per me è l’occasione di fare sintesi dopo un anno in fibrillazione tra incontri, letture e discussioni sulla “Buona scuola”. Dalla consultazione pubblica di settembre alla discussa approvazione di luglio, è successo praticamente di tutto: progetti, annunci, smentite, contestazioni, prove di forza politiche. Un anno in cui i ragazzi del Msac si sono informati, hanno proposto assemblee nelle scuole, si sono mobilitati per migliorare la riforma pur senza scioperare. Un anno in cui, a Roma, noi responsabili abbiamo avuto modo di incontrare ministri e parlamentari, siamo stati a Palazzo Chigi con Boschi, Madia e Giannini, abbiamo camminato anche con soggetti molto diversi da noi per cercare di dare un contributo positivo alla nostra scuola. Grazie, dunque, perché è bello condividere a mente fredda alcune riflessioni, che – si spera – possano essere utili per la fase di attuazione del disegno di legge e per gli sviluppi futuri della scuola italiana.

 

1. Quando penso alla scuola in Italia e ai suoi problemi più incombenti mi vengono in mente di sicuro la fatiscenza delle strutture in cui abitano gli studenti, la difficoltà degli insegnanti ad essere bravi “maestri” essendo così poco gratificati dallo Stato che li stipendia, la difficoltà degli alunni a vivere la scuola non come un periodo di compiti, test e interrogazioni, ma come un tempo di crescita e arricchimento personale. Riesce l’ultima riforma della scuola a intervenire su qualcuno di questi punti? Cosa vi è di positivo in questa legge? Cosa manca?

Vorrei cominciare da una parafrasi del pittore Magritte: ceci ne pas una riforma. Non è una riforma della scuola, perché la “buona scuola” non interviene sugli aspetti strutturali del nostro sistema d’istruzione. Non c’è una revisione dei cicli, che servirebbe a riparare la scuola media (il livello più debole del sistema) e a farci uscire a 18 anni come in altri Paesi europei e non; non c’è un serio intervento sul diritto allo studio, per ridurre i costi della scuola alle famiglie; non c’è una modifica dei programmi e delle modalità didattiche... La “buona scuola” è una «manutenzione straordinaria dell’autonomia scolastica» (così l’ha definita l’autorevole pedagogista Luciano Caimi a un seminario dell’Azione Cattolica), che si propone di rafforzare alcuni meccanismi della scuola dell’autonomia ideata da Berlinguer (1996) ma svuotata dai tagli del ministro Gelmini (8 miliardi di € tra riduzione di personale e di fondi. La “buona scuola”, invece, investe 3 miliardi di €). Questo non vuol dire che sia per forza un provvedimento tutto sbagliato, o tutto giusto. Ci sono cose buone e cose meno buone. Quel che è certo, è che non stiamo parlando della «rivoluzione» annunciata dal premier Renzi a settembre (potete vedere il video del 3 settembre 2014 con cui lanciava la consultazione: giudicate voi). C’è distanza tra la narrazione e la realtà dei fatti, e questa non è né più né meno che una constatazione. D’altra parte, lo stesso Governo sembra nutrire dubbi non banali sulla “buona scuola”: il 17 giugno, nel passaggio complicato tra la Camera e il Senato, Renzi annunciava a sorpresa un congelamento della riforma che avrebbe proseguito il suo iter dopo una “conferenza nazionale” della scuola. E il sottosegretario Faraone, il braccio destro di Renzi al MIUR, diceva il 18 giugno a “La Repubblica”: «Pensavamo bastasse mettere soldi sulla scuola, invertire una traiettoria storica al ribasso, per avere la fiducia della classe docente e ricomporre quello specchio rotto che è oggi l’istruzione italiana. I fatti ci hanno smentito e ora, fermandoci, facendo autocritica, dimostriamo di saper tornare ad ascoltare professori, presidi, studenti, genitori, sindacati». Una settimana dopo, lo stesso Governo che «faceva autocritica» blindava il testo con la fiducia in aula al Senato, saltando il passaggio in commissione (dove non c’era la maggioranza). Un comportamento che lascia una ferita con il mondo della scuola, che si era mobilitato ampiamente anche perché si aspettava dalla “buona scuola” quel largo cambiamento auspicato agli inizi. Certo, tra chi ha manifestato nei mesi c’è anche una componente corporativa, che teme di perdere le sue prerogative con qualsiasi cambiamento. Ma, dopo questi 10 mesi di “buona scuola”, ritengo di poter dire che un’ampia fetta del mondo scolastico si è mobilitata perché desiderosa di più cambiamento. Infine, capitolo strutture: questo Governo ha sbloccato fondi per quasi 4 miliardi di €, tra vecchie risorse mai utilizzate e nuovi accordi. I risultati di questo piano, naturalmente, si vedranno sul lungo periodo. Scusate, non ho risposto alla vostra domanda, ma ci tenevo a chiarire alcune premesse della “buona scuola”: prometto di tornare più avanti sul “cosa c’è/cosa manca”.

