Mi è stato chiesto di scrivere una riflessione sul prete,
sull’essere prete. Di cose se ne sono scritte tante e se ne scrivono tante, a
livello teologico o pastorale, quindi credo che mi fermerò semplicemente a
rileggere la mia vita alla luce di un aspetto che forse troppo poco spesso si
sottolinea, ovvero l’umanità del prete, l’essere uomo-prete. Credo che uno
degli errori grossi che è stato fatto nel tempo, sia quello di aver divinizzato
a tal punto la figura del prete, da aver completamente snaturato la sua umanità
o averla quasi completamente annullata. Così si è più attenti all’immagine da
dare che all’identità dell’essere. Da dove partire dunque con questo esame di
coscienza. Credo sia opportuna una premessa. C’è sempre molta curiosità intorno
all’umanità e all’affettività del sacerdote; una domanda spesso inespressa. La
gente, anche quella che al prete vuole bene, che lo stima, con cui collabora,
al quale affida i figli fantastica ... si interroga ... e spesso inventa! In
verità: che ne è dell’affettività del prete? Il prete che ha offerto, anzi
consegnato, la propria vita a Cristo “ama umanamente”? È capace di amare con
cuore di uomo? Mi viene quasi da sorridere poiché penso a quel grande
capolavoro del Concilio che è la Costituzione Pastorale Gaudium et spes, dove –
a proposito di Cristo – si legge:
“nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo” (22),
poiché “con l'Incarnazione, il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni
uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con
volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo” (ibid.). Allora anche il prete ama
con cuore d’uomo! Anzi sarebbe un problema se fosse il contrario!
Sono tante le forme d’amore e d’amare. C’è l’amore del figlio
per i genitori e quello dei genitori per i figli; c’è l’amore fra fidanzati;
l’amore dei coniugi; l’amore per gli amici; l’amore per Dio! E c’è l’amore di
colui che, accettando la legge ecclesiastica del celibato sacerdotale, ama, ama
tutti, ama davvero come, tra, per gli altri uomini. Con il celibato la Chiesa
addita ai preti una maniera “totale d’amore”. È il carisma dell'amore
perfetto, di un amore che è preveniente, gratuito e universale, ma che non può
scavalcare o addirittura cancellare una dimensione umana dell’amare; del resto
pensarlo sarebbe già disumano e impossibile da realizzarsi. L'amore esclusivo
per Cristo, non è escludente, ma dilata il mio cuore di prete così da renderlo
capace di un amore che non conosce confine. La mia famiglia è l'universo, ma la
mia capacità di amare deve essere donata e proposta ad ogni uomo, tutto l’uomo,
tutti gli uomini … non generalizzandola ma incarnandola, in quei rapporti
quotidiani che si vivono e che si tessono con pazienza e affetto, perché
diventano occasione di scoperta di quanto grande sia l’amore di Dio in noi.
“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”: ogni incontro, ogni persona che
incrocio e ho incrociato nella mia vita non è mai stata frutto del caso, c’era
e c’è un disegno, che posso scoprire solo nel tempo e che certamente mi aiuta a
crescere come uomo, come prete. Certo, i condizionamenti umani rimangono. Ed è
per questo che questa forma d’amore, d’amare deve essere vissuta con maturità e
accettazione piena, non con frustrazione o come peso: un prete incapace di
amare, non è un prete, ma non è nemmeno un uomo!
