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Cittadini di fatto e cittadini di diritto….se non ora quando?

di Flavia Modica

Di recente, in un’intervista a Radio 24, il Ministro per l’Integrazione Kyenge è tornata sul tema della cittadinanza agli stranieri residenti in Italia, in particolare definendo in modo più dettagliato il concetto di ius soli a cui aveva fatto riferimento nelle prime dichiarazioni in materia, poco dopo la sua nomina al Ministero. Le suddette dichiarazioni avevano suscitato, e continuano a suscitare tutt’ora, un acceso dibattito sul tema, che non sempre purtroppo ha mantenuto toni adeguati ad un dibattito politico. «Come ministro ho posto un problema non per imporre un modello, ma con l'obiettivo di suscitare un dibattito nel Paese per adattare la normativa alla realtà italiana di oggi».  La Kyenge ha avuto senz’altro il merito di riaccendere i riflettori su un problema estremamente attuale, ma che fatica a trovare interlocutori seri e costanti nei nostri esponenti politici e al quale non è ancora stata data una risposta.


Prima di inoltrarsi in questa breve riflessione è bene snocciolare qualche cifra che consenta di avere contezza delle dimensioni del fenomeno migratorio in Italia, sulla base del presupposto che una riflessione adeguata non possa che prendere le mosse da una visione consapevole della realtà in cui viviamo. All’inizio del 2011 i cittadini stranieri residenti in Italia hanno superato i 4 milioni e mezzo (4.570.317), con un’incidenza sul totale della popolazione (60.626.442) del 7,5% . Rispetto all’anno precedente il loro numero è aumentato di oltre 330 mila unità (335.258)[1]. Se nei prossimi anni il ritmo di crescita della popolazione straniera continuerà a mantenere i medesimi ritmi, come è probabile che sia, è agevole prevedere la forte capacità espansiva del fenomeno in breve termine.

La realtà italiana odierna è quella di una società composita, pluralista, che racchiude al suo interno diverse identità nazionali e numerose etnie. Una tale composizione non può che portare, se non si vuole correre il rischio di essere anacronistici e rimanere ancorati a categorie del passato, ad una nuova riflessione sui concetti di “nazione” e “cittadinanza”. Diversamente da quanto accadeva agli inizi del ‘900, oggi non è più pensabile l’identificazione tra stato e nazione, tra popolazione e nazionalità. In particolare nel mondo occidentale questa equazione è indubbiamente entrata in crisi. L’Europa si è in pochi decenni trasformata in un continente multietnico e cosmopolita. Il nostro Paese da terra di migranti è, in breve tempo, diventato terra d’immigrazione. Un cambiamento così celere non ha trovato un’altrettanta celere ridefinizione delle categorie sociali, culturali e giuridiche che regolano i rapporti tra uno Stato e le persone che risiedono sul suo territorio.

Appare necessario interrogarsi, a 150 anni dall’unità d’Italia, sui concetti di identità nazionale e cittadinanza se non si vuole ridurre la prima ad un’astratta dimensione astorica, distante dalle concrete vicende umane, dai processi e dalle trasformazioni in corso. Una riflessione del genere appare tanto più urgente quanto più ci si rende conto della grossa componente “straniera” che fa ormai parte integrante della società italiana, oltre che europea.

A fronte di questa situazione occorre pensare ad una soluzione in grado di rispondere in modo adeguato ad una questione non più rimandabile. L’attuale sistema normativo, che ha nella Legge del 5 febbraio 1992, n.91 il suo cardine, fa dello ius sanguinis il criterio principe per l’acquisto della cittadinanza, in base al quale la discendenza da cittadini rappresenta la strada principale per acquistare lo status di cittadino. Lo ius soli è limitato a particolari categorie di soggetti, quali apolidi e rifugiati politici. Mentre per gli stranieri residenti in Italia la strada principale per l’acquisto della cittadinanza è dato dal procedimento di naturalizzazione, che richiede la residenza continuata e ininterrotta sul territorio italiano da 10 anni, accompagnata da una serie di altri requisiti richiesti dalla legge. Al termine del suddetto periodo si avvia un procedimento amministrativo discrezionale che non necessariamente si concluderà con esito positivo dello stesso, con il risultato che anche dopo un periodo così ampio il richiedente non ha certezza circa l’esito della sua richiesta, essendo la procedura ispirata a criteri scarsamente determinati e poco trasparenti. Inoltre si lega a quanto fin qui detto la problematica delle c.d. “seconde generazioni” che ricomprendono i figli di cittadini stranieri, nati e cresciuti in Italia, cittadini di fatto, ma stranieri per il diritto. Per questa categoria di soggetti la cittadinanza italiana è acquistabile solo dopo il 18° anno di età, precludendo loro un riconoscimento che risulta ancora più fondamentale in un età in cui i segni rivestono una particolare importanza.

