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Spunti per un dialogo con la teologia queer

Questo articolo nasce per rispondere ad uno stimolo proveniente dalla redazione di Nipoti di Maritain. Allorché ho letto che si cercavano contributi per il numero successivo della rivista, dedicata alle teologie queer, dovetti confessare a me stesso di non conoscere affatto questo filone della teologia contemporanea. Queer per me era solo un aggettivo sentito per la prima volta ai corsi di filosofia morale della mia università dove ero stato introdotto alla filosofia di Judith Butler in chiave critica da un docente di formazione tomista, il mio maestro Carmelo Vigna.
Questa filosofa era nota ai più come colei che voleva liquefare i generi sessuali nella specie umana, l’idea dunque di poter applicare l’aggettivo queer a Dio mi pareva inusuale e non del tutto perspicua. In che senso Dio poteva essere queer, ossia non un ente senza sesso come insegna la metafisica tomista, bensì di genere fluido? Decisi di colmare le mie lacune leggendo quello che, dopo alcune recensioni trovate su internet, appariva come il maggior contributo di questa corrente teologica disponibile in italiano, ossia Il Dio queer di Marcella Althaus-Reid, pubblicato dalla benemerita editrice Claudiana. Ero del tutto impreparato alla lettura di questo volume che trovai arduo e a tratti inintelligibile, e non m’era chiaro se ciò fosse unicamente un mio difetto o se piuttosto la scrittrice risulti poco comprensibile anche alla maggioranza dei teologi. Persino l’autrice della postfazione, Letizia Tomassone, dichiara infatti d’essersi trovata in difficoltà con la lettura d’un saggio così denso e ricco di riferimenti.
Il testo m’ha lasciato delle sensazioni contrastanti, e sebbene vi abbia trovato molti spunti di riflessione non posso nascondere le mie perplessità. Si ha l’impressione lungo tutto il volume che Dio sia solo un nome messo qua e là per parlare di tutt’altro, ossia delle teorie sociologiche dell’autrice. In tutto il libro le citazioni dei Vangeli si contano sulle dita due mani ed invece si parla continuamente del marchese de Sade, di Deleuze, di Klossowski, di Agamben, di Paulo Freire e di tutta un’altra serie di autori che, confesso, sentivo per la prima volta. Non mi sono ancora ripreso dalla spiacevole sensazione d’aver letto un testo di filosofia post-strutturalista anziché un testo sul Dio cristiano.
Fatta questa premessa è comunque indiscutibile che il modo in cui vengono trattati dai teologi queer alcuni temi tra i più noti del dibattito teologico contemporaneo sia una vera ventata di freschezza. L’autrice, racconta d’aver subito in prima persona l’esperienza dei regimi fascisti sudamericani, ed aver visto all’opera un’alleanza delle gerarchie ecclesiastiche con queste strutture di potere. Ciò di cui si rese conto è che tale alleanza trovava il massimo suggello e veniva veicolata tramite l’imposizione di una moralità misogina e patriarcale che, al pari del fascismo italiano, faceva del matrimonio l’unico modello di vita accettabile per una donna. L’Althaus-Reid in reazione a queste imposizioni è diventata una nemica sospettosa ed insofferente delle morali che tentano di controllare il corpo delle donne teorizzando di volta in volta quali sarebbero i comportamenti “indecenti” e dunque proibiti. Non è una novità dei regimi fascisti dell’America Latina che questo tipo di governi abbia sempre sposato una rigida visione familiare monogama, sponsale ed eterosessuale, che riduce la donna ad angelo del focolare ed è incapace di immaginare i corpi femminili come liberi di amare fuori dai modelli proposti dalla società.Per la teologia queer di matrice sudamericana dunque la ribellione sessuale, l’abbracciare pratiche che trasgrediscono i limiti dell’immaginario conservatore, è in se stesso un atto di ribellione politica. Avere un comportamento sessuale dissidente è infatti una sfida a quei regimi che di quest’oppressione della libertà sessuale hanno fatto uno dei propri tratti distintivi. Da qui il tentativo di trovare, nella Bibbia e nella storia della Chiesa, dei personaggi che, nella loro irrequietezza, continuassero ad oscillare dentro e fuori dai confini stabiliti dalle teologie maschiliste per i loro corpi. Che dire ad esempio di una Giovanna d’Arco, uccisa e giudicata relapsa dall’inquisizione perché trovata vestita da uomo nella sua cella, se non che questi guardiani della morale volevano controllare la pulzella di Lorena tracciando arbitrariamente dei confini per la “decenza” del corpo femminile?
