di don Severino Dianich
da www.dimensionesperanza.it
Nella
missione si è convinti di avere con la fede una grande ricchezza di vita e si
vuole che anche gli altri possano condividerla. La forma visibile della vita
dei cristiani è parte essenziale dell’atto comunicativo del Vangelo.
Fra
gli innumerevoli atti che compongono la missione, ce n'è uno dal quale dipende
radicalmente l'esistenza della Chiesa: la comunicazione della fede a chi non
crede in Cristo. È quello che il Nuovo Testamento chiama l'euanghélion.
La
Chiesa si è perpetuata lungo la storia solo perché ci sono stati credenti che
hanno comunicato ad altri la loro fede, da una generazione all'altra e andando
da una parte all'altra della terra. Il fatto risulta appariscente e assume una
particolare rilevanza sociale e storica quando avviene in un popolo nel quale
mai è stato annunciato il Vangelo, che non ha nella sua compagine sociale
nemmeno una, oppure così poche comunità cristiane, per culla sua cultura e i
suoi costumi non sono influenzati dal Vangelo. In questi casi evangelizzare è
una grande impresa, che ha sempre molto impegnato le strutture della Chiesa.
La grande ricchezza della fede
Là
dove invece la fede si è ormai sedimentata sembra che questo evento non accada
più. Evidentemente questo è falso. Se l'attività della diffusione della fede
non è appariscente, è solo perché nei Paesi di antica tradizione cristiana la
comunicazione della fede non è opera delle istituzioni ecclesiastiche, né si
giova di alcuna forma organizzata: accade in seno alle famiglie cristiane, ha per
protagonisti i genitori e i parenti e per destinatari i bambini. Così in tutta
Europa, da almeno un millennio, la Chiesa ha provveduto quasi automaticamente a
prolungare la memoria di fede in Gesù e ad assicurare la propria sopravvivenza.
Ebbene, questo incantesimo è terminato: dalla grande Russia e dai Paesi
scandinavi, fino alle propaggini meridionali dell'Europa, non è più nella
stragrande maggioranza della popolazione che le famiglie comunicano ai figli la
fede in Cristo. Le cause del mutamento sono evidenti: l'immigrazione di cifre
imponenti di non cristiani, l'aumento di genitori che non si sono sposati in
chiesa, il non raro abbandono della fede da parte di donne e uomini battezzati
da bambini.
Da
qui l'urgenza di un ritorno alla ribalta, fuori dall'intimità delle famiglie,
del bisogno della comunicazione della fede fra persone adulte. Non perché la
Chiesa debba essere preoccupata di non perdere la sua preminenza religiosa,
culturale e politica nella società, che aveva nel passato. Fosse questa, più o
meno cosciente, la motivazione, si partirebbe con il piede sbagliato. Si
evangelizza per amore degli uomini, perché si è convinti di possedere con la
fede una grande ricchezza di vita e si desidera, per l'amore universale al
quale il Vangelo spinge il credente, che anche gli altri possano condividerla.
È
chiaro, però, ad ogni cristiano che egli non può comunicare la fede solo con le
parole. L'interlocutore deve poter vedere oltre che ascoltare: la forma
visibile della vita dei cristiani è parte essenziale dell'atto comunicativo del
Vangelo. Non si tratta, infatti, di comunicare un sapere oggettivamente
appreso, ben esposto e perfettamente argomentato, destinato all'apprendimento e
basta. I contenuti della fede e della testimonianza cristiana, infatti, diventano
manifesti al mondo solo nella forma con cui si presentano. Nella costruzione
delle relazioni interpersonali la forma non è un abbellimento gratuito
dell'atto comunicativo, ma lo costituisce essenzialmente, perché non si dà
alcun contenuto che risulti effettivamente comunicato, se non in quanto
rivestito di una sua determinata forma. Si volesse anche dire che la forma non
condiziona il contenuto in sé stesso, certamente lo condiziona nella sua
possibilità di essere comunicato. Si tratta di attrarre alla condivisione di
un'esperienza di vita, che ha coinvolto tutta la personalità del credente e non
solamente i suoi sentimenti e le sue intenzioni nascoste. Quindi ciò che si
vede fa parte della comunicazione e determina il rapporto fra chi parla e chi
ascolta. Qui la forma è sostanza.
