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Solo la pace è giusta

Il tema della guerra giusta attraversa i secoli della cristianità. Emerso dalle riflessioni di Agostino nel V secolo, giunge ai nostri tempi difficili; la teologia ne ha sviluppato numerosi nodi, ma oggi urge ribadire la centralità del Vangelo del Cristo, esortando persone, politica e popoli a vedere con occhi nuovi l’impianto dei rapporti internazionali.

La legittimazione morale della guerra rimane un’esigenza sentita con forza dalla politica e dai governi; tale legittimazione viene spesso ricercata nella religione, alla quale il potere temporale chiede una benedizione più o meno formale, comunque capace di lavare le coscienze. La Chiesa non può più offrire sponde a queste richieste. La guerra giusta stride con la comprensione che abbiamo oggi della Rivelazione: il Vangelo si centra sull’amore fraterno, un amore che è modello sia per i rapporti tra le persone, sia per quelli tra i popoli. L’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris, rivolta a tutti gli uomini di buona volontà, può essere una guida interessante anche a quasi sessant’anni dalla sua stesura: se la configurazione internazionale è profondamente mutata, i principi a cui chiama l’impegno di tutti gli abitanti del pianeta rimangono validi.

Pacem in terris propone strumenti pratici per plasmare tempi di pace sul globo, sottolineando il ruolo degli organismi internazionali: «Tutti gli esseri umani e tutti i corpi intermedi sono tenuti a portare il loro specifico contributo all’attuazione del bene comune» (§32). Secondo Giovanni XXIII, è in questi organismi che può risiedere il dialogo sovranazionale capace di mediare le tensioni prima che sfocino in conflitti armati, a garanzia di un ordine che prende forza dal diritto naturale e, quindi, dal diritto divino. Tuttavia nei primi decenni di questo secolo la politica estera delle principali potenze occidentali, Stati Uniti e Russia, ha incrinato il ruolo dell’ONU, fino a renderlo quasi del tutto superfluo; potremmo ammettere che ha reso palesi i limiti preesistenti e che l’ONU si è rivelato un fallimento globale. Queste ammissioni non scalfiscono il mandato alla ricerca della concordia tra i popoli chiesto a gran voce da san Giovanni XXIII; semmai rendono urgente rinunciare agli strumenti rivelatisi fallimentari e trovarne di nuovi.

Il ruolo della diplomazia nel creare percorsi di pace alla luce del Vangelo è stato confermato durante il pontificato di Francesco dal costante ricorso al dialogo internazionale e dal ruolo mediatorio che la Segreteria di Stato ha avuto in numerose occasioni. La vicenda delle relazioni cubane, nuovamente peggiorate sotto l’amministrazione Trump, evidenzia il peso della costanza nel dialogo e dell’affidabilità delle parti in causa, inclusi i mediatori; la Santa Sede, allora, può dire di aver operato in coerenza con il messaggio annunciato dal Vangelo. L’orientamento di queste esperienze diplomatiche non è stato tanto l’ottenimento di una concordia teorica tra governanti, ma ha guardato ai popoli coinvolti e al bene delle persone. È un insegnamento importante per il futuro: gli Stati e gli organismi sovranazionali non possono esistere se non in funzione di un bene concreto dei popoli cui appartengono. Ciò sia lezione anche per l’Unione Europea: il suo funzionamento non può legarsi alle regole dei mercati, alla finanza o a diritti generici e disincarnati. I limiti in cui sta incorrendo l’esperienza europea sorgono proprio da questo fronte: la sua capacità di garantire pace è stata limitata da una parte agli aderenti, dall’altra al mantenimento di un sistema economico-finanziario foriero di disuguaglianze, disuguaglianze che ora mettono a rischio la pace come dato acquisito.

Per questo vorrei affermare con il Catechismo che «la pace non è la semplice assenza della guerra» (CCC 2304). Siamo chiamati a uno status ben più alto della mera assenza di conflitti: Gesù è giunto a noi per annunciare il Regno, che già è qui. Abbiamo ricevuto la vocazione a renderlo più palese possibile anche nelle istituzioni umane. La chiamata alla pace del Regno è quindi una chiamata alla pace sociale. È opportuno allora ricordare che proprio Pacem in terris dedica molti dei suoi paragrafi alle difficoltà sociali: nel pensare alla società «va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona» (§5). Se è vero che «quello comune è un bene a cui hanno diritto di partecipare tutti i membri di una comunità politica» (§34) e che «il bene comune ha attinenza a tutto l’uomo: tanto ai bisogni del suo corpo che alle esigenze del suo spirito» (§35), non si può che concludere, come fa Giovanni XXIII, che «è perciò indispensabile che i poteri pubblici si adoperino perché allo sviluppo economico si adegui il progresso sociale; e quindi perché siano sviluppati [...] i servizi essenziali» (§39). Ritroviamo la medesima preoccupazione nel magistero di Francesco: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri» (Laudato si’, §158). Il Magistero sembra così trattare di giustizia sociale nell’interessarsi alla pace e lega inestricabilmente le questioni del rispetto dell’uomo e della donna e della povertà alla concordia universale.

Ci possono essere guerre inevitabili, in talune condizioni, certo: saremo chiamati ad affrontarle e a passarvi attraverso in cerca della pace. Ma il cristiano non può confondere l’inevitabile con il giusto. È chiamato a lottare perché quell’inevitabile si restringa sempre più, diventi quasi irrisorio. Scompaia. E mai sia considerato giusto. Insieme a Francesco, allora, noi cristiani siamo chiamati a dire ad alta voce e testimoniare che «la sola cosa giusta è la pace».

Andrea Bosio su Nipoti di Maritain n.8 (novembre 2019), pp. 21-23.

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