di Enrico Chiavacci
"D'ora in poi predicherò solo Cristo, e
Cristo crocifisso", esclama Paolo (cfr. 1Cor 2,2). La fede in
Cristo non è un 'bagaglio di valori', ma è l'assunzione di un unico valore che
deve dominare la mia intera esistenza, esserne il senso ultimo su cui io scelgo
di misurare me stesso in ogni mia scelta concreta (o, se si vuole, storica).
Questo unico valore è fare della propria esistenza un dono offerto a tutti i
fratelli in umanità, buoni o cattivi, bianchi o neri, amici o persecutori.
"Questo corpo che è per
voi, questo sangue versato per voi e per tutti": Gesù nella
cena dichiara il senso del suo andare deliberatamente incontro alla croce, e
con questo gesto supremo di dono accompagnare la storia, la vicenda intera
della famiglia umana.
Spesso
però noi cristiani ci dimentichiamo che ogni essere umano è chiamato dal
proprio interno a una 'vita morale' cioè all'assunzione di un significato unico
e ultimo del proprio esistere e alla coerenza con esso in ogni situazione
concreta. Tale assunzione può nascere da un'esperienza interiore indicibile,
cioè non dimostrabile ad altri come l'unica vera; può anche avere una
motivazione filosofica e nascere da una argomentazione, ma il mettersi ad
argomentare o a interrogarsi sul senso della propria esistenza è già vita
morale. Anche l'ateo, il laicista, il 'laico', l'anticlericale, l'aderente a
qualunque fede religiosa non cristiana, ha in sé la chiamata a una vita morale:
il che equivale al bisogno di dare un senso al proprio esistere.
Ma
noi cristiani crediamo che anche il non-cristiano, come ogni essere umano,
trovi in se stesso una chiamata divina, e precisamente la chiamata di un dio,
del Dio che ci è apparso in Nostro Signore. A Lui tutti dobbiamo rispondere,
che lo conosciamo o no, e da Lui tutti abbiamo bisogno di perdono. Tutto ciò è
espresso chiaramente in Paolo, Rm 2. Giovanni XXIII riprende il tema
indirizzando a tutti gli uomini di buona volontà la grande enciclica Pacem in
terris: se ne rilegga l'intestazione, il proemio, e tutta la V parte. E la Gaudium et spes esplicita
il contenuto di questa esperienza morale che accomuna tutti gli uomini intorno
al grande tema della pace. Si veda il n. 77, ma specialmente il n. 92. In esso
la Chiesa si dichiara aperta al dialogo e alla cooperazione (che ne è lo scopo
e la cercata conseguenza) con uomini di qualsiasi fede, con gli agnostici e gli
atei, e paradossalmente anche con i propri persecutori: a tutti coloro che
"praeclara animi humani
bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt". E conclude
dicendo che Dio Padre, principio e fine di tutti, ci chiama tutti a essere fratelli
nella ricerca della pace: siamo tutti chiamati ad una stessa vocazione (hac
eadem vocatione vocati: si noti che eadem in latino indica con precisione una
stessa identica vocazione, unica per ogni essere umano). (È doveroso ricordare
che un forte richiamo in questa direzione era già stato fatto dal padre H. De
Lubac in Sur les chemins de
Dieu, 1956. De Lubac doveva difendersi da molti critici per un
opuscolo del 1945, e lo fa con una straordinaria documentazione patristica,
teologica e filosofica: su 350 pagine, ben cento sono dedicate alle note).
In questo quadro le
espressioni del tipo 'laico' o 'laicista' non hanno necessariamente il
significato di contrapposizione al cristianesimo: esse possono indicare
l'assunzione degli alti valori vissuti e insegnati da Gesù Cristo, anche senza
conoscerne o riconoscerne l'Autore.
Nello stesso modo può avere un senso l'espressione 'cristianizzazione senza
Dio': ma l'espressione è paradossale in quanto indica l'assunzione di valori
assoluti evitando di riconoscere un assoluto a cui agganciarli. Io credo che in
molti casi sarebbe più appropriato il binomio 'clericale-anticlericale': in
esso si cela non tanto il problema di Dio o di Gesù Cristo, quanto il problema
di accettazione della chiesa nel suo modo - passato e presente - di presentare
il Vangelo di Gesù Cristo attraverso le sue strutture, regole, pronunciamenti,
devozioni, predicazione. Il rifiuto della chiesa per i motivi ora detti può
portare, e di fatto ha portato, al rifiuto in blocco del suo annuncio su Dio e/o
su Gesù Cristo (si rilegga il n. 19 di GS). Lo stesso Giovanni Paolo II ha
chiesto perdono per gli errori del passato.
A
partire almeno dal II millennio, il potere decisionale nella chiesa - in tutti
i campi - si è sempre più accentrato nelle mani del clero (si pensi che
nell'area ortodossa anche il clero contava e conta poco: quelli che contano
veramente sono i monaci e i monasteri). E almeno dal XVI sec. ogni potere
decisionale si è sempre più accentrato, passando dal clero e anche dai vescovi
alla Santa Sede. Un papato monarchico non solo temporale ma anche spirituale
(dottrinale, giuridico, liturgico etc.) da un lato era forse necessario per
combattere eresie o errori pericolosi, dall'altro ha generato una reazione sia
dottrinale che spirituale. Clericalismo e anticlericalismo, azione e reazione:
difficile dire chi ha sparato per primo. Non posso discuterne qui, e nessuno ha
una risposta certa. Ma non dobbiamo mai dimenticare che senza una comunità dei
credenti in Cristo organizzata, pur con tutti i suoi limiti storici e i suoi
errori, il Vangelo non ci sarebbe giunto. Ricordiamo il celebre detto,
attribuito al grande regista Buñuel: "Io sono ateo, grazie a Dio"; e
ricordiamo anche che il film più fedele al Vangelo - e forse fino ad oggi l'unico
fedele - è dovuto a P.P.Pasolini.
(Prosegue su www.dimensionesperanza.it)
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