Un esempio interessante di rilettura queer dei testi, che ho trovato veramente suggestivo ed esemplare del metodo di ribaltamento tipico di questi autori, è quello del modo in cui viene trattato l’episodio della distruzione di Sodoma. Mentre i teologi più progressisti tendono a voler liberare il brano da riferimenti all’omosessualità, dicendo che s’inganna chi vede nel fuoco celeste una punizione per gli atti omoaffettivi degli abitanti di Sodoma, l’autrice invece abbraccia in toto la lettura tradizionale per rovesciarla e fare di Jhwh l’imputato. Dio diventa una specie di perfido ufficiale della buoncostume, un Dio maschio monotono, perché capace di immaginare solo relazioni eterosessuali, che manda i suoi angeli a sterilizzare una città dedita invece all’amore libero. Com’è noto ai più una simile lettura oggi è considerata anacronistica, e gli esegeti sostengono che ciò che viene punito non è tanto la sessualità omoerotica dei sodomiti, ma il fatto che essa volesse esercitarci in un tentativo di stupro a danno degli ospiti di Lot. Il peccato di Sodoma non sarebbe dunque la sodomia ma l’essere venuti meno ai doveri di accoglienza facendo violenza ai propri ospiti. La lettura della Althaus-Reid inaspettatamente è più tradizionale, perché al pari di un Pier Damiani vede trattato nell’episodio non il tema dell’ospitalità violata ma il peccato contro natura, e proprio alla luce di ciò prende le difese dei sodomiti e attacca Jhwh.
Per quanto mi concerne invece, leggendo questa ricostruzione della scrittrice paradossalmente ho avuta una conferma ulteriore che il brano di Sodoma non vada interpretato come una punizione per l’omosessualità degli abitanti bensì come un castigo per il tentativo di stupro degli ospiti di Lot. Qualora infatti avesse ragione la teologa, e si trattasse veramente di un omicidio di massa perpetrato per punire una condotta sessuale, bisognerebbe davvero prendere le parti dei sodomiti contro questo Dio carnefice per motivi di buoncostume.
Se come cattolici possiamo anche non trovare sensato il matrimonio religioso tra persone dello stesso sesso, tuttavia il magistero cattolico condanna la violenza contro le persone gay. Ciò ci costringe a dichiarare ipso facto che se la punizione dei sodomiti fosse davvero dovuta al loro libertinaggio sessuale, allora Dio sarebbe da condannare alla luce dell’attuale Catechismo, che rigetta ogni azione violenta verso le minoranze sessuali. La moglie di Lot, che osa guardarsi indietro, rifiutandosi di distogliere lo sguardo dalla propria vita precedente, e perciò viene trasformata in statua di sale, viene paragonata dall’autrice alle madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires. Queste mamme dopo la scomparsa dei loro figli uccisi dal regime perché dissidenti politici non si sono voltate per fuggire dal massacro, hanno osato guardare in faccia il carnefice per chiedere spiegazioni, e per questo, come la moglie di Lot, sono state a loro volta punite. Il regime non tollerava il coraggio del loro sguardo accusatore, che osava sindacare e denunciare il suo operato.
Il libro mi ha anche dato modo di pensare a quanto la teologia, attraverso il controllo dei corpi, si sia rivelata uno strumento di potere e dominio coloniale, ossia come la propagazione di alcuni modelli normativi in materia di genere e famiglia abbia avuto delle ricadute politiche e trasmetta una gerarchia sociale. A cosa si deve infatti il fastidio o addirittura il terrore dinnanzi ad un maschio che cerchi di uscire dai comportamenti, dalle pratiche, o dai vestiti che una determinata cultura prescrive al suo genere? Come mai ci sentiamo minacciati da un maschio che si presenti in chiesa o in una scuola vestito con una gonna? Ora, se c’è una cosa che l’antropologia e la filosofia sanno almeno dai tempi di Montaigne è che non esistono vestiti connaturati al maschile e al femminile, e che dunque ciò che una cultura attribuisce alle donne, un’altra può riferirlo agli uomini: basti pensare a quegli uomini in gonnella che sono gli scozzesi quando indossano il kilt. Perché allora un uomo che si mostri in gonna può irritare alcune persone e scatenare addirittura reazioni difensive di aggressione? Di solito reagiamo quando viene aggredito qualcosa che noi consideriamo importante per noi, ed è questo il caso. La nostra società ha modellato e costruito il nostro io all’interno di una logica binaria, dove noi siamo maschi in quanto siamo differenti dalle femmine: facciamo cose diverse e ci vestiamo diversamente. Motivo per cui vedere un uomo vestito da donna è un attacco alle fondamenta del nostro stesso Io, perché ci mostra che l’edificio su cui abbiamo costruito la nostra identità di maschi è friabile, ed è possibile per un maschio essere anche altro, ossia confondersi con l’altro genere. Ma questa operazione di continua disgregazione della nostra identità, che ogni volta dovrebbe essere seguita da una ricostruzione, è estremamente dispendiosa e faticosa per la nostra psiche.