 

2. Il disegno di legge arriva all’approvazione dopo un itinerario lungo un anno. Itinerario che, in teoria, dovrebbe aver coinvolto molte parti del mondo della scuola. E’ stato davvero così? Come giudichi il metodo con cui si è arrivati a scrivere questa legge? Vi siete sentiti partecipi in questo processo di riforma o solo spettatori? Cosa avevate proposto voi come MSAC? E’ stato accolto qualcosa delle vostre idee?

Il Msac ha presentato un “Manifesto della Buona scuola” elaborato dai circoli diocesani nelle “OktoberFest Msac”, la nostra festa d’inizio anno che si tiene nelle scuole. In questo documento, per esempio, dicevamo che per una “buona scuola” c’è bisogno di diminuire il numero di alunni per classe; di potenziare l’insegnamento delle lingue, in particolare dell’inglese; di prevedere corsi flessibili e aperture pomeridiane, così da permettere agli studenti di personalizzare i curricula e abitare la scuola anche oltre l’orario della mattina. Queste cose nella “buona scuola” ci sono, ma sono tutte demandate all’autonomia delle singole scuole. Restiamo al primo esempio: i Dirigenti Scolastici hanno la facoltà di diminuire il numero di alunni per classe, sfruttando il personale a loro disposizione (ci torniamo più avanti: il piano di assunzioni è il cuore di questo provvedimento). Ma non c’è una disposizione univoca, valida per tutte le scuole, che disponga che non devono più esistere classi pollaio. Che succederà? Le scuole più virtuose, con meno iscritti, o con una migliore capacità gestionale, elimineranno le classi pollaio. Quelle più problematiche, o magari con strutture limitate, continueranno ad avere classi pollaio. Questo è, a mio parere, un processo solo parzialmente virtuoso. Così per le materie da potenziare: la “buona scuola”, al comma 7, prevede un insieme di 17 aree che le scuole possono potenziare a loro discrezione: vanno dalle lingue, alle abilità informatiche, alla cittadinanza attiva, alla sensibilizzazione sui temi ambientali. Ma la scuola dello Stato, pubblica e paritaria, su che cosa scommette? Su quali competenze, abilità, valori decidiamo di investire? Quanto alle nostre proposte, abbiamo incontrato il ministro Giannini solo in due occasioni: a ottobre e a maggio, dopo gli scioperi. Siamo stati auditi da Camera e Senato, sì, ma con commissioni semivuote e poco partecipi. Invece, abbiamo inciso di più grazie a un soggetto plurale: la rete di associazioni “La scuola che cambia il Paese”, un comitato di 32 sigle (da noi all’Unione degli Studenti, dai Maestri Cattolici ai sindacati, passando per Libera e Legambiente) che si è riunito ad aprile per chiedere di modificare la prima versione del ddl “buona scuola” uscito a marzo dal Consiglio dei Ministri. Segnalavamo due priorità: una seria lotta contro le diseguaglianze, e una promozione del metodo cooperativo a tutti i livelli (dalla didattica alla governance). Abbiamo ottenuto quanto meno una importante riscrittura del testo: nel passaggio tra il CdM e la prima lettura alla Camera, grazie al lavoro dei parlamentari in Commissione Cultura, il ddl è stato praticamente riscritto (il magazine “Tuttoscuola” calcola che sono state aggiunte oltre 8000 parole). Così il provvedimento è stato ancorato ai valori dell’autonomia tracciata da Berlinguer. È stato in questa fase, per esempio, che il cosiddetto “preside-sceriffo” ha perso alcuni dei suoi poteri più discussi, per esempio la possibilità di scrivere solitariamente il Piano di Offerta Formativa (POF, la “carta d’identità” delle scuole autonome) – che è tornato collegiale, opera del Collegio docenti approvato dal Consiglio d’Istituto. Perché è avvenuto questo? Probabilmente, perché nelle commissioni parlamentari operano persone provenienti dal mondo della scuola; mentre il primo testo, licenziato dal CdM, era stato scritto soprattutto da tecnici.

 

3. Verso dove va con questa riforma la scuola italiana? C’è davvero una visione di scuola più ampia (da intendersi come spazio in cui formare e costruire la persona) o – come sembra - siamo rimasti ancora fermi a parlare di questioni burocratiche/amministrative senza andare al cuore dei problemi?

