Questa sera vorrei fare un discorso serio sulla lettura della
sessualità, visto che il tema è quello della fecondazione assistita. Qui si vedrà come
l’esperienza umana - in senso lato - compresa quella scientifica, ma anche quella
esistenziale degli esseri umani, ha portato ad un cambiamento radicale del modo di
comprendere la sessualità, la vita di coppia e il matrimonio.
Tutto questo è successo a cavallo tra la fine del 1800 e la prima
metà del 1900: purtroppo gran parte di tutta la precettistica morale - sia cristiana che
civile - non ha ancora capito questa transizione che già c’è stata. Per almeno
millecinquecento anni - diciamo dal trecento-quattrocento dopo Cristo, fino alla metà del
1800 - si è visto il sesso come apparato funzionale alla riproduzione e tutto quello che
non era funzionale alla riproduzione era semplicemente male, disordine contro la legge
naturale, la quale vuole che tutto l’apparato sessuale serva alla riproduzione per
cui quando non serve a questo si va contro la natura.
Tutto ciò è rimasto ancora nei nostri manuali di morale e l’idea
di legare il puro fatto fisico del rapporto sessuale alla sua finalità procreativa,
c’è sempre: in fondo solo nel 1983 è cambiato il Codice di Diritto Canonico, ma
fino ad allora esso recitava che il fine primario del matrimonio è la riproduzione e
l’educazione della prole, mentre il fine secondario è il mutuo aiuto e il rimedio
alla concupiscenza, espressione importante che mostra come, se si fa l’amore senza
l’intenzione di procreare, non è cosa bella ma è solo un rimedio alla
concupiscenza.
Quindi il sesso era visto come cosa di cui non si doveva parlare e che
era giustificato solo dal fatto che serviva a mettere al mondo figli. Un’idea questa
ancora dominante in tutta la morale cristiana, però dalla metà dell’800 in poi si
è cominciato a percepire qualcosa di diverso (e il merito va in buona parte a Freud) e
cioè che tutto quello che è la sfera della sessualità fa parte della persona e che la
vita sessuale non è altro che una delle forme in cui la totalità della persona - con
tutta la sua base psicologica, la sua sensibilità - è coinvolta.
Quindi il sesso non risiede (e questo la medicina lo ha insegnato)
laddove di solito si pensa, ma è tutto nel cervello e quindi è connesso con tutta una
serie di memorie, sensazioni e riflessioni e pertanto è un modo di esprimere se stessi.
Questo già lo sapevano Socrate e Platone e nel dialogo con i loro
discepoli sapevano che questi erano in gran parte omosessuali ma vedevano in questo la
possibilità di un arricchimento spirituale.
Questa lettura della sessualità, che comincia a riemergere verso la
fine dell’800 è fondamentale perché capovolge tutto: la vita sessuale è un modo di
esprimere se stessi, coinvolge tutta intera la personalità non solo gli organi destinati
alla riproduzione e questa è una esperienza di base nel mondo cristiano: già nella prima
metà del 1900 cominciano ad emergere movimenti di spiritualità familiare. Il concetto di
fidanzamento, per esempio, è recentissimo, fino al 1900 i fidanzati erano tali perché i
genitori sceglievano di comune accordo il partner per i propri figli e questo succedeva in
special modo nel mondo contadino che rappresentava l’ottantacinque per cento degli
italiani.
Invece l’idea di un fidanzamento come periodo di conoscenza
reciproca prima del matrimonio è del nostro secolo: nasce dunque qualcosa di nuovo anche
nella spiritualità cristiana: nel 1956 Carlo Carretto, giovane dirigente di Azione
Cattolica, scrisse un libretto dal titolo "Famiglia piccola chiesa". Non
l’avesse mai fatto! Tutti i preti se la presero con lui, dicendo che era una
vergogna: paragonare la vita familiare con tutte le cosacce che avvengono tra marito e
moglie, come una piccola chiesa era una cosa del tutto improponibile.
Carretto fu estromesso dall’Azione Cattolica, si ritirò nel
deserto a far vita da eremita e divenne seguace di Charles De Foucauld. Oggi
"famiglia piccola chiesa" è cosa normale, anche per la Chiesa stessa, che
cinquant’anni fa perseguitò chi ebbe questa idea profetica.
