di Frédéric Mounier
in “La Croix” del 29 ottobre
2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Le ceneri umane sono lì,
sparse ai piedi degli alberi. A pochi passi dall'entrata del cimitero intercomunale di
Joncherolles (Seine-Saint Denis), in prossimità del crematorio, che riceve 1200
corpi all'anno, il “Giardino del ricordo” ha un'atmosfera di tranquillità.
Voluto in tutti i comuni di più di 2000 abitanti dalla legge del 19 dicembre
2008, riguardante la cremazione, ormai parte preponderante delle esequie, il “Giardino
del ricordo” di Joncherolles ha conosciuto un'evoluzione interessante. Ce la
spiega Mathieu Legrand, suo conservatore: “In teoria, le ceneri devono
essere versate nel “pozzo delle ceneri”. Il pozzo, chiuso da una
piattaforma di ciottoli, è circondato da un memoriale composto di targhe
nominative che ricordano le identità dei defunti. Ma, ecco che “gli alberi
sono diventati sepolture. È un modo diverso di vivere il lutto”, constata
il conservatore.
Come spiega Annie Paggetti,
direttrice del crematorio, “la cremazione non significa né la
scomparsa del legame né
quella del luogo”. Non crede alla “privatizzazione delle
ceneri”, spesso denunciata.
Il cimitero di Joncherolles,
con i suoi 25 ettari con 14000 spazi, polmone verde stretto tra le officine di
riparazione delle ferrovie, dei magazzini e una zona industriale, è una vetrina
degli sconvolgimenti ignorati da molti del paesaggio funerario francese.
Essendo situato nel dipartimento 93 (Seine-Saint Denis), la prima religione dei
“suoi” defunti è l'islam. E su 9000 tombe non musulmane e non ebree, 7500 non
presentano alcun segno religioso. Il calcolo è stato realizzato da Patricia
Duchesne, responsabile della cappellania del cimitero, unica in Francia. Il suo
ufficio, sobrio e senza segni religiosi, è adiacente a quello di Annie
Paggetti. La sua constatazione: “Realizziamo 300 cerimonie religiose
all'anno. Ossia il 25% del totale. Per le persone che vengono qui, le
parole “parrocchia”, “prete”, “sacramento” non hanno alcun senso. Spesso sono
abbattuti, distrutti, feriti. Ci dicono: “Aiutatemi, nonostante tutto,
salvatemi, anche se non credo”. In questo senso, siamo qui come la
Chiesa fuori dalla Chiesa, dei missionari ai margini”. Evidentemente, trova
molto confacente l'invito di papa Francesco ad andare verso le periferie. Per
questa laica incaricata da Mons. Pascal Delannoy, vescovo di Saint-Denis, “siamo
all'estremo limite della diminuzione del cristianesimo in Francia”. Per questo, paradossalmente,
vede la sua cappellania come “una porticina d'entrata nella Chiesa”.
All'altro capo della
Francia, l'architetto Marc Barani, premio nazionale di architettura 2013, si è
appassionato ai cimiteri: “Avrei potuto costruirne per tutta la vita!”, dice
oggi. Perché? Perché, di ritorno da un anno in Nepal, ha rinnovato, nel
1992, il cimitero di Roquebrune-Cap Martin (Alpes Maritimes), proprio
dove è sepolto il suo grande “collega” Le Corbusier. Colpito dalla continuità
orientale tra la morte e la vita, l'architetto deplora, in Occidente, “la
difficoltà allo stabilirsi in un tempo lungo”, “l'accelerazione del tempo
legata alla negazione della morte, divenuta innominabile” e “l'abbandono
dell'arte funeraria”. Constata la “sostituzione del principio di immortalità
dell'anima col nostro principio di immortalità: con la cancellazione delle
concessioni perpetue, siamo passati dall' 'eterna dimora' all' 'ultimo
albergo'. Nota che “lo scoppio delle famiglie non favorisce l'unità di
tempo e di luogo”. E vede nell'esplosione della cremazione “un modo di
uccidere la morte più rapidamente, semplicemente, perché la decomposizione dei
corpi fa paura”.
Già nel 2002, il sociologo
Jean-Hugues Déchaux aveva intravisto il “processo di intimizzazione” del
funerale: “La morte, deritualizzata, riguarda sempre più la soggettività di
ciascuno. Non trova altro modo di esprimersi socialmente che a partire
dall'esperienza intima, da qui deriva la regressione dei riti antichi, che
affiliavano e celebravano un passaggio, permettendo un'espressione del dolore
socialmente riconosciuta”.
Padre Jean-Marie Humeau,
parroco di Taverny (Val-d'Oise), responsabile diocesano della pastorale dei
funerali, non condivide questa severità. Certo, conformemente alla dottrina
della Chiesa, che dopo il Concilio Vaticano II non condanna più la cremazione,
ma non la favorisce, spiega: “Distruggere il corpo che è stato il tempio
dello Spirito con un atto volontario non è la stessa cosa che metterlo
in terra, proseguendo così l'opera della creazione”. Tuttavia, constatando
che nell'Essonne “i funerali civili sono ormai il 50%”, persiste: “Quando
la Chiesa propone, la proposta viene accolta”. Vi vede due
condizioni: “Tutto dipende dall'iniziativa lasciata ai laici formati
e responsabili della pastorale dei funerali”, che sono oggi circa un
centinaio in ogni diocesi. E soprattutto dalla presenza della Chiesa nei
crematori, sapendo che certi vescovi e certi responsabili di quei luoghi di
incinerazione manifestano una reale opposizione a tale presenza.
A Joncherolles, Mathieu
Legrand, non è preoccupato: “I cimiteri non scompariranno; si trasformeranno, adattandosi
alla richiesta di cremazione, alle cerimonie civili, diventando più 'paesaggistici'”.
Una
constatazione condivisa dalla sua “cappellana”, Patricia Duchesne, che constata
già questa trasformazione.
I professionisti dell'atto
funebre, attenti all'evoluzione di quello che è anche un mercato, non sono tra
l'altro privi di senso spirituale. Lo testimonia la qualità formale delle “sale
di presentazione”, “sale di consegna dell'urna” o “sale conviviali” (aperte
alle famiglie durante la cremazione) offerte alle famiglie e ai parenti e amici
dei defunti al cimitero di Joncherolles. L'équipe dei gestori mette l'accento
sull' “accoglienza vissuta come cura”, osserva Annie Paggetti.
Interventi, proiezione di foto e di video, diffusione di musica scandiscono
ormai le cerimonie civili, che sono le più numerose.
Da qui deriva l'insistenza
di padre Humeau: “Spesso, questi ricordi sono rivolti al passato. Quando le
famiglie ci chiedono una celebrazione cattolica, noi proponiamo loro di porli all'inizio
del rito. Perché quest'ultimo ha l'obiettivo di aprire al futuro”.
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