Io sono prima di tutto una persona umana; non
posso pensare di essere confuso semplicemente con un ruolo (e quanto fa male
sentirsi additato come: il prete … quasi che l’identità umana non conti affatto
e che semplicemente perché chiamato a svolgere un ruolo tu sia considerato
esente da qualsiasi logica umana o che appartiene all’esperienza di ogni
persona!). Io prima di tutto sono un uomo: chiamato ad esercitare un ministero,
a svolgere una missione: nobile, eccelsa, sublime, ma da uomo “scelto tra gli
uomini per occuparsi delle cose che riguardano Dio”. E mentre il
ruolo/servizio/ministero è nell’ordine dell’utilità, è per gli altri, è per
fare qualcosa ... la persona umana è nell’ordine della relazione: relazione di
vita, relazione d’amore. Mentre il ruolo differenza i diritti e i doveri di
ciascuno, la relazione integra l’azione delle persone. La relazione è un primo
contatto tra persone; è il momento in cui si incontrano uguaglianze e
differenze. E in tutto questo come prete devo essere me stesso, nella pienezza
della mia umanità, presentandomi per come sono e per come mi sento veramente,
compresi i miei limiti. Nel mio cammino tante volte ho incontrato persone che
“fanno” i preti, o peggio giocano “a fare” il prete: no, dobbiamo “essere
preti”, non chiamati a mettere le maschere della convenienza del momento o
giocando ai falsi santini … ma essere ciò che siamo con la nostra umanità
totale e totalizzante. Troppo spesso la nostra gente vede il prete come il
“celebrante della domenica”; no, il prete deve accoglierci, al contrario anche
nelle quotidiane relazioni, conoscendole nell’intimo, perché prima di tutto è
lui a viverle. Non devo parlare per frasi fatte, non devo insegnare se non a
farmi prossimo dell’altro, per condividerne il cammino e se si cade, lo si fa
assieme … ci si guarda negli occhi, ci si prende per mano e si ricomincia il
cammino. Del resto più grande di ogni limite e peccato umano è l’Amore di Dio,
ma lo capisco e lo vivo solo se ne faccio una viva esperienza io in prima
persona.
E qui si innesca la riflessione sulla affettività
dell’uomo/sacerdote. Ho personalmente sempre molto timore a trattare questo
tema, in quanto la cultura corrente e certe scuole di pensiero sorridono a
certe distinzioni che non vogliono né considerare né ammettere. Intendo operare
una netta distinzione tra affettività – sessualità – esercizio della sessualità.
Che cos’è la sessualità? La sessualità è
forza sempre dinamica soggiacente tutto l’Io, in virtù della quale la persona
umana è capace di relazioni interpersonali. La sessualità è, allora il luogo
della comunicazione piena, dell’accoglienza, della comunione, dell’amore, della
fecondità e della gioia. Pertanto l'affettività/sessualità non ha bisogno
necessariamente di esprimersi nell’esercizio della sessualità. Direbbe papa
Benedetto con il parole di Deus caritas est: “il rifiuto dell'eros non è il suo
«avvelenamento», ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza”. (5)
L’identità sessuale della persona umana rientra nel disegno di Dio. Si potrebbe
dire che è l’impronta che Dio ha lasciato nella creatura umana. Dio non è
solitudine, ma è “relazione”: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono
eternamente in una relazione di amore. In forza di questa impronta ogni persona
non può vivere e realizzarsi nella solitudine, ma solo nella relazione. Ne
deriva che la vocazione fondamentale della persona umana è l’amore. Ha scritto
Giovanni Paolo II in Redemptor hominis: “L’uomo non può vivere senza amore.
Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di
senso se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non
lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente” (10). Anche
quando l’uomo è chiamato a seguire una vocazione particolare nella verginità o
nel celibato, è comunque chiamato all’amore. E questa chiamata presuppone una
grande maturità affettiva e sessuale. Una maturità affettiva e sessuale che
consenta al prete di essere chiamato in spirito e verità “padre”. Ogni persona
umana, e quindi anche il sacerdote, è relazione e in relazione. Ogni persona
umana, e quindi anche il sacerdote, è mente e cuore. Anche il prete dall’essere
amato va verso l’amore, dall’essere oggetto di cura va verso l’aver cura per
ogni creatura incontrata. Può responsabilmente rinunciare a generare figli, ma
non ad essere ‘padre’ e tantomeno ad amare con un cuore umano. Scriveva
Benedetto XVI in Deus caritas est: “amore è «estasi», ma estasi non nel senso
di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente
dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio
così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio” (6). La
capacità di amare aiuterà il sacerdote a coinvolgersi nella vita della gente, a
partecipare delle loro gioie e speranze, in coerenza con la propria vocazione.