Credo di aver già risposto a questa domanda, per cui approfitto per rispondere al “cosa c’è/cosa manca”. C’è un grande piano di assunzioni dei docenti precari, oltre 100.000 + altri 60.000 tramite concorso, che è una nota di forte merito perché finalmente aggredisce il problema atavico del precariato. Che non è certo una creazione di Renzi o Giannini, ma va attribuito a vent’anni di politiche poco lungimiranti. Con queste assunzioni, però, non si esaurisce il precariato: resta un numero imprecisato di docenti precari, si dice altri 60/80.000, che non entreranno in ruolo e dovranno formarsi da capo perché, dopo il concorso dei 60.000, le procedure di reclutamento cambieranno (ripristinando, tra qualche anno, i regolari concorsi). Insomma, il rischio di nuovi “esodati” è concreto. Ed è vero che la scuola non è un ammortizzatore sociale; ma queste persone finora hanno insegnato perché lo Stato glielo ha permesso, e ora lo stesso Stato non può fingere che non esistano. Con i 160.000 nuovi assunti, comunque, le scuole dovrebbero avere finalmente a disposizione il cosiddetto “organico dell’autonomia”: docenti che seguano le attività proposte oltre l’orario curricolare, per attività di potenziamento o recupero, lotta alla dispersione, alternanza scuola/lavoro, corsi di lingua, ecc. Il condizionale in questa fase è d’obbligo, perché non è facile capire dove saranno destinati i neoassunti, e c’è il timore che l’organico dell’autonomia possa servire soprattutto per coprire le supplenze brevi, che d’ora in poi le scuole affronteranno autonomamente. Per questo, avremo un quadro più preciso nel corso del prossimo anno. Poi: c’è un ampliamento dei poteri gestionali del Dirigente Scolastico (d’ora in poi DS), che potrà fare sostanzialmente tre cose: chiamare nominativamente alcuni docenti nella sua scuola; retribuire i migliori, secondo i criteri stabiliti da un “Comitato di valutazione”; e proporre le linee guida del POF (che diventa triennale, e non più annuale). La chiamata nominativa ha fatto discutere: in realtà il DS sceglierà i docenti da albi territoriali, ma essi saranno assunti dallo Stato: dunque il DS potrà chiamare in servizio un docente, e allontanarlo dopo tre anni; ma non avrà il potere di assumere/licenziare. Qual è il rischio? Che i docenti migliori si concentrino nelle scuole migliori, lasciando sguarnite quelle in contesti più difficili. C’è anche un investimento importante nella formazione dei docenti: 420 milioni di €, ripartiti in modo che lascia dubbiosi: 40 milioni per la formazione strutturale, e 380 tramite una “Carta del docente” che consentirà a ogni insegnante 500€ di consumi culturali all’anno (per esempio per una rata di un corso di perfezionamento, o l’acquisto di libri; ma anche per l’ingresso al cinema). Ci sono, infine, l’avvio del Piano Nazionale Scuola Digitale; un investimento di 126 milioni di € sul Funzionamento ordinario delle scuole (le famose “fotocopie e carta igienica”; 15.000€ a istituto, ancora non abbastanza – secondo le stime – a rendere inutili i “contributi volontari” delle famiglie) e un’innovazione importante sull’alternanza scuola/lavoro. Sull’alternanza infatti si investono 100 milioni di € e sarà obbligatoria anche per i licei (200 ore in tre anni, 400 in tecnici e professionali): un primo passo per riequilibrare il rapporto tra “sapere” e “saper fare”. Insomma l’inversione di tendenza c’è, e alcune misure positive non mancano. La sensazione, però, è che si siano voluti affermare buoni principi ma introdotti mediante pratiche inadatte al mondo della scuola. Per esempio, il premio di merito: come detto sarà attribuito in modo discrezionale dal DS ai docenti che rientrino nei criteri stabiliti in modo originale per ogni scuola dal Comitato di valutazione, composto da docenti, genitori, un membro esterno e, per le superiori, da uno studente. Non sarebbe stato più logico e più sicuro stabilire dei criteri nazionali, proposti da persone qualificate, basati per esempio sulle ore di formazione dei docenti, sulle attività extra curricolari che s’impegnano a tenere, e magari pure sui risultati di miglioramento delle proprie classi? Invece si è scelto di proseguire per la strada di facile impatto mediatico (“Per la prima volta valutiamo i docenti!”); ma, nella vita ordinaria delle scuole – che è un po’ più complessa – ciò rischia di tradursi in processi difficilmente gestibili.

