Nell’udienza generale diquesta mattina (26 settembre 2012) il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha voluto
porre al centro della sua catechesi il ruolo e la sacralità della Liturgia come
“scuola di preghiera nella quale Dio parla a ciascuno di noi, qui ed ora, e
attende la nostra risposta”.
Ribadendo poi il suddetto
concetto il Santo Padre ha anche sottolineato come debba essere “servizio da
parte del popolo e in favore del popolo” e che “il popolo di Dio debba
partecipare all’opera di Dio”.
Tutti questi concetti, e altri ribaditi anche nel seguito della catechesi, sono
ovviamente da me condivisi e si trovano messi nero su bianco dalla CostituzioneConciliare sulla Sacra Liturgia dal titolo “Sacrosanctum Concilium”.
Questo documento, facendo
proprio il sentire comune che ad inizio ‘900 aveva dato il via alla nascita del
Movimento Liturgico, si propone di rendere viva ed efficace la celebrazione dei
misteri cristiani, in modo tale che i riti “parlassero” all’uomo di oggi.
La
liturgia è dunque diventata grazie al Concilio Vaticano II uno strumento di
vita cristiana. Facendo partecipare i fedeli attivamente e coscientemente al
culto cristiano, si è voluto che da questa fonte essi attingessero il vero
spirito di fede.
La Sacrosanctum Concilium ha
consentito di mettere in risalto la dimensione comunitaria e pasquale del
mistero eucaristico, rimasta per tanti secoli in ombra. La piena partecipazione
dei fedeli all’eucaristia, significata nell’assunzione delle due specie, e il
superamento della devozione privatistica nella celebrazione della messa,
furono, così decisivi grandi passi in avanti nel rinnovamento liturgico.
Benedetto XVI è a piena
conoscenza di tutti questi fatti e li ha voluti ribadire con una certa forza anche quest'oggi.
Da umile pecora del gregge del Signore io non riesco dunque a
spiegarmi il significato del motu proprio dal titolo “Summorum Pontificum” del
7 luglio 2007 che di fatto ha liberalizzato la Messa Tridentina che, per quanto
possa essere apprezzata ed apprezzabile, disattende in gran parte le fondamenta
teologiche sulle quali si fondano i testi conciliari in materia di Liturgia.
Con questo non voglio dire che il percorso che ha condotto
alla riforma liturgica, su indicazione autorevole del Concilio Vaticano II, debba essere però interpretato come rottura e discontinuità, ma neppure come
semplice continuità aproblematica rispetto ad una prassi irreformabile. Non a
caso, nel noto Discorso alla Curia Romana del dicembre 2005, Benedetto XVI ha
criticato l'interpretazione del Concilio Vaticano II in termini di pura
discontinuità e rottura, per affermare, tuttavia, la logica non della semplice
continuità, ma quella della “riforma”. Assicurare la continuità della
tradizione implica pur sempre, nel rinnovamento, un certo grado di
discontinuità.
Ed eccoci dunque a parlare
del problema reale: perché nel luglio del 2007 il Sommo Pontefice ha sentito la
necessità di lanciare con un motu proprio la liberalizzazione del “vetus ordo” sapendo, di fatto, che esso disattendeva parte di quanto espresso nei documenti conciliari?
Su questo tema la risposta me l’ha saputa dare, a suo tempo, il Cardinal Martini che apprezzò della scelta
di Ratzinger solo “la volontà ecumenica a venire incontro a tutti”.
Ecco dunque centrato il
punto. Come mai la gerarchia ecclesiastica è stata disposta a fare passi
indietro (o avanti a seconda dei punti di vista) rispetto allo Spirito che
anima il Concilio, per garantire il riavvicinamento di quei fedeli che, dopo il
Concilio, si sono allontanati, mentre non è disposto a farne altrettanti per
altri fedeli e su altre questioni (pastorali, etiche, sociali ecc.) che li
hanno visti allontanare dalla fede nella Chiesa? Ma come mai, soprattutto,
visto il fallimento nel tentativo di riavvicinamento da parte della Chiesa
Cattolica nei confronti dei Lefebvriani dopo 5 anni di attesa, non si decide di
cancellare questo motu proprio che inserisce due distinti riti liturgici per
celebrare l’Eucaristia e i Sacramenti?
A domande come queste molti
fedeli attendono risposte chiare da parte delle nostre gerarchie.
Si sente
tanto parlare infatti di relativismo culturale ed etico (fenomeno che lascia
indiscutibilmente ferite profonde nella nostra società secolarizzata) e non
vorremo che nella Chiesa vi sia presente questo “relativismo liturgico” segno
dell’incapacità (parafrasando le parole del Papa di oggi) di dare una risposta
certa e univoca alle parole di Dio durante le nostre celebrazioni.
(Lorenzo
Banducci)
Commenti