Questo cambiamento, non solo del mondo laico cristiano, ma di tutto il
mondo occidentale-europeo, si è specificato meglio - attraverso studi psicologici e
culturali - in maniera lenta e graduale ed è approdato a una specie di rivoluzione che
prese due direzioni diverse entrambe marxiste, l’una della famosa rivoluzione
sessuale, l’altra della lettura della vita sessuale all’interno del contesto
sociale in cui una persona vive.
La prima dice che nel sesso dobbiamo cercare la massimizzazione e la
gratificazione personale, quindi il partner non c’entra, importante è l’orgasmo
personale; l’altra tesi di Marcuse, scuola di Francoforte, dice che il rapporto
sessuale esprime quello che la società ha insegnato e fa vedere nell’altro non un
partner ma uno strumento: questo viene criticato dagli studiosi, perché la vera
liberazione sessuale non consiste nel fare l’amore con chi ci pare e quando capita,
ma consiste nel poter liberare l’amore dal vincolo che il mondo sociale in cui si
vive impone.
Marcuse nel suo libro "Eros e civiltà" del 1954, dice che
non si può dare valore all’altro in quanto rende un servizio, ma dice che bisogna
volare più alto; anche Karl Marx aveva pensato a questo, pur non avendolo messo in
pratica: la liberazione della donna diventa schiavitù perché essa era lo strumento di
riproduzione delle forze del marito, sia come riproduzione materiale della prole (forza
lavoro) sia come riposo del guerriero. Marx voleva liberare la donna dalla sua funzione di
serva del marito, che aveva bisogno di lei per essere poi sottoposto alla fabbrica nella
prima industrializzazione.
La comprensione della sessualità come qualcosa di importante nella
relazione tra esseri umani è nata forse addirittura fuori dal mondo cristiano, un mondo
rimasto legato alla lettura tradizionale della sessualità come funzione esclusivamente
riproduttiva: non è peccato che due siano sposati ma non è neanche una gran bella cosa e
tutta la spiritualità - fino a oggi - è legata all’idea che la verginità è uno
stato di perfezione superiore al matrimonio, tanto è vero che tutti gli ordini religiosi
fanno il voto di castità, mentre il prete fa solo una promessa in tal senso.
Oggi questo è completamente caduto, anche i documenti ufficiali dicono
che non c’è maggiore o minore perfezione, quindi tutto può essere perfetto; ecco
allora che anche la chiesa con il Concilio Vaticano II° ha ufficialmente assunto questa
idea in maniera molto bella e con una profonda rivoluzione nel modo di pensare, perché il
sesso viene visto come una capacità di comunicazione e di espressione di dono etico.
Cito il Concilio: "Nel rapporto sessuale si esprime e si
arricchisce il mutuo dono tra due persone". Qui è cambiato completamente lo schema
di valutazione morale della sessualità; questa frase del Concilio è fondamentale,
infatti il matrimonio viene definito dal Concilio, ma anche dall’attuale Codice di
Diritto Canonico "comunità di vita e di amore in cui davvero - secondo la Scrittura
- sono due in una sola carne".
Teniamo presente che nella Bibbia "una sola carne" ha una
valenza sessuale precisa, specifica, quindi la base etica di valutazione non è se si è
usata la sessualità con finalità procreativa o no, ma che sia davvero una occasione di
arricchimento del dono reciproco e, in questo quadro, si deve ricomprendere la
sessualità, non più subordinata alla procreazione: è dalla coppia costituita in un
contesto di dono e amore reciproco, di carità, di affetto, che è affidato il compito di
procreare. Sono dunque due valori che vanno insieme, il valore unitivo e il valore
procreativo.
Da tutto questo nasce un problema, quello di mantenere una vita
sessuale anche quando non si devono avere figli. E’ il problema della contraccezione
e il Concilio dice chiaramente che non è affatto vero che sempre si debba lasciare che vi
sia un concepimento: i coniugi devono decidere se conviene o no procreare, perché vi sono
già troppi figli oppure ciò potrebbe rappresentare un rischio per la donna o per la
società. La coppia deve allora essere "come interprete della volontà di un Dio che
crea per amore": cercare di avere rapporti sessuali senza procreazione non è niente
di male, anzi certe volte può essere doveroso. Quali poi devono essere i metodi per
mantenere una buona vita di coppia anche quando si debba non procreare, diventa problema
secondario che, comunque, il Concilio rimanda - nella loro valutazione morale - a delle
Commissioni.
