di
Simone Morandini
Cultura,
pace e creazione sono termini che ritornano - con frequenza minore o maggiore -
nella riflessione di R. Bertalot, quale l'abbiamo conosciuta dai suoi scritti,
ma anche dalla sua viva voce, sia nel contesto dell'Istituto S. Bernardino che,
già venticinque anni or sono, durante le Sessioni del SAE al Passo della
Mendola. In questo breve saggio proponiamo alcuni elementi di riflessione sul
loro rapporto, in un percorso che riprende e sviluppa temi appresi dallo stesso
Bertalot, per evidenziarne la rilevanza nel contesto attuale.
1. Per la pace e per
il creato
I riferimenti alla pace ed
al creato si trovano spesso strettamente associati, sia nel linguaggio delle
diverse comunità ecclesiali che nella riflessione specificamente ecumenica.
L'Unità III del CEC, ad esempio, è dedicata a "Giustizia, pace e creazione",
a riprendere in forma appena modificata la dizione del processo avviato nel
1984 dall'Assemblea di Vancouver e culminato nel 1990 con la Convocazione
ecumenica di Seul ("Giustizia, pace e salvaguardia del creato") (1).
Anche a livello europeo le Assemblee Ecumeniche di Basilea e Graz richiameranno
la stessa triade, mentre in ambito specificamente cattolico sarà il Messaggio
per la Pace del 1990 - forse il più importante testo del Magistero cattolico
sui temi ambientali - a disegnare un analogo collegamento: "Pace con Dio
Creatore, Pace con tutto il creato" (2). Se guardiamo, poi, alla
tradizione francescana troviamo spesso un richiamo al santo di Assisi, come
figura capace di vivere e promuovere la pace tra gli uomini e, quasi senza
soluzione di discontinuità, quella col creato (3). Pace ed integrità del creato
sono anche due grandi tematiche escatologiche, due segni del Regno di Dio che
viene (4) e la stessa Scrittura le disegna spesso in stretta congiunzione. È un
dato particolarmente evidente in Isaia, dove le immagini di riconciliazione
universale della fine dei tempi (Is.2, 2-5; 25, 6-9) si alternano e si
intrecciano con quelle di un rinnovamento della natura, vivificata e liberata
persino dalla predazione (Is.11, 1-9; 41,17-20; 43,16-21). Nella visione profetica,
infatti, la memoria dell'atto creatore di Dio fonda la speranza in una
creazione nuova, nel segno della pace cosmica.
Se ci collochiamo a questo
livello, scopriamo pure un legame evidente delle due espressioni con la cultura
- il terzo termine cui si riferisce questa riflessione. La promozione della
pace e della salvaguardia del creato, infatti - aldilà del livello
immediatamente politico - esige pure un'azione formativa, rivolta alle
coscienze personali, ma anche a quel campo più esteso che definiamo appunto
culturale. Una "cultura per la pace e per il creato" indicherà,
allora quella trasformazione del sentire collettivo che è necessario promuovere
affinché le due realtà possano effettivamente prender forma nella storia e
nella società. Essa necessiterà sì di un livello di analisi tecnica, capace di
cogliere i singoli problemi nella loro specificità, ma anche di un orizzonte
più ampio, nel quale essi possano trovare una collocazione più meditata.
Spesso, in effetti, si tratterà di una vera e propria risignificazione di
elementi del nostro vissuto e della nostra storia, a svelarne la dimensione di
riconciliazione. Tra l'altro, proprio Bertalot è stato in questo maestro,
invitando a continue riletture della storia, non per rimuovere la densità dei conflitti
- come fanno gli storici negazionisti della Shoah - ma piuttosto per scoprire,
anche al cuore di essi, potenzialità di riconciliazione da studiare con
attenzione, per recuperarne l'attualità (5).