Tuttavia il pericolo per la nostra psiche individuale da solo non giustifica l’aggressione dei conservatori verso il deviante che si vesta da donna. Il punto è che, nelle società a derivazione patriarcale come la nostra,la differenza tra maschi e femmine è anche veicolo di una gerarchia, quella gerarchia che per secoli ha voluti gli individui maschi superiori in quanto maschi e le femmine inferiori in quanto femmine. Ma questa gerarchizzazione presuppone per funzionare che la società delimiti bene i due ambiti, perché se è il fatto che l’identità maschile sia diversa da quella femminile a giustificarne la superiorità, allora l’uomo che trasgredisca il confine e si comporti come una donna è avvertito come un pericolo. Egli infatti denuncia col proprio agire che, se gli uomini possono assumere il comportamento e gli attribuiti solitamente incarnati dalle donne, allora forse non c’è questa gran differenza tra maschi e femmine, e, se questa differenza non c’è, la gerarchia basata su questa diversità viene a cadere. Ecco perché l’uomo vestito da donna non solo mette in crisi il nostro Io che s’è costruito come Io maschile in quanto contrapposto al femminile, ma per di più mette in pericolo tutte le fondamenta della società patriarcale, basata sulla superiorità del pater familias, legittimato nel suo ruolo in quanto diverso dalle donne. Catone il censore non sarebbe mai stato pronto a recepire la possibilità che, se uomini e donne fossero abbastanza simili, allora anche una donna potrebbe svolgere i compiti direttivi da lui immaginati come solo maschili.
Una lunga tradizione che va da Platone a Proudhon identifica nel patriarcato familiare il nucleo originario da cui si sviluppa il potere monarchico, la simbologia del padre come capo e padrone\custode si riverbera infatti in tutti i livelli sociali.  Il re è concepito da tutta la tradizione come “il padre” dei suoi sudditi, e Dio stesso è pensato come Padre e maschio. Il modo di esercitare il proprio potere verso noi suoi figli terreni è modellato su quello dei padri di famiglia umani, ossia amorevole ma al contempo non riluttante ad usare la verga, per raddrizzarci se non ci adeguiamo ai suoi progetti.
Se dunque la simbologia patriarcale della differenza dei maschi rispetto alle donne fonda la regalità umana e divina, allora mostrare con degli atti di comportamento transgender che non v’è differenza tra maschi e femmine scardina tutte le gerarchie sociali del potere maschile. Se il maschio non è differente dalla femmina, non c’è ragione che giustifichi né il pater familias, né il re, né il Dio che se deve comandare sarà maschio. Per questo un uomo in gonna disturba: quel traditore del proprio sesso non solo mette in dubbio la nostra idea che i maschi, e dunque noi, dobbiamo agire in una determinata maniera, ma mette pure in pericolo tutta la struttura sociale che sulla simbologia di questa separazione dei sessi s’è costruita. La norma che traccia un confine, in quanto norma, è cioè sempre un limite della libertà.