La risorsa affettiva non è quindi qualche cosa da eliminare, da mettere tra parentesi
o una tentazione ricorrente da cui fuggire, ma una dimensione propria della
persona umana che consente e facilita una dedizione appassionata, entusiastica
e amorevole a ogni persona e a tutte le persone, al servizio delle quali il
presbitero ha consacrato la vita. A questo punto sorge la domanda spontanea: ma
allora al prete è lecito amare/innamorarsi in quanto uomo? Sì, lo è, e se lo
vive in piena maturità questo lo porta a crescere in umanità, ad entrare nel
tessuto della vita quotidiana della gente, a parlare dei problemi ed a elargire
consigli non per sentito dire, ma per convinzione, esperienza fatta. A volte
davvero fa spavento il parere di uno o dell’altro che nascono semplicemente da
qualche articolo di rivista o peggio ancora da qualche manuale di teologia
sistematica. La gente ha bisogno del cuore del prete, non della sua
cattedratica sapienza; ha bisogno di un uomo che sappia donare un abbraccio e
un bacio nella purezza dell’amore vero e sincero, e non solo gesti di pura e
fredda formalità. Quando ero giovane prete, in forza di un’autoformazione
repressiva mi sono accorto di aver creato tante barriere di disumanità con la
gente … si accoglievo, ma ero “il prete” non l’uomo-prete, e le dinamiche che
si accendevano erano più per una mia autodifesa piuttosto che per un vero
pericolo minaccioso. Il nostro rettore di Seminario più volte ci diceva:
“dovete divenire prima di tutto uomini, poi preti”… solo ora mi accorgo quanto
invece sia prevalsa la mia autoformazione piuttosto che la mia umanizzazione.
Ho imparato ad amare? Ho imparato a dire ti amo? Ho imparato a usare il cuore?
Sì, l’ho fatto! E li sì, che ho capito di essere prete! Come Gesù che guardando
Filippo: “Fissatolo, lo amò”, ho cercato di costruire uno sguardo d’amore vero
nei confronti di chi avevo davanti e incontravo e ho incontrato nel mio
cammino. Ne è nata fragilità e fatica, ma molto più gioia e pienezza. In ogni
sguardo e in ogni sorriso ho cercato Lui; in ogni abbraccio e in ogni parola,
ho cercato Lui; e l’ho visto, l’ho incontrato, perché ogni volta se ne usciva
più pieni, più veri, più pieni. Solo dopo aver abbattuto le barriere del
giudizio e del pregiudizio ho compreso la libertà dell’amare e dell’essere
amato. E nulla è stato tolto al ministero, anzi, tutto è diventato più bello,
più dono, più grazia … e la paura di andare incontro all’altro è svanita perché
la vera gioia ora so che consiste nel lasciarsi accogliere e nell’accogliere
costruendo nella verità quell’Amore in cui siamo amati e completandoci in esso
non trattenendo più nulla per noi. Fa paura questo? Certo … la sfida dell’Amare
fa sempre paura! Sai dove potrebbe iniziare, non sai dove potrebbe arrivare …
del resto Gesù ci da il segno che l’amore più grande è dare la vita per i
propri amici. Qualcuno potrebbe chiedermi: “Don ti sei mai innamorato?”… quante
volte me lo hanno chiesto i miei giovani. Risposta: SI, e non me ne sono mai
pentito e non me ne pento, perché sono uomo, amato prima di tutto da Dio e
chiamato ad amare Dio negli uomini. Una cosa però è mutata nel tempo … la mia
capacità di discernimento. Crescendo ci si accorge di vagliare e ponderare
tante cose correndo il rischio di tornare al punto di partenza (autodifesa dal
un possibile pericolo)… ogni giorno prego per chi sono chiamato ad amare, per
chi amo … e in ogni mio “ti voglio bene” è nascosta questa mia potenza e
fragilità di cuore che mi porta ad essere cum-passionevole, ad avere passione
con e per, facendomi carico spesso troppo spesso anche di tanti pesi che poi
con fatica mi accorgo di portare. Anche in questo non manca l’aiuto del buon
Dio che mai permette di vedermi schiacciato sotto di essi, sempre nelle tenebre
mi dona uno spiraglio di luce. Dobbiamo allora scappare da chi ci dice: “Ti
amo”? Piuttosto scappiamo da chi non ce lo dice e non ce lo fa vedere …
altrimenti prima di tutto dovremmo scappare da Dio che ce lo dice e ce lo
rivela ogni giorno. Di una cosa forse devo chiedere perdono in questi anni: per
tutte le volte che non ho detto “ti amo” o che non ho voluto dirlo, mettendomi
sulla croce. A volte ci si prova, ma non si riesce … e questo macigno che si
porta dentro, diventa quella nube nera che ci fa chiudere in noi stessi e non
ci fa scorgere i segni d’amore vero che abbiamo accanto. Aiutami Signore a non
vergognarmi mai di amare, di dire ti amo,… di lasciarmi amare per ciò che sono.