È soprattutto a questo
livello che la riflessione più specificamente teologica può portare il proprio
contributo, come indicazione di una profondità di significato che spesso è
sottesa anche da problematiche apparentemente tecniche e settoriali, ma in
effetti cariche di interrogativi di grande spessore. Non è certo casuale che in
questo spazio anche la parola Dio venga spesso invocata, a richiamare quella
riserva di senso, quella speranza oltre ogni speranza che si rivela così
necessaria di fronte alla complessità di questioni apparentemente prive di soluzioni
viabili. Lo stesso Isaia, del resto, evidenzia uno stretto legame tra annuncio
di salvezza e pace (Is.52, 7), che sarà confermato anche dal Nuovo Testamento
confermerà. Nella lettera agli Efesini, anzi, Cristo viene confessato come
"la nostra pace" (Ef 2,14), come la sorgente di una riconciliazione
che è in primo luogo quella tra le genti ed Israele, e che proprio a partire da
qui interessa tutti i popoli.
2. La complessità
della cultura: interculturalità
Se teniamo presente questo
primo plesso di significati, emergono indicazioni abbastanza lineari per
l'articolazione di cultura, pace e creato. Non possiamo, però, dimenticare che
il termine cultura ha una valenza complessa, cui anche Paul Tillich, così caro
a Renzo Bertalot (6), ha più volte richiamato la riflessione teologica. Si
tratta, in effetti, di un'espressione che nel mondo occidentale copre una
varietà di campi semantici; se in questa sede non possiamo certo presentarne
un'analisi esaustiva, vi sono, comunque, alcune considerazioni che è necessario
tener presenti. Rimuoverne la complessità, infatti, significherebbe condannare
alla sterilità lo sforzo per costruire una cultura per la pace ed il creato.
Notiamo, in primo luogo che
la cultura può certo essere intesa come il frutto di un generale processo di
umanizzazione, di cui la crescita della pace costituisce una componente
fondamentale. Occorre, però, anche ricordare che essa si realizza sempre in una
forma particolare, all'interno di uno specifico contesto storico, geografico e
sociale: parliamo di una cultura occidentale, ma anche di una cultura araba, di
una cultura cinese... Nessuna di esse può di per sé essere identificata con la
verità, che si pone invece per ognuna come invito alla conversione; al
superamento, alla ricerca della profondità e dei significati ultimi.
Se teniamo presente questo
significato, una cultura di pace non potrà che declinarsi nella modalità del
dialogo interculturale. Identificare immediatamente la via della pace con una
specifica espressione dell'humanum, infatti, significherebbe condannarsi
all'incomunicabilità o all'arroganza autoassertiva, rendendo ben difficile un
positivo contributo alla crescita della con-vivenza al cuore dell'umanità.
Anche la promozione della sostenibilità ambientale, per essere efficace non può
che declinarsi attraverso la varietà delle culture che si esprimono nelle
società contemporanee; non può che esprimersi come interrogazione delle diverse
visioni del mondo. È illusorio pensare che l'esportazione di modelli di
sviluppo che non tengano conto dei destinatari e delle loro forme culturali,
possa produrre effetti benefici per le popolazioni interessate e per
l'ambiente.
É, però, in particolare
nell'ambito del dialogo ecumenico - ed ancor più di quello interreligioso - che
si fa sentire con forza l'esigenza di pensare la pace come incontro e dialogo
tra diversità, senza cercare frettolose omologazioni. Lo steso Bertalot ha
ricordato più volte - anche in tempi in cui il fenomeno fondamentalista era
ancora ben poco considerato - come l'integrismo sia una tra le più gravi
minacce per la pace (7): l'incapacità di distinguere tra i vari livelli
dell'affermazione di fede o dell'identità religiosa conduce facilmente alla
violenza. Per riprendere le parole di R. Panikkar, "la verità non è
un'arma, con la quale conquistare, dominare o vincere" (8). Anche chi
confessa e vive con intensità una fede non può dimenticare che quelle stesse
immagini, che all'interno di una tradizione religiosa vengono vissute come
simboli radicali di pace, per altre possono essere privi di significato o
addirittura veicolare connotazioni ostili.