Quanto detto rappresenta un salto qualitativo straordinario,
insospettabile fino a pochi decenni fa, che nasceva da filosofie ed esperienze
scientifiche, che già maturavano e che la Chiesa ha accolto accorgendosi che erano cose
giuste, tanto da proclamarlo solennemente nei numeri 47 e 51 della "Gaudium et
spes".
Ci sono situazioni in cui è doveroso mantenere una vita sessuale
evitando la procreazione e ve ne sono altre in cui non si può procreare, per sterilità o
altro, quindi con la necessità di procreare senza passare attraverso rapporti sessuali
diretti.
Qualche via di soluzione alla sterilità della coppia cominciò negli
anni della seconda guerra mondiale (1944) quando i soldati americani dovevano stare nel
Pacifico almeno due anni prima di tornare a casa: cominciarono allora a depositare -
congelandolo - il loro sperma, in maniera che potesse essere conservato e poi usato anche
in loro assenza, tanto che la moglie, in caso di morte del marito, poteva avere un figlio
dal marito defunto.
Questa è quella che si dice "inseminazione artificiale" con
immissione dello sperma nel canale femminile che poi arriva all’utero, in maniera da
essere fecondato con l’ovulo della donna.
Ci furono grandi discussioni, ma la cosa ormai è un po’ vecchia,
perché oggi vi sono altre possibilità, di cui la più importante è la fecondazione in
vitro.
Entrambe le tecniche (inseminazione artificiale e fecondazione in
vitro) hanno in comune un problema morale, quello dell’alternativa omologo-
eterologo: io posso fare entrambe le operazioni con il seme del marito oppure con il seme
di un donatore. Ipotizziamo che il marito soffra di nematospermia (i suoi spermatozoi non
sono attivi) e quindi non può procreare; si può allora cercare un donatore e, nel caso
di fecondazione in vitro, anche una donatrice di ovuli che si prestino a rendere possibile
la procreazione. Tenete conto che sto descrivendo solo una possibile tecnica, di livelli
morali parlerò più avanti.
La fecondazione in vitro avviene in questo modo: si ha uno stimolo
ormonale dell’ovaia in maniera che faccia maturare molti follicoli, ovvero molti
ovuli fecondabili e, al momento opportuno - con una tecnica chirurgica minima o
addirittura in laparoscopia - si possono prelevare gli ovuli maturi dall’ovaia
(aspirandoli), metterli in provetta e "presentarli" allo spermatozoo: in questo
modo nascono diversi embrioni che verranno introdotti e si annideranno nell’utero,
dopo che si saranno sviluppati in provetta fino a due-quattro-otto cellule in due giorni.
E’ raro che un embrione si annidi subito nell’utero, si
preferisce introdurne diversi sperando che qualcuno si anniderà: se questo succede con
più embrioni si avranno gravidanze plurigemellari.
Oggi si è sospesa questa tecnica anche perché il prelievo
dell’ovulo da fecondare è sempre un trauma per la donna in quanto si tratta di una
operazione, seppur piccola, e se le cose non funzionano una prima volta, bisogna ritentare
ricominciando tutto daccapo.
Nel frattempo l’embrione va congelato, altrimenti continuerà a
svilupparsi in provetta fino a diventare inservibile. Ci si è però accorti che usando
embrioni congelati, il risultato è spesso abnorme, nascono cioè bambini non normali e
tutto questo crea problemi rilevanti: si producono embrioni che poi non vengono usati, che
se ne fa? Vanno distrutti? Vanno usati per sperimentare?
Da circa due anni si tenta un’altra strada con una tecnica che
consiste nel prendere un ovulo, bucarlo e inserirlo in provetta dove si trova un solo
spermatozoo e - a fecondazione avvenuta - depositarlo nell’utero dove si anniderà.
Questa tecnica può essere molto utile nel caso di oligospermia
dell’uomo, quando cioè gli spermatozoi sono pochi e molto deboli, incapaci di
penetrare la parete dell’ovulo. Gli studi su questa tecnica in uso da circa tre anni
ci dicono che qualche piccolissima malformazione può essere presente nei neonati, però
non è sicuro che ciò si debba attribuire alla tecnica di cui sopra.
