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Le istanze umane assolutizzate chiamano “giusta” ogni guerra

 


La guerra giusta ha una sua struttura distonica da un punto di vista psicologico. Per fare una guerra c’è bisogno di un motivo. Un motivo che spinga gli uomini ad affrontarsi fino al sacrificio della propria vita. 

Il motivo è universale, inderogabile, semplice e diretto: L’individuo si deve sacrificare per il bene della patria, della sicurezza spirituale, della superiorità della razza, della superiorità del proprio nucleo sociale, per la ricchezza economica del regno, per la gloria del proprio drappo che mai deve cedere sul campo di battaglia. Il drappo, un pezzo di stoffa a cui una collettività ha affidato il proprio destino. Se si è pronti a cedere per un pezzo di stoffa allora la guerra può essere giusta e fruttifera per assurdo.

La bandiera quindi richiede un minimo spargimento di sangue perché la patria si possa sedere al tavolo dei Giusti insieme alla Vittoria. Il senso reale sfugge perché potrebbe essere una logica con connotazioni deliranti. Eppure la Vittoria è citata anche nell’inno d’Italia che recita a gran voce come Ella abbia deposto la chioma (il gesto del vinto in un paradosso pari ad un poema epico) perché Dio la creò schiava di Roma. 

Questo ha senso solo per gli esseri umani in una dimensione collettiva perché in un ottica individuale è delirante. Infatti da psicologo direi che da un punto di vista del benessere della persona, c’è tutta l’epica spersonalizzante tipica del disagio psichiatrico, della scissione dell’Io e di quelle proiezioni personali di stati meccanismi di difesa. 

L’essere umano si sacrifica per la Vittoria, che è frutto della volontà di Dio. Quale Dio? Non certo quello del Nuovo Testamento che certamente è un Dio d’Amore (accezione creativa e non distruttiva anche nel recupero della presenza immanente nella trascendenza), a carattere universale, scevro da condizioni preconcette tipicamente umane. 

Quello che benedice una guerra deve essere un mai sopito Marte che richiede un tributo di sofferenza trasformando per l’ennesima volta l’uomo in eroe attraverso la mortificazione della carne: la morte dell’individuo nel collettivo, il massimo dell’annientamento personale. 

Come James Hillman avvertiva, alcune parole hanno significati potenti, trascendenti e spesso mortiferi. La “Libertà”, la “Giustizia” sono legate a concetti assoluti e nella loro potenza sono assoluti stessi. In un ottica archetipica infatti esse diventano trasformazioni della forma primaria, assoluta fino a diventare Dee antiche che hanno bisogno di sangue e dolore perché assurgano al valore di potenza assoluta. 

La massima incarnazione della guerra, per assurdo, è la Pace. «Si vis Pacem para Bellum»: la frase non è attribuita a nessun commentatore in particolare, ma la letteratura latina è stracolma di questa massima, in cui l’Officio è sacrificio perché è l’interesse comune che lo motiva e come ebbe a dire lo stesso Cicerone, stimola la fraternità tra eguali, nella particolarissima accezione di Humanitas della sua speculazione deduttiva.

Sallustio, nella sua riflessione, parlava di «Metus Hostilis» ovvero Paura del Nemico. La Paura fa parte dell’animo dell’antico romano fin dai tempi della sconfitta subita presso il fiume Allia intorno all’anno 390 a.C. e la seguente conquista di Roma da parte dei Galli Senoni guidati da Brenno. Le dure condizioni subite, mascherate dalle epiche sortite delle oche del Campidoglio, fa si che il diffuso senso di Paura (Metus) pervadesse il popolo degli antichi romani nel loro impeto di conquista del vicino. 

Le porte del Tempio di Giove Capitolino sarebbero rimaste aperte non per vanto di Nazione, ma perché la paura di una conquista motivava la conquista stessa. Per chi si era definito Figlio di Marte, la cosa aveva una logica precisa, ma ad un livello più intimo la necessaria motivazione legata alla pace interiore arrivava attraverso la guerra. Una guerra assolutamente giusta quindi. Almeno fino a Teutoburgo.

Quindi, se vuoi la pace, prepara la guerra. Ma con paura. Le dee sanguinarie chiedono riscatto.

Ciò che appare essere una fenomenologia pratica di un gruppo sociale in realtà è l’espressione intima di qualcosa che afferisce ad una sfera più profonda che sfugge spesso al controllo e che si ripropone attraverso vari comportamenti individuali e collettivi dimostrando di crescere su un sostrato comune che si ripete in ogni cultura.

Da questo punto di vista la cultura occidentale è pervasa da immagini e produzioni che mostrano impellente necessità di dare forma ad una realtà inesprimibile e tanatologica, volta all’autodistruzione, come se le regole del caos determinassero una lenta e progressiva decadenza che viene motivata come crescita e progresso attraverso la distruzione dell’altro. La paura si veste di Pace e Vittoria, Giustizia e Libertà, appellandosi “necessaria”. Per cui «Carthago delenda est».

La guerra giusta, figlia e genitrice del sacrificio, della morte, della libertà, della giustizia e paradossalmente della pace è una delle espressioni che dimostrano l’esistenza di istanze potenti e recessive, i titani che sembrano dormire nel ventre della terra ma che si dimostrano assolutamente incontrollabili quando, cambiando forme e colori, vengono issate sotto forma di bandiera o di orgoglio del popolo o di superiorità della razza, permettendo ad azioni nefande di potersi propagare. 

La forma dell’omicidio, della soppressione dell’altro per atto violento e vessatorio che è condannato nella cultura umana con pene severe, viene giustificato alla luce del compimento della Volontà divina, in guerra in un ribaltamento del concetto stesso di diritto alla vita, attraverso la luce di un “cencio”, un simbolo vagamente condiviso che assurge a Dio. 

Per tali motivi la guerra del Kuwait del 1991 è la guerra giusta in un secolo di guerre necessarie e la guerra di Somalia, di qualche anno dopo, diventa “restauratrice di Speranza”, altra dea di antica memoria che nella sua forma immateriale ed assoluta diventa il fondo del vaso scoperchiato da Pandora in tutta la sua duplice verità, ovvero quella di speranza che qualcosa possa accadere, ma anche vago vessillo di qualcosa che non avverrà mai, rimanendo falso idolo di un desiderio frustrato.  

In conclusione, può esistere una guerra giusta? Da un punto di vista psicologico può esistere solo una guerra umana, puramente umana, così fortemente umana che per combatterla abbiamo bisogno di molti Dei ingiusti.

Immacolata Giuliani e Fabrizio Mignacca su Nipoti di Maritain n.8 (novembre 2019), pp. 15-17.

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