di Gerolamo Fazzini
Ho in mano l'ultimo numero di "Vanity Fair", che ha
eletto Papa Francesco «uomo dell'anno». Il settimanale dedica al Pontefice la
copertina col titolo «Francesco papa coraggio», riprendendo il j'accuse per le
morti dimenticate dei migranti lanciato durante la visita a
Lampedusa. Secondo "Vanity
Fair", i primi cento giorni di Bergoglio «lo hanno già messo
in testa alla classifica dei leader mondiali che fanno la storia. Ma la
rivoluzione continua».
Scherzando, ma non troppo, con una collega si commentava:
«Dobbiamo rallegrarci o preoccuparci?». In altre parole, la domanda potrebbe
suonare così: quanto, dell'apprezzamento per il Papa venuto dalla fine del
mondo, è autentico e quanto, invece, frutto di un sentimentalismo effimero o,
peggio, di opportunismo?
Che il consenso raccolto da Papa Bergoglio sia - come su usa dire - "trasversale" è sotto gli occhi di tutti. Ed è certo un dato positivo il fatto che anche in ambiente laico si guardi al Papa con simpatia autentica. E poi: chi siamo noi per giudicare gli altri? Il Vangelo ci ricorda che a Giovanni sconcertato per le "aperture" eccessive del Maestro («Abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri»), Gesù replica seccamente : «Chi non è contro di noi è per noi».
Detto questo, non credo di esagerare affermando che si sta
diffondendo una certa "papolatria", contro la quale il primo ad
essere vigile è il diretto interessato. È notizia di questi giorni che la
statua a grandezza naturale di Papa Francesco installata nei pressi della
cattedrale di Buenos Aires non è piaciuta per nulla a Bergoglio. Il quale, per
fugare sul nascere qualsiasi sospetto di "culto della persona", ha
telefonato personalmente chiedendo che la statua venga rimossa.
Coincidenza o meno, proprio oggi leggevo un passo di un
interessante libretto appena uscito, dal titolo "Ero Bergoglio, sono Francesco".
È un volumetto (Marsilio, 111 pagine) scritto da un giovane, promettente
collaboratore dell'Osservatore Romano, Cristian Martini Grimaldi, il quale si è
fiondato in Argentina appena poche ore dopo la fumata bianca che ha salutato
Bergoglio Papa. Il passo in questione è ripreso da un'intervista a tal padre
Tomas, prete diocesano che ha lavorato con il futuro pontefice quando questi
era vescovo di Buenos Aires. Dice così, a proposito del consenso universale
raccolto da Bergoglio: «Abbiamo tutti accolto questo papa come la folla accolse
Gesù all'entrata a Gerusalemme: con grida di gioia, osannandolo; insomma,
un'entrata trionfale, ma poi, nel momento più duro, quando era sulla croce, non
c'era nessuno». Una premonizione?, azzarda il giornalista. «Spero di
sbagliarmi», risponde padre Tomas.
Spero anch'io di sbagliarmi, di fare la parte del grillo parlante
nel buttar lì queste osservazioni. Ma non posso non interrogarmi sulla distanza
che permane tra gli applausi al Papa che chiede povertà, umiltà e conversione e
i comportamenti concreti, dentro e fuori la Chiesa (e, mentre lo dico, penso,
vergognandomi un po', a quel che succede in casa mia).
Non so voi. Io comincio a credere che sia venuto un tempo in cui i
battimano lascino il posto alle maniche arrotolate.
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