In questo contesto si presentano problemi morali molto gravi: la
posizione di base della Chiesa - anche recente - è sempre negativa in assoluto, così
come è negativa sulla inseminazione artificiale, perché (dicono i vari documenti) il
bambino deve nascere da uno spontaneo rapporto sessuale. Questo è vero, ma fino a un
certo punto, perché - in primo luogo - i preti non si rendono conto che difficilmente due
coniugi giovani, che si presume abbiano una vita sessuale molto attiva, possono dire che
il loro bambino è stato concepito il tal giorno, nella tale ora, durante un rapporto
piuttosto che in un altro. Un bambino nasce dalla vita sessuale della coppia nella sua
integrità, quindi l’obiezione che non è naturale far nascere un bambino se non da
un rapporto completo tra coniugi è debole, ma per la chiesa questo è purtroppo (a mio
parere) il punto in cui è ferma tutta la dottrina morale nella Chiesa Cattolica.
Io credo che la riflessione umana debba approfondire questi temi che
coinvolgono la vita delle persone: pensate ai sacrifici, non solo economici, che una
coppia deve fare per poter accedere alla fecondazione in vitro, sono costi in fatica,
attenzione, prove e riprove, delusioni e quant’altro. D’altra parte ci sono
situazioni nelle quali non c’è altro modo di avere un bambino e l’indicazione
medica fondamentale è l’occlusione inoperabile delle tube, cioè l’occlusione
dei canali che portano l’ovulo dall’ovaio - dentro il quale matura - fino
all’imboccatura dell’utero: in questi casi l’ovulo non arriverà mai
all’utero, quindi non avrà mai contatto con lo spermatozoo.
La soluzione io la vedo come un by pass che renda possibile
l’incontro fra ovulo e spermatozoo per un’altra via e, in questo, non vedo una
grave violazione dell’ordine morale, vedo anzi un grande amore nei coniugi che
cercano altre vie.
Un’altra indicazione medica oltre alla già accennata
oligospermia, è il caso della nematospermia ed è chiaro che in questo frangente il
marito è infecondo per cui l’unica possibilità sarebbe quella del donatore.
Detto questo, resta il problema morale delle intenzioni dei coniugi
che, in quanto tali, non mi sembra che configuri un grave problema morale, mentre lo è
per gli embrioni che avanzano: che se ne fa, si distruggono? Ma l’embrione - per
quanto si deve e se ne può sapere - è già una vita umana completa. Possono servire per
la ricerca scientifica e ciò è importante. Un medico della Commissione Pontificia delle
Scienze, cinque anni fa si pose il problema: egli sosteneva che se doveva prendere un
embrione e usarlo per una ricerca scientifica che può salvare la vita di milioni di
persone, per il futuro della vita umana, gli sembrava giusto farlo, pur con la distruzione
dell’embrione.
Personalmente non sono d’accordo, però riconosco che con embrioni
che comunque andranno distrutti per forza, o si distruggeranno da sè, tanto vale usarli
per la ricerca a favore dell’uomo.
Tutto questo è importante anche per un aspetto genetico: si parlava
ieri di introdurre frammenti di D.N.A. in un punto preciso dell’organismo umano nel
quale occorre, Se invece si ha un embrione - almeno fino alla divisione in otto cellule -
ognuna di queste è totipotenziale, cioè non si è ancora differenziata al suo interno e
mantiene intatto tutto il gene come era all’origine, quindi con quelle cellule si
può cambiare il D.N.A. di qualcuno.
Per fare questo si usa una cellula delle otto originarie, però le
sette rimanenti - non si sa per quale motivo - soffrono e sembra che possano anche morire:
i dati sono contrastanti, ma è stimolante la possibilità di avere cellule allo stato
originale che evitano la difficoltà di localizzare, di dove deve andare quel frammento di
gene che si deve alloggiare.