Quanto è meravigliosamente scandaloso dunque, sostengono i teologi queer, cercare di mettere in luce come nel nostro Dio e nella stessa storia della sua chiesa vi siano segnali di “debordamento” divino dai confini di genere, che emergono come iceberg dall’oceano, e richiedono la nostra attenzione. Che cosa significa ad esempio che il nostro Dio, come insegna l’inno kenotico di Filippesi 2, trasgredisce la separazione tra natura divina e umana svuotandosi della propria divinità? E che cosa può significare che questo Dio che si fa uomo resti celibe, rifiutandosi di iscrivere se stesso nel gioco della sessualità binaria umana, visto che nessun suo amore romantico per una donna c’è stato tramandato? Il cristianesimo sarebbe dunque una religione queer, nel senso che Dio stesso dà l’esempio supremo dell’attraversamento di ogni confine, abitando zone ambigue come quella di un uomo che è Dio, e di un maschio che però non costruisce la propria identità in quanto amante delle donne.
Noi cristiani meditando su queste ed altre ambiguità siamo invitati dai teologi queer a scoprire continuamente come i confini che pone la nostra mente non siano affatto solidi, e necessitino continuamente di essere attraversati, per ricostruire in uno sforzo perpetuo le nostre identità. Per essere liberi dobbiamo cioè impegnarci a sbriciolare e poi ricostruire ogni giorno le definizioni che mettiamo a fondamento della nostra persona. Questa ridefinizione di noi stessi passa attraverso pratiche di dissidenza e attraversamento dei generi più o meno spinte, che vanno dalle prime donne che osarono mettere i pantaloni fino alle pratiche di travestitismo più audaci e finanche all’adozione di comportanti poliamorosi, che cercano un senso della vita fuori dagli schemi egemonici imposti dalla società con le sue regole.
Per non essere frainteso vorrei puntualizzare che per accettare questa lezione della teologia queer non occorre sposare il punto di vista butleriano sulla liquefazione del genere, noto a livello popolare come “ideologia gender”. Questa tesi infatti, fatta propria dalla filosofa americana in almeno alcune parti della propria vita, vorrebbe che la biologia fosse irrilevante nella costituzione del carattere,e non vi fossero differenze di alcun tipo tra maschi e femmine. Ma non occorre abbracciare una tesi tanto estrema per capire che è stato un gran bene in passato, e sarà ancora un bene in futuro, la pratica di debordare ogni tanto da un genere all’altro. Infatti anche ammettendo, come ritengo ovvio, che ci sia una differenza caratteriale anche di matrice biologica tra maschi e femmine, è sufficiente riconoscere che essa è fondata solo a livello di media statistica. Se cioè in media i maschi sono più bravi delle femmine in matematica, e le donne più brave dei maschi in italiano, ciò non toglie che possano esistere ed esistano molte femmine più brave in matematica della media dei maschi. Nessuno dunque può scandalizzarsi o farsi turbare da una donna che si iscriva ad ingegneria. E similmente dire che ci sono delle differenze tra maschi e femmine che possono avere una base biologicanon impedisce di pensare che comunque molta parte dei “ruoli” attribuiti dalla società ai due generi sia invece di derivazione culturale. In particolare i vestiti “da maschio” e “da femmina” sono tra gli aspetti dei ruoli di genere frutto di una convenzione e che dunque non hanno alcun fondamento nella natura: per un indiano sioux i capelli lunghi sono un segno di virilità, e non di effeminatezza. Dunque l’invito è a non sentirci minacciati da chi voglia abitare lo spazio di una prolifica ambiguità, rifiutando di iscriversi all’interno di un’identità imposta dall’alto, al fine di mostrare che la nostra libertà è grande e che la vita può reinventarsi continuamente oltre i confini stabiliti da chi non ha una tempra sufficiente per sopportare un mondo magmatico e instabile. Non dobbiamo quindi essere terrorizzati, ma positivamente turbati ed interpellati a pensare, dalle vite queer di coloro che imitano il queering del Dio cristiano. Nessun Dio infatti ha scandalizzato i benpensanti che vivono di definizioni rigide come Gesù seppe fare coi farisei che lo ascoltavano, turbando e scompaginando le loro categorie. Cristo è l’incarnazione dell’ambiguità che siede sui confini e li supera. Egli è il Dio che è insieme uomo, il maschio che è tale senza avere una donna, e che dunque non costruisce la propria identità maschile come quella di quel genere che è tale perché ama le donne. Egli è santo, ma si circonda di prostitute e peccatori, è giudeo ma frequenta centurioni romani e samaritani, trasgredendo cioè continuamente confini identitari volti ad escludere l’altro da sé. Ed è stato crocifisso da coloro che, furenti, ieri ed oggi, non sono abbastanza forti per reggere un mondo senza steccati. 

Federico Ferrari

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