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Può esistere una giustificazione cristiana dell'eutanasia (2°parte)


di Giannino Piana

(Prosecuzione dell'articolo pubblicato ieri)

Osservazioni per un bilancio critico

La provocazione di Küng, le cui argomentazioni vanno seriamente discusse, ci fa in ogni caso intuire che la questione dell'autodeterminazione di fronte alla morte è una questione complessa, meritevole come tale di attenta riflessione. Le ragioni a favore dell'autodeterminazione, comprese quelle di ordine teologico, sono tutt'altro che peregrine. Le argomentazioni contrarie, le quali fanno appello alla radicale indisponibilità della vita umana perché «dono» di Dio o perché dotata di una costitutiva «santità», risultano insufficienti: esse si collocano infatti a livello metaetico o parenetico, e in quanto tali non possono rivestire un carattere assoluto né tanto meno venire immediatamente trasposte in ambito normativo.
La tradizione morale cristiana conosce del resto l'esistenza di consistenti eccezioni al divieto di uccidere, soprattutto sul terreno della vita pubblica - si pensi soltanto alla giustificazione della guerra o oggi, almeno, di operazioni di polizia internazionale - mentre ha stranamente sempre assunto un atteggiamento di intransigente rifiuto di qualsiasi eccezione laddove sono in gioco questioni appartenenti alla sfera della vita privata: dall'aborto al suicidio, all'eutanasia. Si direbbe che si è verificata una politica del doppio binario o, più correttamente, che si è adottato (e tuttora in parte si adotta) un diverso metodo di approccio: nel primo caso, il riferimento è a un modello teleologico, basato sulla misurazione, caso per caso, delle conseguenze positive o negative delle azioni; nel secondo, a un modello deontologico, per il quale a contare è la sola fedeltà ai princìpi (o ai valori), «accada quello che può», senza alcuna attenzione perciò alle ricadute positive o negative delle azioni. Non si vede infatti perché non si debba ricorrere, anche nel caso delle questioni relative alla vita privata, a una responsabile ponderazione dei valori in gioco, valutando concretamente il contesto, le circostanze e le conseguenze delle azioni messe in atto.
D'altra parte, non del tutto infondate sono le obiezioni che alcuni rivolgono alle argomentazioni di Küng. Vi è infatti chi fa notare la diversità che esiste tra la decisione di dare inizio a una vita che non c'è e quella di eliminarne una già pienamente formata anche se in fase di declino; e chi rileva come la responsabilità umana, per quanto grande, non è tuttavia illimitata. Nell'ottica della fede non è l'uomo a darsi la vita e neppure dipende totalmente da lui conservarla; è difficile perciò sostenere che egli possa rivendicare, in termini assoluti, il diritto di togliersela. Se la vita è, dall'inizio alla fine, in mani altrui - si osserva - ne viene che è dovere dell'uomo riconciliarsi con i limiti della propria esistenza e accettare i confini che le sono tracciati dall'esterno; recuperare, in altri termini, la dignità della propria finitudine.
La consapevolezza di questa verità e il riconoscimento della dipendenza da Dio, non in una prospettiva di vago e sterile provvidenzialismo ma di vero impegno, rendono meno difficile anche l'accoglienza delle situazioni limite: «C'è una passività», scrive Eberhard Jüngel, «senza di cui l'uomo non sarebbe umano. Di essa fa parte il fatto che siamo partoriti. Di essa fa parte il fatto che siamo amati. Di essa fa parte il fatto che moriamo» (E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia 1972). Anche da queste considerazioni critiche non scaturiscono, d'altronde, orientamenti normativi assoluti e senza eccezione; ciò che da esse deriva è la constatazione che il principio di autodeterminazione relativo al morire deve fare i conti con limitazioni oggettive, che ne rendono quanto meno problematiche applicazioni troppo estese e incontrollate. E questo per diverse ragioni, alcune delle quali meritano di essere qui richiamate. Si pensi, anzitutto, alla difficoltà di decifrare la domanda di morire espressa dai malati terminali. L'attività clinica rileva che tale domanda contiene talora un messaggio diverso da quello significato attraverso le parole: è infatti, in alcuni casi, semplicemente un appello a non essere lasciati soli e una richiesta di aiuto. O ancora, si pensi al rischio che l'introduzione dell'eutanasia si trasformi da «estremo rimedio» in pratica abituale, allentando la ricerca di alternative e sostituendosi alla più dispendiosa gamma delle cure assistenziali, nonché dando origine a una sorta di «china sdrucciolevole» (così viene chiamata), che provoca la caduta di barriere morali tese a tutelare l'individuo impedendo che gli interessi economici e sociali finiscano per prevalere con grave danno per le categorie più deboli.


Quali dispositivi legislativi?