A questo punto bisogna tener conto di altre aree del comportamento
umano: quelle finora descritte sono situazioni in cui è medicalmente impossibile avere
una riproduzione, però ci sono altri problemi (non di carattere medico) che possono
essere, per esempio, la selezione, la scelta del sesso. L’analisi di una cellula
totipotenziale permette di conoscere tutti i caratteri ereditari delle altre cellule e
quindi dell’individuo che nascerà. Lì si può fare uno screening, prelevare cioè
una di queste cellule, si vedrà se è maschio o femmina e quali caratteristiche genetiche
possiede. Questo però configura una selezione umana e ciò non è accettabile ma, a parte
questo problema, si può avere una ricerca di fecondazione in vitro con donatore di
sperma, ma anche con donatrice di ovuli e qui torna il problema del donatore in caso di
fecondazione eterologa in vitro, in cui c’è un elemento che appartiene alla coppia e
un altro elemento esterno ad essa.
Il problema del donatore è di tipo giuridico di grande rilevanza:
moralmente - per noi cristiani - non è accettabile, perché il bambino viene a trovarsi
in una coppia in condizione di asimmetria, il bambino cioè è bambino vero di uno dei due
- in genere della donna - ma non dell’uomo.
C’è anche la possibilità che ad un certo punto la donna sostenga
che il bambino è suo e scelga, lei sola, cosa può andar bene per lui, mettendo fuori
gioco il marito e creando gravi tensioni all’interno della famiglia, oppure vi
possano essere pretese del donatore se la coppia diventa ricca e voglia una parte di
ricchezza in una sorta di ricatto.
In questo contesto ci sono due scuole di pensiero giuridico: una scuola
scandinava tende a rendere sconosciuto il donatore e questo è importante per evitare che
si faccia commercio di questo dono. La scuola italiana (e io stesso) dice che il donatore
deve essere totalmente anonimo, neanche i coniugi devono sapere chi è. Se in condizioni
di malattie particolari del bambino vi sarà la necessità di conoscere il patrimonio
genetico del padre, si prendono le caratteristiche del donatore, cioè la cartella clinica
che viene custodita segretamente in Corte d’appello. Se poi - in casi estremamente
rari - si debba ricorrere alla identità personale del donatore, c’è un secondo e
più stretto segreto che comunica che un dato codice è riferibile ad una certa persona.
Personalmente credo che l’operazione di tipo eterologo più
accettabile dal lato giuridico sia quest’ultima.
Ci sono però altri casi in cui ci vuole il donatore, per esempio una
coppia lesbica che vuole un figlio: qui ci vuole per forza un donatore ma il bambino che
nascerà non avrà una figura maschile di riferimento, con grave danno psicologico. Che ci
siano orfani di padre e di madre succede, ma che si creino orfani in linea di principio a
me sembra cosa del tutto abnorme: ecco perché la Chiesa - e anch’io - è contraria
in ogni caso a queste forme di inseminazione eterologa.
Ma c’è anche il caso - diffusissimo negli USA - della donna
single, che vuole avere figli per questa via (anche perché non ve n’è
un’altra): si ha allora una situazione in cui il bambino nasce solo con la madre, non
c’è nessun altro. Situazioni di questo genere sono inaccettabili, sia sul piano
morale, sia sul piano giuridico. Io credo che limitare - sul piano giuridico - il diritto
a far questo solo al caso omologo, vietando l’inseminazione eterologa per tutti,
possa non essere giusto, perché non si può imporre a un popolo intero il punto di vista
cristiano, anche perché cristiani non lo sono tutti: il nostro Parlamento sta discutendo
animatamente di queste questioni, vorrei però che tutti ricordassimo che il diritto non
deve decidere in base a norme morali di questo o quel gruppo religioso o filosofico, ma
che l’unica preoccupazione del diritto è quella di mantenere la pace sociale e una
buona convivenza e che quello che è dannoso per la convivenza sociale è oggetto del
diritto. Altre cose non lo sono.
Sul piano morale la Chiesa non accetta nulla, in linea di principio:
molti studiosi accettano invece la fecondazione in vitro omologa, quando ci sia una
indicazione medica precisa, a patto però che non vengano perduti embrioni; già
nell’82 stavo presiedendo un gruppo di studio durante un Congresso di studiosi di
etica cattolica e protestante europea e arrivammo a questa conclusione molto prima che si
pronunciasse la Santa Sede e che alcuni episcopati (tra cui quello austriaco) fecero
propria e accettarono come ragionevole.