Ne dà testimonianza anche la
ricerca da parte delle istituzioni internazionali di un simbolo meno
coinvolgente per quell'istituzione di assistenza a malati e feriti che in
Europa prende il nome di Croce Rossa: già in un contesto musulmano era
risultato preferibile il riferimento alla Mezzaluna, ma m altre aree - specie
in presenza di forti conflittualità interculturali - occorre qualcosa di meno
connotato. Certo, indubbiamente in tale dinamica viene limitato il riferimento
a quella grande figura di misericordia solidale che è il Crocefisso, ma solo
allo scopo di rendere meglio fruibili i significati per cui il segno intendeva
riferirsi. Potremmo dire che trova qui espressione, anche sul piano simbolico,
quella figura della "moratoria escatologica" che molte volte R.
Bertalot ha indicato come essenziale per un serio dialogo tra identità
differenti (9).
Certo, neppure sarebbe
corretto orientare sempre ed ovunque a tale figura, che accentua in modo così
forte la dimensione della laicità, per la gestione dei rapporti tra diverse
identità religiose e culturali. È pure vero che - come rilevava anche J.
Habermas (10) - la simbolica delle esperienze religiose veicola significati che
solo in parte sono suscettibili di traduzione nei linguaggi laici del sapere
filosofico. La stessa ricerca della pace, allora, non potrà esprimersi solo
come reciproca tolleranza, come riduzione al minimo livello di ciò che potrebbe
essere fattore di conflitto. La pace e l'integrità del creato esigono anche un
futuro diverso, un rinnovamento su scala planetaria, un'interazione costruttiva
tra le diverse forme culturali in cui abita l'humanum. Tale dinamica può
però realizzarsi solo in un incontro autentico, al livello profondo delle
identità, laddove i diversi soggetti si presentino in tutta la loro verità,
esprimendola in forma non polemica, ma testimoniale - quasi come un dono cui
altri possa attingere se lo desidera. L’uomo ecumenico non si astiene dal dire
le ragioni ultime del suo esistere, ma - ricorda ancora Bertalot - sa farlo in
forma umile, sapendo che "quanto offre non è determinante, perché lo
Spirito soffia dove vuole e quando vuole" (11).
Il dialogo, infatti, è anche
lo spazio di una reciproca testimonianza alla verità, in cui essa stessa
talvolta in forme inaspettate, si svela ai partecipanti. In questo senso la
varietà delle culture non può essere percepita solo come ostacolo o addirittura
minaccia ad una pace che verrebbe così concepita come mera reductio ad unum.
No: essa costituisce piuttosto la condizione di possibilità di una pace che si
dà solo come incontro delle diversità, come apertura accogliente a quelle
alterità che si manifestano nella storia.
3. La complessità
della cultura: naturale vs. culturale
C'è, però, nel termine
cultura anche un ulteriore orizzonte di significato, che deve essere tenuto
presente se vogliamo pensarne m modo efficace la relazione alla pace ed
all'ecologia. Ci riferiamo a quell'accezione che distingue ciò che è culturale
da ciò che è naturale, l'evoluzione culturale da quella biologica. Se tra le
due dimensioni c'è indubbiamente una stretta relazione - l'uomo è sì essere
culturale, ma non per questo cessa di essere un vivente, nel senso biologico
del termine - essa non può cancellare l'irriducibilità della seconda alla
prima. La stessa sottolineatura della diversità culturale, su cui ci siamo
soffermati nelle pagine precedenti, è l'espressione di questa
non-determinatezza dell'essere umano, capace di sviluppare forme di vita profondamente
differenti a partire dalla sua base biologica.
Nel momento in cui teniamo
presente quest'area semantica, però, diviene impossibile pensare in modo troppo
semplice il rapporto tra cultura, pace e mondo creato: tra il primo elemento e
gli altri due le relazioni sono differenziate e potrebbe persino sembrare che
esse orientino in direzioni diverse. Abbastanza evidente - e tutta positiva -
appare la relazione tra pace e cultura: a fronte di un mondo naturale nel quale
la violenza costituisce un fatto normale, in cui la morte di un vivente per
mano di un altro è spesso la condizione di possibilità per la sopravvivenza del
secondo, la cultura disegna un orizzonte di possibilità differente. Essa,
infatti, apre uno spazio nel quale la minaccia reciproca può essere superata
nel patto, in un'interazione positiva anche tra diversi. Qui l'aggressività
diviene gestibile, relativizzabile, a livello personale e comunitario e proprio
a questo scopo sono destinate quelle istituzioni del diritto il cui sviluppo è
certo una delle caratteristiche dell'evoluzione culturale dell'umanità (12).
