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Il Cristo vivente, siamo noi


di Raymond Gravel

in “www.lesreflexionsderaymondgravel.org” del 6 aprile 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)

 
I brani del vangelo del tempo pasquale sono tradizionalmente tratti da Giovanni. Con la scoperta della tomba vuota da parte di Maria Maddalena la mattina di Pasqua, di Pietro e del discepolo che Gesù amava, il giorno stesso, la sera di Pasqua, san Giovanni ci racconta l'apparizione del Risorto ai discepoli rinchiusi nella paura, ma riuniti, per affidare loro la missione di liberare la gente: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23). Poiché i verbi sono al passivo, significa che è Dio che libera, ma allo stesso tempo ha bisogno di noi per farlo. È una grande responsabilità, non riservata solo agli Undici, dato che tutti i discepoli riuniti ricevono questa missione. Ma perché questo racconto pasquale? Quali messaggi ci trasmette?

1. L'importanza dell'essere insieme. Ciò che san Giovanni vuole dirci prima di tutto, è che la fede non si vive da soli. “Poiché là dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono con loro” (Mt 18,20). Perché? Semplicemente perché per incontrare Cristo, dobbiamo incontrare l'altro, gli altri, che ci dicono la presenza del Risorto. È nell'altro, negli altri, che possiamo riconoscerlo. A riprova, san Giovanni ci dice che, nel primo incontro, la sera di Pasqua, Tommaso non era con gli altri: “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo (che significa gemello), non era con loro quando venne Gesù” (Gv 20,24). Tommaso, il gemello, precisa l'evangelista, il nostro gemello... Ci rappresenta bene, perché neanche noi eravamo presenti al primo appuntamento. Gli altri discepoli hanno un bel dirgli: “Abbiamo visto il Signore!” (Gv 20,25a): non dicono Gesù, dicono proprio il Signore, quindi il Risorto. Assente a questo primo incontro, Tommaso esige delle prove: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20,25b). Non è forse il nostro atteggiamento ancora oggi, nei confronti della fede cristiana? Ci allontaniasmo dagli altri e facciamo la nostra piccola ricerca personale del Risorto. Questo ci fa andare in due direzioni diverse e contrarie allo stesso tempo:

prima direzione: si diventa atei, perché ci si dice: “Sono tutte scemenze. Se Cristo fosse davvero risorto, il mondo non sarebbe quello che è: le guerre, i conflitti, le carestie, le epidemie, gli assassinii, lo sfruttamento dei deboli, le esclusioni, le condanne, le malattie, le sofferenze, la morte... tutto questo non esisterebbe più; invece, tutto continua come prima. Se Cristo fosse veramente risorto e Pasqua fosse l'inizio di un mondo nuovo, questo si vedrebbe. Invece tutto è come prima...”

seconda direzione: si diventa illuminati; si ha il proprio Cristo tutto per sé. Ci appartiene, lo sappiamo, noi, che lo abbiamo incontrato personalmente... e diventiamo addirittura dei guru per gli altri. Quante sette religiose sono state fondate in questo modo, da degli illuminati? Allora, san Giovanni continua: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!» (Gv 20,26). In fondo, anche se la comunità è riunita, è chiusa su se stessa, nella paura (le porte chiuse a chiave), Cristo si rende presente nella riunione, e lì Tommaso ne fa l'esperienza. Ma in che modo?

2. La croce: segno di resurrezione. Ciò che Giovanni vuole dirci, è che non si può separare il Risorto dal Crocifisso: è la stessa persona. Ciò significa che non si può vivere Pasqua senza prima passare dal Venerdì Santo, e questo è vero per tutti. All'epoca in cui san Giovanni scrive il suo vangelo (fine del 1° secolo), ci sono le persecuzioni sanguinose dei cristiani, il rifiuto, l'umiliazione, l'esclusione, l'odio, le divisioni, ecc.... Fa parte della realtà della sua comunità. Quindi è attraverso i discepoli perseguitati, rifiutati ed esclusi, che Tommaso incontrerà e riconoscerà il Crocifisso resuscitato. Attraverso i discepoli, uomini e donne, Tommaso si rende conto che i segni della passione e della croce non sono cancellati dalla luce di Pasqua. Diventano perfino segni di resurrezione.

Del resto nel contesto storico che è il nostro, non ci sono forse le stesse persecuzioni come tra i cristiani di Giovanni, ma la malattia, la sofferenza, le prove, l'esclusione, il rifiuto e la morte fanno sempre parte della nostra realtà umana. Pasqua non li ha cancellati. Ci si può rifiutare di credere: ciò non toglie nulla alla nostra finitezza umana! Ma riduce la speranza! Per questo la fede non può essere una certezza, perché la fede non cambia niente della nostra realtà umana con i suoi limiti, le sue fragilità e le sue povertà. La fede può solo essere una speranza... Ma che speranza! Poiché fa della croce un segno di resurrezione, un passaggio (Pasqua) di liberazione: dalla morte sorge la vita.

San Giovanni aggiunge: “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31).

3. Il Cristo vivente, siamo noi. Ricordiamo il messaggio che le donne hanno ricevuto alla tomba la mattina di Pasqua: “Perché cercate il Vivente tra i morti?” (Lc 24,5). Se è vivente, come lo è? Può esserlo solo attraverso i suoi discepoli. Non per niente, la sera di Pasqua, i discepoli riuniti sono stati ricreati, come il primo giorno della creazione, da Cristo, con il suo soffio, il suo Spirito: “Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»” (Gv 20,22). Sono diventati lui, il Risorto, e ormai è attraverso di loro che lui può parlare e agire: sono il suo corpo: “Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,11-13).

Nella prima lettura di oggi, negli Atti degli Apostoli, l'autore, san Luca, ci dice chiaramente che all'inizio della Chiesa, Cristo agiva veramente tramite alcuni apostoli: “portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro” (At 5,15). Immaginate la forza e la potenza dei cristiani: l'ombra proiettata al suolo dai discepoli è sufficiente per guarire qualcuno. Ce l'abbiamo noi, oggi, questa convinzione? Eppure, è la missione che è affidata non solo al Papa, ai vescovi e ai preti, ma a tutti i cristiani che pongono la loro speranza nel Cristo di Pasqua.

Terminando vorrei condividere con voi questa bella riflessione dell'esegeta francese F. Tricard che rispondeva alla seguente domanda: “Ci sono prove della Resurrezione?” Tricard scrive: “C'è solo una realtà storicamente constatabile: una comunità di discepoli si forma dopo la morte di Gesù e va ad annunciare ad un mondo sempre più esteso e lontano la notizia sorprendente: quell'uomo di Nazareth, Dio lo ha resuscitato e fatto Signore e Cristo. Non c'è altra prova che questa comunità degli inizi che vive, di lui e tramite lui, in maniera nuova, e che è cresciuta come l'albero che germoglia da un granello di senape, secondo la parabola del Maestro. Ancor oggi, la prova migliore, per quanto povera possa essere, sono i cristiani”.

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