Le riflessioni fin qui condotte riconducono a un
unico snodo che potremmo definire “l’umanità” della persona umana. Ho letto non
molto tempo fa un libro, il cui titolo ha attirato la mia attenzione: “Diventare
uomini di umanità”! L’aspetto umano della personalità ha sempre avuto un posto
di privilegio nella mia riflessione. E grande attenzione ho cercato di dedicare
alla mia umanità di prete. E ho esultato quando Giovanni Polo II in Pastores
dabo vobis ha riservato il primo posto alla formazione umana insieme a quella
teologica, spirituale e pastorale, anche se ancora non le si è data la vera
fisicità che deve avere. Purtroppo oggi, ha preso il sopravvento che la vera
formazione umana debba essere dettata e condizionata dalla psicologia. Pur
riconoscendone valida l’utilità, in quanto anche io sono nel campo di essa, non
possiamo elevarla a dogma assoluto: deve anche questa incarnarsi nella persona
e non diventare il contenitore in cui dobbiamo far entrare con violenza la
persona. Ho paura che anche negli anni futuri la Chiesa in campo di formazione
dei suoi candidati sbatterà nuovamente la testa: con le nuove metodologie non
si costruiscono infatti, a mio avviso, uomini-preti, ma pentole a pressione,
pronte ad esplodere nei campi delle esperienze umane di questo tempo e di
questo mondo che non si è capaci di gestire.
Non è facile né definire né descrivere l’umanità.
Essa è la qualità morale che rende l'uomo degno di esser chiamato tale.
L'umanità è la virtù dell'uomo in quanto tale, portatore di sensibilità e
razionalità. «Umanità» indica, altresì, una disposizione morale, una interiore
sensibilità rivolta a informare l'azione di alti valori e di larga
comprensione. Indica una virtù, la bontà, la larga benevola disponibilità verso
gli altri. Ne discende il concetto di humanitas che coincide con la vita
morale, quale vita secondo ragione e quindi in perfetta consonanza con le
strutture ontologiche dell'uomo e del mondo in cui l'uomo vive. L'umanità è la
virtù di tutti coloro per i quali ha senso parlare di virtù. Dopo questi
tentativi di descrizione piuttosto che di definizione del concetto di “umanità”
occorrerà riempirlo di contenuti. Che sono: le virtù umane dell'amore per la
verità, della libertà, dell'equilibrio, della socievolezza e del buon senso,
del superamento dell'isolamento e dell'individualismo, ecc.
La via maestra è quella della costruzione di una
persona/personalità integrale, libera, soggetto di e in relazione, esperta in
umanità. Non sempre si è guardato a una autentica e piena antropologia
cristiana; in alcune epoche essa è stata distorta, insistendo su una vera e
propria separazione fra materia e spirito, corpo e anima, nel rifiuto della
realtà materiale. Tutto ciò comportava una sorta di schizofrenia, causando una
personalità dicotomizzata nel singolo soggetto. Ecco allora soggetti che, pur
dotati di una solida spiritualità, autenticamente orientati su una via di vera
mistica e ascetica, trovano molta difficoltà a comunicare e relazionarsi con gli
altri. Una buona base umana fisica e psichica è imprescindibile per la crescita
dei valori cristiani: si è capaci di fidarsi degli altri nella misura in cui si
ha fiducia in se stessi; si considerano importanti gli altri quando si è
consapevoli della propria dignità; si apprezzano gli altri se si ha stima di se
stessi. La costruzione della persona e della personalità esige una un'unità in
cui la distinzione fra corpo e anima, fra materiale e spirituale, fra naturale
e soprannaturale non diventa separazione, bensì elemento costitutivo dell'unico
soggetto, che è la persona umana. È una questione di la consistenza fisica e
psichica: la chiamano così gli psicologi. È pur vero che la vita spirituale
tiene conto della grazia; ma non può essere mortificata la struttura
psicologica della persona: l’una porta a compimento e maturazione l’altra, in
una sinergia necessaria. La grazia risplende anche negli aspetti psicologici.
Quando la grazia trova canali aperti gli effetti sono visibili, di serenità, di
gioia, di sapienza, di fiducia, di speranza, di equilibrio, di affettività
matura, di capacità di amare, di far innamorare di Cristo attraverso la
compiutezza e la generosità.