Qui la comunicazione permette di superare quella paura del diverso che sembra
caratterizzare fasi arcaiche della convivenza interumana. La pace, insomma,
appare come una possibilità tipicamente umana, come l'espressione di una
rottura culturale con quelle dinamiche che al livello naturale si presentano
come insuperabili.
Ben diverso appare, invece -
almeno ad un primo sguardo - il rapporto tra cultura e questione ambientale;
qui, infatti, l'azione specificamente umana appare piuttosto collegata agli
squilibri che pesano sull'ecosistema planetario. Forse il mutamento climatico è
l'espressione paradigmatica di tale dinamica, che vede l'alterazione della
composizione atmosferica - almeno in parte certamente determinata dallo
sviluppo umano (13) - determinare una modifica delle condizioni climatiche del
pianeta. La società industriale, quasi espressione storica del pathos
moderno della libertà, nasce, del resto, come rottura con una forma d'uso
dell'energia che si limitava ad attingere ai flussi immediatamente disponibili,
per volgersi invece agli stocks immagazzinati nei combustibili fossili -
un'azione certamente possibile solo all'interno di una dinamica culturale
avanzata. Non stupisce, allora, che diversi autori vedano la radice dello
scompenso ecologico proprio in un'eccessiva enfatizzazione dell'essere
culturale dell'uomo, che avrebbe condotto ad una sottovalutazione del suo
radicamento naturale e biologico, per porsi come dominatore della natura.
La terna «pace, creazione,
cultura» sembra, dunque, scindersi: se il cammino di pace figura come il frutto
di una enfatizzazione della crescita culturale dell'essere umano, a superare
una conflittualità che egli erediterebbe soprattutto dal suo essere biologico,
un rapporto sostenibile con l'ambiente sembra esigere invece una prospettiva
abbastanza diversa.
4. La complessità
della cultura: responsabilità
In realtà, la
contrapposizione che abbiamo delineato appare a numerosi autori troppo schematica.
Panikkar sottolinea, ad esempio, che la guerra non può essere considerata un
fatto naturale, né normale, ma va vista invece come fenomeno fortemente
connotato in senso culturale (14). La guerra, in effetti, non è semplicemente
la violenza in quanto tale, ma la violenza divenuta istituzione: la cultura non
è sempre fattore dì pace ed, anzi, talvolta sembra in grado di innescare
dinamiche orientate in senso ben diverso. D'altra parte, la stessa naturalità
biologica non può essere univocamente identificata come fattore di
aggressività; se tale istinto è indubbiamente presente, quale elemento
necessario alla sopravvivenza, il corredo istintuale dei viventi vede pure la
presenza di tendenze che puntano alla cooperazione (15). Negli esseri umani, in
particolare, l'agire - violento o pacificante - nasce sempre come cernita tra
una varietà di inclinazioni innate, come espressione di una scelta (16).
D'altra parte, altrettanto
scorretto sarebbe identificare immediatamente con la cultura in quanto tale la
radice del degrado ambientale. Certo, senza la scienza e la tecnica, ben
difficilmente l'impatto dell'azione umana sulla biosfera avrebbe potuto essere
così ampio ed è certamente opportuno ritrovare intuizioni presenti in alcune
culture non-tecnologiche - come quella biblica! - per ripensarne i valori nel
contesto presente. Se la cultura è sempre - quasi per definizione -
manipolazione e quindi alterazione della naturalità, ciò non significa affatto
che essa debba necessariamente tradursi in una rottura delle dinamiche della
biosfera. Occorrerà, però, tener presente che oggi sono proprio la scienza e la
tecnica che permettono all'essere umano di orientare il proprio rapporto con
l'ambiente in direzioni diverse - più o meno ecologicamente sostenibili. Che
significa oggi ricercare un'armonia con la natura per un'umanità di alcuni
miliardi di esseri umani, senza condannare semplicemente alla morte per fame i
poveri del Sud del mondo? Sarebbe possibile farlo senza una ricerca di tecniche
avanzate che garantiscano un impatto ambientale leggero? Il problema è allora
piuttosto quello - tutto politico - del senso e dell'orientamento di un sistema
economico che solo di rado sembra disponibile a sostenere una ricerca
scientifica e tecnologica che vada effettivamente in questa direzione.
