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Può esistere una giustificazione cristiana dell'eutanasia? (1°parte)


di Giannino Piana

in “Micromega” n. 4 del maggio 2013

L'eutanasia è una pratica presente in tutte le società e le culture - dalle più remote a quelle attuali - che ha assunto (e assume) tuttavia connotati e significati diversi a seconda delle modalità con cui viene eseguita e delle motivazioni che giustificano ad essa il ricorso. Senza entrare nel merito di un'indagine storica (e antropologica), che ci porterebbe lontano e che esula peraltro dall'intento di questo saggio, si può dire che l'eutanasia è oggi comunemente intesa come quell'insieme di azioni o di omissioni intenzionalmente e direttamente finalizzate a porre fine alla vita o ad accelerare la morte di un malato che versa in condizioni disperate. L'eutanasia risulta dunque motivata da un atteggiamento di pietà nei confronti di una persona che vive in una situazione particolarmente penosa e che si intende in tal modo sottrarre a ulteriori sofferenze. Questa restrizione dell'area semantica del termine è importante per molte ragioni. A venir meno è anzitutto l'ambigua distinzione tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva: quella passiva non ha infatti qui ragion d'essere, in quanto o si configura come omissione terapeutica destinata a provocare la morte - e allora è eutanasia a pieno titolo che non ha bisogno di altre aggettivazioni - o è rifiuto di accanimento terapeutico, e come tale non può certo definirsi eutanasia.
Ma, soprattutto, tale restrizione consente di escludere dall'ambito dell'eutanasia questioni come quelle dell'alleviamento della sofferenza o dell'omissione di trattamenti che provocano un prolungamento abusivo della vita, e che vanno pertanto ascritti alla fattispecie dell'accanimento terapeutico.
L'insistenza con cui affiora oggi la richiesta di riconoscimento dell'eutanasia, non solo sul terreno legislativo ma anche su quello etico, è dovuta a ragioni di diverso segno, che meritano di essere, sia pure sinteticamente, enucleate.
La prima - e la più rilevante - di tali ragioni è la constatazione del moltiplicarsi di situazioni nelle quali la vita personale appare gravemente compromessa nella sua dignità a causa di forme di prolungamento artificiale che la destituiscono della sua qualità umana. Il progresso scientifico tecnologico in campo biomedico, che ha esteso considerevolmente le speranze di vita, vincendo stati morbosi un tempo letali, rischia talvolta, paradossalmente, di trasformarsi in strumento di nuove alienazioni. Dietro la tendenza a sottoporre il paziente a qualsiasi tipo di trattamento, pur di mantenerlo in vita, vi è spesso, da un lato, una malintesa concezione della vita umana ridotta alla sua dimensione biologica e, dall'altro, la ricerca (magari inconscia) di autoaffermazione del medico, che interpreta in maniera del tutto distorta il proprio dovere di servizio alla vita.
Ma la ragione senz'altro più importante della domanda eutanasica è oggi costituita dalla sempre maggiore presa di coscienza del diritto di morire con dignità. Il recupero di centralità del soggetto umano, che è un tratto qualificante della nostra cultura, implica il rispetto assoluto della dignità personale e la conseguente affermazione di una serie di diritti, tra i quali quello di affrontare serenamente e lucidamente, per quanto è possibile, la morte in quanto evento nel quale la vita giunge a compimento. È questo anche il motivo che sta alla base del principio di autonomia o di autodeterminazione, che è uno dei capisaldi dell'odierna bioetica.