La disciplina in materia di cittadinanza fa dunque perno su un assetto normativo che risale ormai a più di vent’anni fa, quando ancora il fenomeno migratorio in Italia aveva dimensioni irrisorie rispetto a quelle attuali. Una modificazione delle realtà demografica richiede necessariamente un ripensamento dell’attuale normativa.  Diverse sono le proposte che hanno costituito oggetto di disegni di legge depositati, ormai da tempi immemori, presso la Camera dei deputati. La proposta di uno ius soli puro, avanzata dai più temerari, non appare come la soluzione più adeguata nell’odierno contesto internazionale, caratterizzato da flussi migratori molto intensi. Appare invece più realistica ed equilibrata una proposta che impronti l’attribuzione della cittadinanza al criterio dello ius domicili, che valorizza la residenza sul territorio dello straniero, unita o meno alla nascita nel territorio dello Stato, e il suo sforzo d’integrazione nella società italiana tramite un’attivazione in tal senso del soggetto, in un’ottica non meramente concessoria della cittadinanza, ma attiva che fa del richiedente il principale fautore e protagonista. In quest’ottica il procedimento di naturalizzazione dovrebbe perdere quei caratteri di discrezionalità che attualmente lo caratterizzano, per tradursi in un procedimento attributivo di uno status al soggetto che, oltre ad aver maturato i requisiti residenziali, dei quali si auspica una diminuzione a fronte del lungo periodo attualmente richiesto, dimostri di essere protagonista di un percorso personale di integrazione con la realtà locale e nazionale. Per quanto riguarda la categoria dei minori stranieri, in continuo aumento, che costituiscono indubbiamente i cittadini del domani, si dovrebbe optare per un modello che valorizzi la residenza dei genitori o la frequenza di un intero ciclo di studi da parte del minore. In tal modo si mitigherebbe il principio dello ius soli, la cui applicazione allo stato puro potrebbe comportare, come si diceva prima, problemi notevoli di controllo delle frontiere e di contenimento dei flussi migratori. Il legare questo principio ad un requisito di residenza dei genitori, o al completamento di un ciclo scolastico, richiede invece, accanto alla nascita in Italia, una prova dell’esistenza di un rapporto stabile e di un legame effettivo tra il nucleo familiare e lo Stato. Questo eviterebbe di attribuire la cittadinanza a soggetti che non abbiano alcun legame con il territorio e la società italiana.

Il ripensamento dell’attuale normativa appare come uno passo fondamentale da compiere per un rinnovo delle attuali politiche d’immigrazione. Un Paese come il nostro non può continuare a sminuire la portata del fenomeno migratorio o a tamponare il problema con misure emergenziali. Occorre un quadro normativo solido, che non faccia della sicurezza l’unico o il principale problema legato all’immigrazione, ma che abbia quale scopo principale quello di favorire, in presenza di determinate condizioni, l’inclusione sociale dello straniero legalmente presente sul territorio italiano e che qui abbia intenzione di risiedere stabilmente anche in futuro. Questo cambiamento implica una scelta politica di fondo: bisogna credere che la presenza straniera in Italia  costituisca una sfida positiva per il nostro Paese. Il valore aggiunto apportato da questi uomini, donne e bambini che scelgono l’Italia come loro Paese potrà essere percepito solo nel momento in cui si metteranno queste persone nelle condizioni di esprimere al meglio le loro capacità e potenzialità, fornendo loro gli strumenti per farlo, su un piano di parità ed eguaglianza rispetto ai cittadini per nascita.



[1] Dossier Statistico Immigrazione 2012, 22° Rapporto Caritas/Migrantes.

Commenti

Raffaele Savigni ha detto…
Concedere la cittadinanza a 18 anni, quando si acquisisce il diritto di voto, non mi sembra penalizzante... Credo che l'importante sia concedere la possibilità di integrarsi e di diventare cittadini a pieno titolo a quelli che vogliono farlo, accettando un percorso che preveda l'assimilazione dei principi della nostra carta costituzionale.

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