Si ha, insomma l'impressione
che né l'istanza della pace né quella di salvaguardia del creato possano essere
correttamente interpretate semplicemente come richiesta di un di più o un di
meno di cultura, di una maggiore o minore distanza dalla naturalità. In
entrambi in casi, la questione appare piuttosto legata a scelte, che
interpellano l'essere umano nella sua libertà, ponendogli l'interrogativo circa
l'orientamento da dare alle forme materiali della convivenza. Sono scelte che
interessano l'essere umano nella sua totalità - nella sua dimensione biologica,
come in quella sociale: a questa complessa articolazione egli è chiamato a dare
forma, assumendo responsabilmente il suo stesso essere culturale.
Nell'uno come nell'altro
caso troviamo, insomma, al centro una questione etica, nella quale il soggetto
si vede rinviato alla responsabilità per un'alterità che gli sta di fronte -
una responsabilità che chiede di tradursi in rispetto, in primo luogo, ma anche
in un'attiva azione di cura. Certo, i termini responsabilità ed alterità
assumono significati diversi se sono riferiti ad un altro soggetto umano o ad
enti del mondo naturale, ma certamente essi orientano a pratiche convergenti
nella costruzione di una cultura per la pace e per il creato. Identico, del
resto, è pure l'atteggiamento cui si oppone: quello del dominio - la volontà di
affermare se stessi nella propria supremazia - sull'altro umano come sul mondo
naturale. Il dominio, infatti, vede nell'alterità solo un oggetto, un mezzo per
il perseguimento dei propri scopi, senza riconoscergli alcun valore proprio. Il
dominio rifiuta di riconoscere il limite al proprio agire, tutto
strumentalizzando al perseguimento del proprio fine; il dominio è incapace di
colere alcunché, di farsi effettivamente matrice di una cultura vivibile. La
volontà di dominio irresponsabile - della natura come degli uomini e delle
donne - appare, insomma, il vero polo negativo che si contrappone ad una
cultura della pace e del creato.
Nello spazio della
responsabilità, invece, possono trovare un significato pacificante i
riferimenti alle opere della cultura - il diritto, la scienza e la tecnica -
come quelli al nostro radicamento biologico e naturale. In essa, infatti, gli
uni e gli altri vengono a convergere in una positiva attenzione per l'alterità,
che sa riconoscere la pluralità come condizione costitutiva di un'umanità che
fin dall'inizio è creata nella condizione della dipendenza da altri. La stessa
dinamica della cultura non appare più tanto come rottura rispetto alla naturalità,
ma piuttosto come apertura di un nuovo livello di libertà che permette alla
creatura di rispondere in modo nuovo ed autenticamente personale alla Parola
che la fonda ed assieme la interpella.
Proprio qui, d'altra parte,
si radica la dinamica di libertà che caratterizza una ricerca etica
caratterizzata dalla responsabilità: al cuore di essa non sta l'indicazione di
uno schema di comportamento fissato una volta per tutte, quasi si trattasse di
riportare la libertà dell'essere culturale ad una rigidità simile a quella
sperimentata da altre forme viventi. No: il suo scopo è piuttosto quello di
offrire riferimenti significativi per una sempre nuova pratica etica, capace di
far fronte alle sfide del tempo.
Bertalot è stato maestro nel
ricordare ai suoi interlocutori la dimensione interinale di ogni etica, sempre
provvisoria, sempre posta tra il già di una parola fondante e il non ancora di
un eschaton non ancora compiuto: "nel ricordo dell'etica trinitaria
e nell'attesa dell'avvento di Dio possiamo pronunciare quella parola di
preliminare di avvertimento che costituisce l'etica cristiana e che ci impegna
nel provvisorio davanti a Dio e davanti agli uomini" (17).
