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Lo sguardo del medico sulla vita


di Giuseppe Viola

In quanto medico neuropsichiatra vorrei offrire una chiave di lettura probabilmente meno formale rispetto a quella dei riferimenti normativi o magisteriali, ma più empirica. Spesso, infatti, sulla carta l’esperienza della sofferenza e della morte tende ad essere parziale e superficiale, senza tener sufficientemente in considerazione le conoscenze mediche.
Ho vissuto circa due anni in un reparto pediatrico in cui si praticavano anche cure compassionevoli in pazienti che terminavano la loro breve esistenza terrena. Veder soffrire un bambino giorno dopo giorno – per mesi, a volte – mi ha insegnato che la vita non è data da un cuore che batte, dalle escursioni di volume di due polmoni o da una attività cerebrale lenta se pur presente. La vita è la possibilità di entrare in relazione con se stessi e con gli altri, di poter godere del calore del sole e della sensazione fresca del vento, di poter comunicare i propri stati d’animo, le proprie emozioni e sentimenti. Se ciò viene a mancare e si aggiungono atroci sofferenze fisiche, non posso stare lì impotente, ma neppure intervenire in maniera invasiva: piuttosto, il mio compito è quello di valutare se non ci sia un accanimento terapeutico in atto a cui spesso gli stessi familiari ci spingono.
Una persona in uno stato di coscienza dubbio, non rispondente agli stimoli ambientali né dolorosi e la cui unica manifestazione di “vita” sarebbe un respiro affannoso e un cuore che batte troppo veloce o troppo lento non credo, in scienza e coscienza, che si possa definire in vita. Stabilita l’irreversibilità di un quadro clinico è dovere di qualunque medico non “accanirsi terapeuticamente” – conformemente sia al codice di deontologia, sia al Catechismo della Chiesa Cattolica – e lasciare che non venga alterato il decorso naturale per mantenere integra la dignità della persona, oltre che il suo diritto di autodeterminazione. Il labile confine tra cure e accanimento terapeutico è sicuramente legato alla scienza e coscienza del medico a cui ci si affida per le cure.
In alcuni casi, alla fine della corsa della vita, penso sia giustificato il desiderio di interrompere la sofferenza giornaliera, continua, che si ripete ad ogni istante rendendolo identico al precedente; non può essere il paziente stesso oggetto di biasimo per un tale “desiderio di morte”. Nei miei ultimi giorni, non vorrei che mi venisse infilato ripetutamente in ogni vena del mio corpo un ago da pochi gauge per essere idratato o nutrito o, ancor peggio, che mi venisse posizionato un accesso venoso centrale per infondere i liquidi “vitali” direttamente nella vena giugulare interna, esattamente come non vorrei un sondino buttato giù dal naso fino allo stomaco o una tracheotomia.
Non vorrei quindi sancito per legge il dovere di idratare e nutrire artificialmente chiunque, sempre e comunque: sarebbe la negazione della naturalità. Un sondino nasogastrico fa male, provoca lesioni e ulcere lungo il suo decorso e le agocannule nelle vene le fanno rompere a lungo andare, creano stravasi di liquidi quando vanno fuori vena. Filtrate dagli occhi di un medico, tali manovre sono un po’ come nel giardino della sofferenza dello Zibaldone di Leopardi: «Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali».
Vorrei poter esprimere la mia dichiarazione di volontà anticipata affermando che qualora le mie condizioni fossero ritenute dai clinici come irreversibili, cioè senza alcuna possibilità di ritorno ad una vita “non artificiale”, non vorrei alcun tipo di intervento se non una adeguata sedazione farmacologica che mi accompagni alla morte.
Di certo i non addetti ai lavori prima della fase di stesura del cosiddetto “testamento biologico” necessitano dell’ausilio di un medico di fiducia per un supporto informativo circa le manovre più o meno invasive a cui si può essere sottoposti e anche per definire quale sia lo stato di irreversibilità in cui interrompere le manovre rianimatorie, lasciando comunque un margine di azione ampio ai medici che dovrebbero valutare il quadro clinico. Forse introdurrei anche un termine temporale: ad esempio, se le mie condizioni cliniche rimanessero stabili per un mese, due mesi o un anno, vorrei l’astensione da ulteriori pratiche invasive e/o rianimatorie. Non so ancora esprimermi sul criterio temporale, perché dovrei riflettervi più esaustivamente. Ad oggi, nelle proposte di legge in discussione, sono affrontati tutti gli aspetti formali, però non ci sono chiari riferimenti al contenuto (cosa fare e cosa non fare e in quali casi) che dovrebbe essere espresso in tale documento.
Insomma, sposo la bioetica laica contemporanea che non considera, sul piano puramente razionale, “un dovere incondizionato di continuare a vivere” e che ritiene non si possa invocare il concetto di “interesse alla vita” ove sussista una situazione di “insostenibile sofferenza” tale da rendere la vita disumana. Al contempo, la redazione di un testamento biologico non può essere considerata una sorta di suicidio o un atto di superbia nei confronti di Colui che ci ha donato la vita; essa rientra nel margine di autodeterminazione che discende dal libero arbitrio.
Non mi riconosco appieno nell’enciclica Evangelium Vitae di San Giovanni Paolo II, perché la dichiarazione di volontà anticipata non può essere definita una fuga dalla sofferenza vissuta come «uno scacco insopportabile» in una cultura volta all’edonismo. Nella mia prospettiva empirica non riesco a considerare la sofferenza di un bambino, di un giovane o di un anziano come un “castigo purificatore”; sarebbe come ammettere una posizione sadica di Dio nei confronti dell’uomo. Le posizioni del Catechismo mi suonano troppo generali e poco aperte al discernimento personale di ciascun caso, come invece il Magistero più recente sottolinea. Al contrario, posso dirmi maggiormente vicino a quanto espresso nel 2013 dalla Conferenza episcopale tedesca circa la possibilità di ricorrere, in alcune circostanze, ad una eutanasia passiva o indiretta, ammesse solo parzialmente dal Catechismo come mancato accanimento terapeutico.

La lettura prosegue con gli altri articoli su questo tema, nella rivista Nipoti di Maritain n.2.

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