 

4. Molta polemica è stata suscitata dal presunto articolo che introdurrebbe l’insegnamento dell’ideologia gender all’interno delle scuole. Che idea ti sei fatto su questo punto?

Ho abusato della pazienza dei lettori, per cui per queste ultime due risposte proverò a essere più sintetico. Parliamo del comma 16, che dice: «Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle  scuole  di  ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la  prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni». È una delle tante generiche formulazioni di buone intenzioni, che andranno attuate concretamente. Sarà il grimaldello per l’insegnamento dell’ideologia gender? Credo che il tema vada affrontato con serietà e pacatezza, rifuggendo dal giocare a chi urla più forte. Provando a scendere in profondità, direi che ci sono due piani distinti. In primo luogo, l’ideologia gender nelle scuole è sostenuta da azioni di lobby poco chiare, come quelle che portarono all’approvazione dei tanto discussi opuscoli dell’UNAR, poi giustamente ritirati. Sono processi che vanno monitorati, in dialogo con le famiglie e gli studenti, ma senza creare allarmismi.

Il secondo piano, invece, da tenere ben distinto, riguarda il tema complesso dell’educazione all’affettività nelle scuole. Stiamo parlando di argomenti delicatissimi, centrali nell’educazione di ragazze e ragazzi, che possono essere affrontati in vari modi. Per esempio, la Regione Emilia Romagna ha scelto di diffondere nelle scuole medie questi opuscoletti, nei percorsi di educazione all’affettività:

 



Vogliamo davvero che un tema tanto prezioso sia ridotto alla descrizione della sessualità come un supermarket, dove basta prendere la pillola giusta per evitare l’errore di un bambino concepito per caso? È su questi temi che la comunità cristiana ha uno spazio ampio, amplissimo per esprimersi, per affermare percorsi centrati sulla dignità della persona, cercando ponti con la cultura laica che sa riconoscere questo valore fondamentale. Però, non possiamo permetterci di fare gli struzzi. Parto da un dato: 32%. Sono, secondo i dati ISTAT 2014, le famiglie “tradizionali” presenti nel nostro Paese. Gli altri nuclei familiari sono monogenitoriali, o costituiti da coppie in seconda unione, o altro. Insomma, non possiamo più nasconderci che molti bambini, forse la maggioranza, crescono in contesti instabili. Per loro, la scuola deve farsi carico di offrire non più solo le competenze, ma sempre più spesso anche i contenuti educativi che un tempo erano garantiti con regolarità dalle famiglie. Porsi su questi temi con un rifiuto pregiudiziale (del tipo “No all’educazione all’affettività, perché introduce surrettiziamente la teoria del gender”) mi sembra lontano dagli effettivi bisogni dei ragazzi.

 

5. Cosa sognate tu e gli studenti del MSAC per la scuola di domani? Su quali principi dovrebbe fondarsi davvero una “buona scuola” e cosa manca – in concreto – per arrivare alla realizzazione di questi principi?

Provo a dirlo in due concetti: eguaglianza e partecipazione. Eguaglianza: servono misure per equilibrare le disparità tra Nord e Sud, ma pure tra città e periferie (basta guardare agli ultimi dati INVALSI). Per esempio, si potrebbe cominciare con una legge quadro nazionale sul diritto allo studio, che le associazioni studentesche richiedono da tempo, e che stabilisca i criteri minimi di assistenza per le famiglie indigenti di tutta Italia. E poi partecipazione: siamo nell’età della crisi della partecipazione, dove siamo sempre più isolati e, spesso, più rabbiosi l’uno con l’altro. Sui social network si può dire tutto e il contrario di tutto, con toni spesso violenti, trincerandosi dietro la regola del “questo è il mio pensiero, se non sei d’accordo tieniti pure il tuo”. La scuola è l’ultimo presidio di socialità, quel contesto da cui passano tutti, in cui ancora sei costretto a stare fisicamente con le persone che hai intorno. Bisogna potenziare gli spazi di apprendimento cooperativo, ma anche semplicemente di condivisione e di attività in gruppo. E bisogna scommettere sull’insegnamento dei principi di cittadinanza attiva: contenuti formali, pochi, per dare le linee guida utili a vivere nel contesto istituzionale italiano, europeo e globalizzato; e tanti luoghi di partecipazione attiva, come gli organi collegiali da ripensare, per dare a ogni ragazza e ragazzo la consapevolezza di quanto sia importante il metodo democratico, la responsabilità dei singoli, l’unione di intenti tramite il dialogo che diventa azione comune. Nella “buona scuola”, queste riflessioni “lunghe” sono mancate. Ma si è messo in gioco un patrimonio di riflessioni che, al di là delle traduzioni legislative del momento, non può andare sprecato.

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