Oggi la fecondazione in vitro è diventata qualcosa di realmente
efficace e praticabile: è stato fatto uno studio statistico negli USA che illustra la
situazione. Se agli inizia degli anni ‘80 si era al 7-8% di risultati positivi,
nell’88 si era al 12-13%, oggi siamo al 36% il che dice che un terzo dei casi dà
risultati positivi. E’ stato anche calcolato che l’un per cento dei bambini
americani è nato da fecondazione in vitro.
Parliamo adesso di eutanasia. Eutanasia è una parola che vuol dire
molte cose diverse: vuol dire - per esempio - morire bene, morire serenamente e qui si
hanno diverse possibilità. Io posso ammazzare una persona sofferente perché essa me lo
chiede: questa è eutanasia attiva o diretta e consiste in un trattamento diretto a
uccidere il malato e questo - dal punto di vista morale - non è accettabile in nessun
caso, perché la vita è un dono di Dio (per noi cristiani) quindi non è disponibile,
neanche per il soggetto stesso, anche se lui lo chiede.
La sofferenza (almeno per chi crede in Dio) va rispettata, neanche
Gesù sulla croce godeva, ma ha accettato tutto dicendo "Tutto è compiuto", che
non è un grido di disperazione, ma un grido di gioia per aver obbedito alla volontà del
Padre.
Ci sono comunque molti casi diversi: se una persona è in rianimazione,
vive con il sistema cardiocircolatorio e respiratorio esterno, per cui se si interrompe
questo sistema la persona muore; c’è una morte cerebrale e subentra una vita
vegetativa, senza nessuna capacità di vita, di relazione umana. In questi casi
interrompere la rianimazione, è moralmente accettabile pur se discutibile fra medici,
familiari e, soprattutto paramedici che - noi dimentichiamo spesso - sono gli unici ad
essere sempre accanto al malato e dunque lo conoscono bene.
In Italia abbiamo una cattiva tradizione per cui il medico è "il
medico" mentre il paramedico, infermiere qualificato, è poco più di un portantino.
Invece no, chi sta sempre col malato è proprio l’infermiere e in molti paesi civili
egli ha la stessa dignità del medico, tanto che quando fanno riunioni di reparto il
paramedico è sempre presente.
In un famoso discorso del 1951 agli ematologi, quando già si praticava
la rianimazione, sia pure con poche sale e poche apparecchiature, Pio XII ebbe a dire che
quando non c’è più terapia e possibilità di ricupero, staccare la spina è cosa
legittima perché nella tradizione morale cattolica di tutti i secoli i trattamenti medici
straordinari non sono da considerarsi obbligatori, nè per il paziente, nè per il medico.
Ci sono anche le cure palliative sulle quali vi sono grosse discussioni
e io credo che questo sia un campo nuovo della medicina: quando non c’è più terapia
possibile, il medico non ha finito il suo compito, c’è la terapia che serve a non
far soffrire e oggi, in questo campo, ci sono strumenti raffinati: a Milano c’è la
clinica Mangiagalli che ha sempre operato in questo ambito, a Firenze ci sono strutture
qualificate, con persone che vanno a visitare i malati a casa e si danno medicine
palliative che alleviano sofferenze. Questo è accettabile.
Diversa è la richiesta previa, quando cioè una persona lascia scritto
che, in caso di...., desidera che...., ma questo va preso con molta riserva perché - in
genere - una persona scrive queste cose quando è sana e dopo che si ammala non è detto
che sia dello stesso parere. A chi rifiuta il cosiddetto accanimento terapeutico (idea che
sta prendendo piede in una parte di mondo cattolico rigido) si deve dare la possibilità
di morire tranquillo, pur sostenendolo.
In alcune regioni dell’Africa Centrale, la persona anziana che
vive in piccoli villaggi e si accorge di essere di peso nella sua tribù, va nella foresta
e si lascia morire.
Ci può essere il caso di un padre di famiglia con figli che, affetto
da una grave malattia, della quale non guarirà, per campare qualche settimana in più
deve dare fondo a tutto quanto possiede lasciando la famiglia senza più nulla: a questo
uomo che chiede di non essere ulteriormente tormentato, va concesso di poter morire in
pace.