La forma visibile della Chiesa
La
responsabilità della forma con cui l'euanghélion si mostra agli occhi
dell'interlocutore, inoltre, non può essere caricata esclusivamente sulle
spalle del singolo cristiano che evangelizza. Non possiamo immaginarcelo solo e
unico responsabile della forma che egli, attraverso ciò che gli altri vedono di
lui, dà al contenuto del messaggio che egli sta comunicando.
La
fede, infatti, che anima la sua vita interiore non ha origine nella sua
esperienza individuale, ma viene dalla Chiesa e viene comunicata per chiamare
l'altro a entrare nella Chiesa. Il credente, quindi, si guarda indietro nel
bisogno di sentirsi appoggiato dalla forma visibile della sua Chiesa. Egli,
inevitabilmente, s'interroga sulle sue manifestazioni pubbliche, dalle più
modeste a quelle osservate dal mondo intero sugli schermi televisivi,
domandandosi se stia sostenendo la credibilità della sua proposta. Il suo
interlocutore, non di rado, non ha alcuna esperienza della vita umile e modesta
delle comunità parrocchiali, non conosce la bella testimonianza evangelica dei
tanti cristiani che dedicano tutta la vita al servizio dei poveri e degli
emarginati. Egli vede solo sui giornali e alla televisione - dove appaiono solo
le sue più vistose manifestazioni pubbliche - cosa la Chiesa fa e dice.
Non
si può, quindi; ricollocare al centro della missione il compito
dell'evangelizzazione, senza interrogarsi costantemente sulla somiglianza con
quella di Gesù della forma con cui la Chiesa si mostra al mondo. Affrontare
seriamente questo problema significa avviare un coraggioso riesame degli
aspetti esteriori della sua vita. Non basta che sotto la forma ricca di
splendore dei suoi palazzi, dei paramenti liturgici, degli abbigliamenti dei
suoi rappresentanti, che le vengono dalla storia, vivano persone sante e
distaccate dai beni mondani. E’ vero che la fede risiede nella vita interiore
del credente, ma è anche vero che viene comunicata dalla forma visibile con cui
la Chiesa appare al mondo, la quale deve fare da specchio alla forma con cui
Gesù si è manifestato agli uomini.
Neanche
le forme della sua liturgia si possono sottrarre al problema. La loro
preziosità vuol suggerire ai fedeli la gloria di Dio da adorare, ma rischia di
provocare nei non credenti domande imbarazzanti: cosa c'entra tutto questo con
la nascita di Gesù nella stalla, con la sua vita povera, la sua ultima cena e
la sua morte in croce? Non per nulla il concilio Vaticano II vuole che «i riti
splendano per nobile semplicità» (SC 34). I Padri conciliari non hanno
dimenticato che tutto dipende «dal rinnovamento dell'animo, dall'abnegazione di
sé stessi e dal pieno esercizio della carità» (UR 7), ma allo stesso tempo
hanno riconosciuto che la Chiesa deve mettere mano a una «continua riforma di
cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR 6).
Qui
dovremmo riaprire quel dossier sulla povertà nella Chiesa, che era stato
elaborato durante la terza sessione del Concilio da un folto gruppo di vescovi.
Paolo VI nella Ecclesiam suam aveva invitato i vescovi a dire «come
debbano pastori e fedeli educare oggi alla povertà il linguaggio e la condotta»
(II, 56).
Nel
rapporto che poi il gruppo consegnò al Papa, corredato dalla firma di più di
cinquecento vescovi, si deplorava che nella Chiesa non si fosse in grado di
assumere posizioni mature sulla pratica della povertà evangelica: «Ciò è
doloroso quanto sintomatico. Indica in quale misura il nostro pensiero, il
nostro costume, le nostre istituzioni, tutto l'ambiente e la civiltà che pur si
dice ispirata al cristianesimo, si sia per secoli e secoli allontanata dallo
spirito evangelico e si sia consolidata e strutturata in forme concettuali e in
modi di vita, che oggi costituiscono un grave ostacolo ad ogni tentativo di
ritrovamento del senso cristiano della povertà» ("Appunti sul tema della
povertà nella Chiesa. Rapporto al Papa", in Lercaro G., Per la forza
dello Spirito: discorsi conciliari, Edb 1984, pp. 157-170). Se allora,
guardando all'enorme massa dei poveri del mondo, essi dicevano: «Ormai versiamo
in uno stato di necessità», oggi dobbiamo dire la stessa cosa anche guardando i
tanti cristiani battezzati che abbandonano la fede.
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