Ogni tipo e ogni forma di dualismo, che potrebbe
dare come risultato una persona divisa, non appartiene all’antropologia
cristiana. A voler concretizzare un’ autentica integrazione umana favorisce:
• un'autentica immagine di sé,
accompagnata dalla capacità di riconoscere i propri punti di forza e di
debolezza (non la costruzione di una falsa immagine relegata all’interno di un
ruolo che si ricopre);
• stabilità emozionale: capacità di
comprendere e controllare i propri sentimenti e ad esprimerli nella verità e
con verità, senza timori o sensi di vergogna (cfr. San Paolo: “È quando sono
debole che allora sono forte”);
• autentica capacità di relazione che
consenta l’accettazione dell’altro per quello che l’altro è e non per quello
che io vorrei che fosse (evitando così ogni possibile strumentalizzazione
dell’altro per il raggiungimento e l’appagamento di una mia manchevole
formazione);
• maturità affettiva; la capacità di
darsi veramente e totalmente agli altri; una disciplina nei confronti della
propria sessualità, che presuppone la maturità e la capacità di andare oltre il
livello fisico, inclusa la conoscenza e la stima dell'altro (castità non è NON
esercizio della sessualità, ma imparare ad amare nella verità e con verità
l’altro, accogliendolo e non soggiogandolo o trasformandolo in mera
soddisfazione dell’istintualità fisica, pur rimanendo per noi sacerdoti il
punto fermo della legge canonica del celibato e quindi un impegno a vivere
comunque la continenza);
• una visione sicura e critica del mondo
e dell'umanità (che non demonizza, ma entra in dialogo con essa:
chiamati a trasformare dall’interno);
• una concezione unificante della vita,
che renda la persona in grado di vedere la finalità delle proprie attività, di
dare un ordine di priorità ai diversi valori e di mantenere rapporti sereni con
gli altri;
• la capacità di essere onesti con se
stessi.
Insomma: sacerdoti veri uomini per essere
autentici testimoni di Gesù Cristo, il Salvatore. In questo contesto di
richiamo alla umanità del sacerdote, diventare santi, dovrebbe significare
innanzitutto diventare veri uomini, uomini in pienezza di vita, come Gesù che è
stato vero uomo, pienamente uomo. E questo allora deve portare ogni persona a
non vedere nel prete un essere divinizzato ma un uomo, un fratello in cammino,
chiamato ad essere accompagnatore certo, ma anche ad essere accompagnato.
Teofilo vescovo di Antiochia, vissuto alla fine del II secolo, ha tradotto l’espressione ‘siate santi’ con ‘siate umanamente santi’, cioè siate santi nella dimensione umana, non dimenticando che è nell’umanità che si deve testimoniare la santità: straordinari nell’ordinario. Conformi a Cristo Gesù nel quale risplende l’immagine di Dio impressa nel cuore di ogni uomo.
Teofilo vescovo di Antiochia, vissuto alla fine del II secolo, ha tradotto l’espressione ‘siate santi’ con ‘siate umanamente santi’, cioè siate santi nella dimensione umana, non dimenticando che è nell’umanità che si deve testimoniare la santità: straordinari nell’ordinario. Conformi a Cristo Gesù nel quale risplende l’immagine di Dio impressa nel cuore di ogni uomo.
In conclusione allora mi verrebbe da rilasciare uno slogan
che già sant’Agostino aveva coniato: “Ama et fac quod vis!”, ama e fa ciò che
vuoi. Che attenti bene, non significa: allora datti alla pazza gioia, ma scopri
in te, trova in te, il volto del vero amore e non aver paura di affidarti e di
accoglierlo in te. In questo momento particolare della mia vita di prete posso
solo dire una cosa: non mi vergogno di amare. Non mi voglio vergognare di
amare. Non voglio vergognarmi di dare amore. Sono disposto, perché l’ho
imparato a trasformare come diceva don Tonino Bello, l’amore in morte (“Amare,
voce del verbo morire”); del resto se uno ama soffre anche per amore, ma è in
questa sofferenza a volte nascosta o a volte manifesta che si compie il mistero
dell’amore più grande. Aiutate allora il prete ad amare; ad essere amore; non
mortificate il suo essere uomo, ma accompagnatelo perché possa trasformarsi nel
vero uomo-pastore, Cristo Gesù. Grazie.
Christian Cerasa
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