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Nella Chiesa del XXII secolo



di Fulvio De Giorgi

in “Presbyteri” n. 2 del febbraio 2013


Con un esercizio di ‘fantasia pastorale’ spostiamo decisamente in avanti l’orologio, anzi il
calendario della storia. Quale sarà la Chiesa nel 2113? Forse ci sarà già stato il Concilio Vaticano III  o forse no... La Chiesa si articolerà nelle tante piccole comunità ecclesiali viventi, sparse sul territorio. Rifulgeranno le due ‘vocazioni’ fondamentali: alla verginità consacrata e al matrimonio.
E dalla prima verranno, prevalentemente, i vescovi a reggere le diocesi, indicati – se non proprio eletti – da tutti i cristiani di quelle chiese locali.
Prevalentemente dai coniugati, invece, dopo una lunga e provata testimonianza di vita, le piccole comunità eleggeranno gli ‘anziani’ (maschi o femmine), chiamati a presiedere l’eucaristia e a guidare spiritualmente quelle ‘chiese tra le case’: il vescovo vaglierà gli eletti e li ordinerà per quel ministero. Non si chiameranno ‘sacerdoti’, perché ovviamente tutti i battezzati adulti, cioè i ‘santi’ o ‘cristiani’, sapranno di essere sacerdoti, in forza del battesimo. Saranno appellati ‘anziani’ (o, che è  lo stesso, ‘presbiteri’, ‘preti’), chiamati al sacerdozio ministeriale.

Non ci potranno essere mai, allora, pochi preti e l’espressione ‘crisi di vocazioni’, riferita al
sacerdozio ministeriale, non avrà senso: le vocazioni principali saranno, come si è detto e come è sempre stato, al matrimonio e alla verginità consacrata. Tra loro emergeranno i vari carismi, poi riconosciuti in ministeri (compreso quello presbiterale), da parte della comunità, in comunione e sotto la guida del vescovo. E ogni piccola comunità potrà avere, ovviamente, più di un presbitero, avrà anzi normalmente un collegio presbiterale, con uomini e donne.
Lo sforzo maggiore (anche economico) delle diocesi sarà la cura dei giovani, per formare buoni coniugi e buoni celibi consacrati. Ci saranno pertanto cammini formativi ed esistenziali, con diverse ‘tappe provvisorie’ (ma talvolta stabili) e ‘passaggi’ volontari, per giungere ai consacrati con voti  perpetui e ai coniugati con matrimonio indissolubile: i primi chiamati ad essere segno escatologico delle realtà ultime, del Regno di Dio che non è di questo mondo; i secondi ad essere segno di Cristo  Sposo unito in un sol corpo, in una carne sola, con la Chiesa Sposa. Pertanto i piccoli e i poveri  avranno sempre il primo posto e tutte le scelte ecclesiali saranno fatte ‘dal loro punto di vista’. 
E non si potrà dare, in tale situazione, una realtà di ‘clericalismo’, cioè una separazione castale di una parte del Popolo di Dio dall’altra: del clero dal laicato. Né potranno darsi presbiteri sconosciuti alle comunità e imposti loro.
I celibi consacrati si asterranno dal trafficare con le realtà temporali, ma, annunciando i novissimi,denunceranno le ingiustizie di questo mondo, insieme con tutta la comunità. I vescovi e i presbiteri si guarderanno bene dall’ingerirsi nella vita politica e nella dialettica partitica, ma a tutti ricorderanno le verità evangeliche, le Beatitudini, dialogando fraternamente con ogni persona. Dagli altri cristiani – coniugati o celibi non consacrati – verranno coloro che si occuperanno della vita sociale e civile e, in particolare, della politica, con opzioni partitiche diverse, ma tutti tesi alla realizzazione della Civiltà dell’Amore, dalla parte dei poveri.
Gli storici della Chiesa avranno allora un grande problema da risolvere e si affaticheranno, con lunghi studi, a capire come mai la Chiesa – tra XX e XXI secolo – abbia impiegato tanto tempo, nonostante il Concilio Vaticano II, per superare definitivamente il ‘paradigma tridentino’, con le molteplici difficoltà e contraddizioni (tra cui la cosiddetta ‘crisi vocazionale’) che, nel mutato  contesto storico, esso determinava. A tali storici apparirà evidente che una forma organizzativa elaborata, con grande intelligenza e giusta intuizione, nel XVI secolo non potesse funzionare più in un’epoca storica completamente diversa, com’era ormai quattrocento anni dopo, quando tuttavia  permaneva ancora. E si chiederanno perciò cosa determinasse tali e tante resistenze.
Qualche teologo-storico denominerà allora il XX-XXI secolo “l’età della Grande Anoressia”: quando, per la resistente permanenza di strutture organizzative desuete, il Popolo di Dio resisteva al soffio dello Spirito e quasi volontariamente rifiutava di nutrirsi dell’eucaristia (poco disponibile per  scarsezza di clero) e dimagriva a vista d’occhio, riducendosi pressoché ad uno scheletro. 



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