Criteri generale di valutazione morale

Come dunque valutare l'eutanasia sul terreno dell'etica? A quali parametri deve ispirarsi il giudizio su di essa, tenendo conto della complessità delle situazioni e della necessità di fare riferimento a una concezione della vita umana come vita personale e relazionale, dunque non esclusivamente biologica? Va detto anzitutto che il giudizio etico sull'eutanasia (intesa in senso proprio e ristretto secondo la definizione sopra data) non può che essere negativo. Il diritto ad esistere è il (non un) diritto fondamentale della persona, perché fondante tutti gli altri diritti, e pertanto la tutela della vita in tutte le fasi del suo sviluppo è un dovere inderogabile. Questa visione è, in linea di principio, condivisa dalla stragrande maggioranza delle etiche laiche e da tutte le etiche di ispirazione cristiana. Tuttavia la valutazione complessivamente negativa dell'atto eutanasico non comporta necessariamente rifiuto di qualsiasi forma di eutanasia. Il precetto «non uccidere» - come rilevano parecchi teologi morali cattolici (Cfr. E. Schockenhoff, Etica della vita. Un compendio teologico, Queriniana, Brescia 1997, pp. 186 ss.) - non costituisce un imperativo morale da cui si possa dedurre immediatamente un'etica normativa in grado di far fronte alla globalità delle situazioni umane e soprattutto di sciogliere alcuni nodi conflittuali per i quali si esige il ricorso a ulteriori mediazioni.
Facendo riferimento a quest'ultima esigenza, una parte consistente della ricerca etica laica sostiene, in nome del principio di autodeterminazione, la possibilità, di fronte a situazioni estreme, di porre fine alla propria vita e di essere aiutati a farlo. Questa posizione viene motivata in base alla considerazione che non si dà, sul piano puramente razionale, un dovere incondizionato di continuare a vivere e che non si può invocare il concetto di «interesse della vita», laddove esiste uno stato di grave sofferenza e la vita non può più essere vissuta in condizioni umanamente accettabili. In questo caso il diritto a determinare la propria morte altro non sarebbe che una forma di rispetto della dignità umana, che potrebbe rendere persino doveroso l'intervento di terzi per consentirne la realizzazione.
Si può certo discutere criticamente una posizione come questa che porta con sé il pericolo di un allentamento del valore della vita con esiti problematici per la sua tutela. Ma si deve riconoscere che non sussistono motivazioni apodittiche di ordine strettamente razionale tali da escludere in termini assoluti ogni possibilità di autodeterminazione rispetto alla morte.

La dottrina della Chiesa cattolica nella “Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II

Diversa è senza dubbio la posizione ufficiale della Chiesa cattolica.
Una presentazione organica della tradizionale dottrina cristiana sui temi della «vita» e della sua preservazione è presente nell'enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II (1995), che costituisce (anche in ragione della sua vicinanza nel tempo) un utile riferimento per l'illustrazione della posizione sull'eutanasia oggi prevalente all'interno del mondo cattolico.
Il presupposto da cui prende avvio la riflessione di papa Wojtyla è la concezione della vita come «dono di Dio», dunque come realtà che l'uomo non possiede ma da cui è posseduto in maniera sempre parziale, essendo la sua vita partecipazione a quella del Vivente. «La vita dell'uomo» scrive Giovanni Paolo II, «proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l'unico signore; l'uomo non può disporne. [...] La vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: "Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio di ogni carne umana", esclama Giobbe (12, 10). "Il Signore fa morire e fa vivere, fa scendere agli inferi e risalire" (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: "Sono io che do la morte e faccio vivere" (Dt 32, 39)», (Evangelium vitae, n. 39).
Da queste considerazioni, che conferiscono alla vita umana un carattere radicalmente «sacrale», discende la sua assoluta inviolabilità, il fatto cioè che ad essa sia dovuto un rispetto incondizionato. La consapevolezza che tanto della vita quanto della morte non si è padroni sollecita, da un lato, la coltivazione di un atteggiamento di affidamento alla volontà divina (n. 46); e implica, dall'altro, la formulazione di una severa condanna morale di ogni forma di attentato alla vita e alla sua integrità, inclusa ovviamente l'eutanasia, la cui inaccettabilità etica, al di là delle ragioni personali e sociali, va soprattutto ricercata - è questa la tesi di Agostino ripresa successivamente da Tommaso d'Aquino – nel rifiuto della sovranità di Dio sulla vita e sulla morte (n. 60). Non mancano nel documento papale due importanti annotazioni che sembrano attenuare la rigidità con cui i princìpi sono enunciati o, quanto meno, suggerire una certa flessibilità nella loro applicazione. Si allude, per un verso, al riconoscimento della relatività della vita terrena, all'ammissione che essa non è realtà «ultima» ma soltanto «penultima», e che di conseguenza si può (talora si deve) rinunciare ad essa per un bene superiore (nn. 2 e 47); e, per altro verso, all'ammissione della presenza di situazioni complesse e conflittuali nelle quali «i valori proposti dalla legge di Dio appaiono sotto forma di un vero paradosso»; situazioni che comportano pertanto il ricorso a forme di compromesso o di mediazione (n.55). A queste importanti affermazioni di principio non fa, tuttavia, seguito alcuna traduzione nell'ambito dei vissuti, tale da lasciar trasparire la possibilità di un giudizio meno severo nei confronti della questione eutanasica.