Se poi dal livello etico si passa a quello legislativo è doveroso ricordare che la ricerca di soluzioni deve svilupparsi in modo del tutto «laico», mediante il ricorso a un dibattito pubblico aperto nel quale ci si confronti sulla base di argomentazioni razionali. Le difficoltà sono, al riguardo, di non poco conto. Da un lato, è infatti sempre più percepita la gravità di situazioni che esigerebbero il ricorso all'eutanasia; dall'altro, cresce la paura di aprire con la sua introduzione una falla, che potrebbe portare alla caduta di barriere difensive fondamentali nei confronti di categorie già marginali, le quali rischierebbero di venire espropriate anche del diritto ad esistere. Vi è così chi sostiene che occorre vincere la tentazione di legiferare riconoscendo la difficoltà oggettiva di trovare concetti appropriati per definire la questione; e chi, invece, ritiene non solo legittimo ma auspicabile e persino doveroso l'intervento legislativo, in quanto eticamente e giuridicamente più corretto del ricorso a un vago «stato di necessità», o l'affidarsi in modo paternalistico alla decisione del singolo medico.
Nel primo caso ciò che si teme è soprattutto che l'encomiabile intenzione di proteggere la libertà degli individui possa trasformarsi nel pericolo di rinchiuderli in una rete giuridica astratta e inadeguata; nel secondo, pur nella consapevolezza dei possibili abusi, e perciò della necessità di stabilire precise garanzie, quali la richiesta esplicita del malato, l'intollerabile condizione di dolore e la prescrizione di normative chiare, si ritiene che vada comunque primariamente salvaguardato il rispetto della coscienza del paziente, e dunque il suo diritto all'autodeterminazione.
È difficile optare decisamente per l'una o per l'altra posizione. Un giudizio seriamente fondato può forse essere espresso in base alla verifica degli effetti prodotti dalle varie legislazioni, in particolare da quelle che hanno da tempo introdotto la legalizzazione dell'eutanasia. Senza dimenticare tuttavia che, essendo in gioco un valore fondamentale come quello della vita, non è possibile ridurre tutto alla definizione di regole procedurali fondate sul consenso o su un'argomentazione puramente strategica; si esige un approccio globale che persegua come obiettivo la valutazione dei riflessi delle eventuali decisioni in termini di avanzamento o di arretramento di civiltà.

Al di là dell'eutanasia: la ricerca di prospettive più ampie

La domanda di eutanasia ha assunto ai nostri giorni proporzioni assai vaste anche a causa di una serie di fattori di ordine culturale e strutturale, che hanno concorso ad accentuare gli stati di sofferenza di soggetti che vivono in condizioni di particolare difficoltà. La possibilità di limitare tale domanda, sempre in ogni caso gravosa, è legata pertanto alla creazione di condizioni che consentano la fuoriuscita da tale distretta, favorendo la promozione di situazioni qualitativamente accettabili.
A) Un posto di primo piano in questa rassegna di condizioni va anzitutto ascritto alla rivisitazione, in chiave antropologica, di categorie come vita, morte, sofferenza eccetera nei loro risvolti esistenziali. Grande importanza riveste anzitutto l'abbandono di una concezione riduttiva della vita umana, identificata con il semplice dato biologico, per fare propria - come già si è ricordato - una concezione che privilegia l'aspetto personale e relazionale, e dunque la dimensione qualitativa. La Bibbia, quando parla di vita lo fa sempre in rapporto alla positività dell'esistere, avendo di mira un'esistenza carica di senso. La morte è, al contrario, considerata come carenza e indigenza, come il venir meno di ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Da questo deriva, da un lato, l'esigenza di eliminare tutte quelle tracce di ammanco di vita, che accompagnano spesso la condizione di malattia e ne rendono più faticosa la sopportazione; e, dall'altro, di aiutare il paziente a riconciliarsi con la propria finitezza e a fare proprio uno stile di vita sapienziale, che consente di affrontare meno tragicamente il dramma del morire. Si tratta di offrire a chi soffre la possibilità di uscire dall'isolamento che spinge alla disperazione, e di sperimentare la compagnia, silenziosa ma amorevole, di chi dona conforto e promessa di futuro.
B) Un ulteriore importante ruolo esercitano poi - è questo il secondo ordine di condizioni - le cure palliative, che forniscono prestazioni proporzionate alla situazione del malato ed evitano inutili forzature dovute a pretese miracolistiche del tutto irrazionali. La domanda eutanasica è infatti spesso dettata o dal timore di incorrere nell'accanimento terapeutico, dove al prolungamento artificiale della vita si associa la sua dequalificazione umana; o, inversamente, di venire abbandonati, soprattutto nella fase terminale (qualcuno per questo ha coniato il termine «eutanasia da abbandono»). Il riconoscimento che non esistono malati «incurabili» e che la cura deve pertanto essere garantita a tutti, anche a coloro che sono considerati clinicamente «inguaribili» rende necessaria la creazione di strategie terapeutiche, che garantiscano standard di vita qualitativamente buoni o almeno accettabili. Le cure palliative sono funzionali a questo scopo; esse si ispirano infatti al paradigma della medicina «olistica», preoccupata non solo di curare la parte malata, ma di «prendersi cura» in modo globale del paziente e dell'ambiente in cui vive, con l'obiettivo di rendergli meno insopportabili le ore di vita che gli rimangono e meno traumatico l'avvicinamento alla morte. La via da percorrere per perseguire gli scopi qui proposti non è facile, e non risolve, in ogni caso in termini radicali, l'esigenza del ricorso all'eutanasia, che rimane, in alcune condizioni estreme, una questione aperta. Ma lo sviluppo di una nuova sensibilità sociale e culturale, che vinca le resistenze dell'individualismo e si faccia carico della qualità della vita di coloro che attraversano condizioni di particolare precarietà, è un'istanza inderogabile. La capacità di portare un aiuto reale a chi soffre nelle diverse situazioni esistenziali in cui si trova è opera di alto significato umano e segno di vera crescita civile.

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