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Note
1) Alla ricerca ecumenica
sul tema ambientale Bertalot ha dedicato, R. Bertalot, Il problema ecologico,
in Id., Per dialogare con la Riforma, Biblioteca di Studi Ecumenici n.
2, LIEF, Vicenza 1989, pp.167-173.
2) Giovanni Paolo II, Pace
con Dio Creatore, pace con tutto il creato, in Il Regno Documenti 35
(1990), pp. 1-4.
3) Pensiamo ad esempio a L.
Boff, Francesco d'Assisi una alternativa umana e cristiana, Cittadella,
Assisi 1980.
4) Richiamo qui i preziosi
interventi di Bertalot nelle Sessioni SAF del periodo 1976-1982 - il cosiddetto
"ciclo del Regno", l'ultima delle quali aveva per titolo "La
pace, sfida del Regno".
5) Penso, in particolare, a
R. Bertalot, Fasi della cultura europea d'oltralpe, Quaderni di «Studi
Ecumenici» n.7, Venezia 2003.
6) Mi limito a richiamare R.
Bertalot, Paul Tillich. Una teologia per il XX secolo, AVE, Roma, 1971;
Id., Per una teologia della cultura in prospettiva ecumenica: Paul Tillich,
in SAE (a cura), Laici, laicità, popolo di Dio. L'ecumenismo in questione.
Atti della XXV Sessione di formazione ecumenica, La Mendola (Trento), 25
luglio - 2 agosto 1987, Dehoniane, Napoli 1988, pp. 453-459; Id., Paul
Tillich: esistenza e cultura, Claudiana, Torino 1991.
7) R. Bertalot, Linguaggio
e prassi di integrismo, in SAE (a cura), La pace, sfida del Regno Atti
della XX Sessione di formazione ecumenica, la Mendola (Trento), 30 luglio -
7 agosto 1982, LDC, Leuman (Torino), 1983, pp. 224-229.
8) R. Panikkar, Pace e
disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003, p. 60.
9) Ad esempio in R. Bertalot,
Dio nascosto e Dio rivelato. Ricerca biblica neotestamentaria, in SAE (a
cura), Parola e silenzio di Dio. Atti della XXVIII Sessione di formazione
ecumenica, La Mendola (Trento), 28 luglio - 5 agosto 1990, Dehoniane, Roma
1991, pp. 63-69, come pure nel già citato Id., Il problema ecologico.
10) Mi riferisco
all'intervento alla fiera del libro di Francoforte, in J. Habermas, Fede e
sapere, in Micromega (2001), n.5, pp.7-16.
11) R. Bertalot, L'uomo
dialogico ed ecumenico, in SAE (a cura), Laici, laicità, popolo di Dio,
pp.286-291.
12) L'attenzione costante di
Bertalot per l'interazione di diritto, cultura e teologia è testimoniata, ad
esempio, da R. Bertalot, Dalla teocrazia al laicismo. Propedeutica alla
filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari 1993.
13) Sul tema rimando a M.
Mascia, S. Morandini, A. Navarra, G. Proietti, Se la terra si scalda...
Scienza, etica e politica di fronte al mutamento climatico, EMI, Bologna
2004.
14) R. Panikkar, Pace e
disarmo culturale.
15) I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia
della guerra, Bollati Boringhieri, Torino 1999 .
16) P. Ricoeur, P. Changeux,
La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Cortina, Milano 1999,
pp. 179-314.
17) R. Bertalot, Fondazione
biblico-teologica dell'etica, in SAE (a cura), Questione etica e impegno
ecumenico delle chiese. Atti della XXIII Sessione di formazione ecumenica,
La Mendola (Trento), 27 luglio - 4 agosto 1985, Dehoniane, Napoli 1986, pp.
57-70, qui p. 70. Proprio all'etica della responsabilità, pensata come
"etica interinale", era pure dedicata una delle prime opere di
Bertalot pubblicate in italiano: R. Bertalot, Verso una morale della
responsabilità. Ricerche d'etica protestante, EDB, Bologna 1972.
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