Il concetto di accanimento terapeutico è un concetto introdotto
recentemente, lo stesso Pio XII sosteneva che se anche una terapia del dolore può
accorciare l’esistenza, si può ugualmente praticare perché ciò si fa per alleviare
il dolore, la cosa che invece non va mai praticata è l’eutanasia attiva, il resto va
misurato caso per caso, non si può dare una regola valida per tutti, perché ogni
situazione è diversa, ogni approccio - sia con il malato, sia con la famiglia - pone
problemi diversi, problemi morali che non sono risolvibili con una formula buona per
tutti.
C’è però il problema del medico che - se non richiesto
differentemente dal paziente - deve sempre fare quello che può per il prolungamento della
vita il più possibile. Ci troviamo dunque di fronte a due problemi morali diversi: il
medico deve aiutare il paziente il più possibile, il paziente cosciente può rifiutare e
questo gli è garantito dalla Costituzione Italiana secondo la quale nessuno può essere
sottoposto a trattamento medico senza il suo consenso, salvo i casi previsti dalla legge,
per esempio trattamenti in caso di epidemia.
Parliamo ora di un caso che ci collega subito al problema del trapianto
da cadavere: per un trapianto è necessario che gli organi siano ancora irrorati di sangue
e ossigeno, quindi non si può prelevare un organo da una persona morta e pensare poi al
trapianto, a meno che il donatore sia morto da pochissimo e allora si preleva
l’organo e si immette nel corpo del ricevente, oppure si mantiene artificialmente la
circolazione e la respirazione del donatore, in modo da asportare l’organo da
trapiantare ben irrorato e ossigenato.
Questo è possibile mentre il cuore batte, perché c’è
l’apparecchiatura esterna ad esso collegata che lo fa battere. Non si può dire che
sia stato prelevato un organo da una persona ancora viva perché il cuore batteva ancora,
in realtà essa era già morta. Infatti la morte è dichiarata quando non c’è più
organismo, perché l’organo centrale che lo comanda è il cervello e quando questo
non funziona assolutamente, non esiste più l’organismo vivo.
Questo è un punto importante e la legge italiana è più severa di
quella della chiesa: non si affida solo all’elettroencefalogramma piatto per
dichiarare la morte cerebrale, ma a diversi altri approfondimenti che a ore di distanza
dal decesso possano certificare l’effettiva morte: parte da qui l’espianto
dell’organo da donare per il trapianto.
Sulla volontà contraria del donatore a dare una parte di sè (volontà
espressa da vivo) per un trapianto, io sono in disaccordo con la maggior parte dei miei
colleghi: il cadavere, una volta tale, non è di nessuno, i familiari non ne sono i
proprietari, neppure dal punto di vista giuridico e morale ma, siccome è un dono, alcuni
sostengono che ci vuole un atto di volontà in questo senso attraverso uno scritto del
futuro donatore.
Non condivido questa tesi, in fondo il corpo è un ammasso di cellule
che da morte non hanno alcun significato e delle quali nessuno è proprietario, dunque non
si può parlare di donare qualcosa che non è tuo. Si può invece dire che titolare del
cadavere è la comunità i cui bisogni devono prevalere anche sugli strazi della famiglia:
personalmente non trovo giusto che sia la famiglia a decidere, mentre trovo ragionevole
che sia lo Stato a prendersi cura anche della sensibilità della famiglia in momenti
particolari di sofferenza. Penso che il trapianto da cadavere cerebralmente morto sia cosa
buona e debba essere organizzato logisticamente attraverso tempi molto brevi
l’espianto dell’organo mediante sorveglianza medica rigorosa e il trasporto
verso chi deve ricevere quell’organo.
Ricordiamoci che un tempo i cadaveri dei poveri - soprattutto se senza
famiglia - erano a disposizione degli studenti di medicina che li sezionavano per studiare
e imparare come è fatto un corpo umano.
Detto questo io credo debba valere la legge del silenzio-assenso e solo
l’espressione della volontà contro l’espianto potrebbe essere presa in
considerazione e non viceversa e se anche la famiglia fosse contraria all’espianto,
ma fosse urgente e introvabile un altro donatore, in questo caso si deve anche infrangere
la volontà della famiglia.
Questa dunque la mia posizione in materia di trapianto di organi, da
donatore cerebralmente morto.
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