Una proposta alternativa

La riflessione teologica (soprattutto quella più impegnata) si è sforzata, nei decenni più recenti, di aprire piste nuove, sollecitata dalla complessità delle situazioni esistenziali alle quali fa riferimento la stessa Evangelium vitae di Giovanni Paolo II. Tra coloro che si sono mossi in questa direzione una menzione particolare merita Hans Küng che è giunto ad affermare l'esistenza di un diritto cristianamente responsabile all'autodeterminazione nel morire (Cfr. H. Küng, W. Jens, Della dignità del morire. Una difesa della libera scelta, Rizzoli, Milano 1966, soprattutto alle pp. 60-90.). Nel diritto a una vita degna non può, secondo il teologo svizzero, non rientrare anche la possibilità per l'uomo di decidere quando e come morire.
Tale diritto, che va esercitato nel contesto di una libertà consapevole da non confondere con l'arbitrio o con il capriccio, è da Küng giustificato mediante il ricorso ad argomentazioni etiche e teologiche che meritano seria considerazione: dalla rilevazione che il diritto a continuare a vivere non può diventare un dovere assoluto -il diritto alla vita non può essere scambiato per una coercizione a vivere - alla tesi che, essendo l'inizio della vita umana posto da Dio nelle mani della responsabilità dell'uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita venga da Dio posta sotto tale responsabilità. In questo contesto l'eutanasia acquisirebbe legittimità come espressione di un'etica della responsabilità che recupera l'autonomia dell'uomo in quanto fondata sulla stessa volontà divina: il contesto di alleanza in cui il «dono» della vita si inscrive implica infatti la libera risposta dell'uomo. Si tratta - osserva Küng - di una sorta di «terza via teologica e cristianamente responsabile tra un libertinismo antireligioso e irresponsabile ("diritto illimitato di suicidio") e un rigorismo reazionario senza compassione ("anche ciò che è insopportabile deve essere accolto come dono di Dio")». La libertà di decidere in coscienza il modo e il tempo della morte sarebbe dunque, secondo Küng, una prerogativa dell'uomo. La certezza di fede che la morte non è l'ultimo traguardo, ma che la vita mortale si apre verso la vita eterna, renderebbe, d'altra parte, poco importante il prolungamento indefinito della vita biologica in condizioni umanamente non dignitose; mentre, a sua volta, il fatto che le scienze biomediche favoriscano la possibilità di tale prolungamento non farebbe che accentuare - è ancora Küng a rilevarlo - la necessità di un supplemento di consapevolezza soggettiva, dando un più solido impulso al diritto dell'autodeterminazione e favorendone l'estensione anche al concorso di terzi o alla possibilità di una loro autonoma opzione nei casi in cui è impossibile conoscere la volontà del paziente e si può comunque presumere che il suo desiderio può essere soltanto quello di morire.

[To be continued...]

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