di
Emanuele Macca
Ho appena terminato la
lettura del libro di Rocco Pezzano, “Troppo amore ti ucciderà – Le tre vite di
don Marco Bisceglia” (ed. Edigrafema). E mi è rimasto un nodo alla gola, come
spesso mi capita quando condivido storie forti di altre persone identificandomi
in pezzi delle emozioni che esse sanno trasmettere.
Si parla di una persona che
è stata sacerdote di formazione gesuita, guida spirituale nella principale parrocchia
di Lavello (Potenza) dove fonda la “comunità di base” del Sacro Cuore legandosi
così ai preti del dissenso rispetto alle Gerarchie Ecclesiastiche; all'arrivo
delle forze dell'ordine per allontanarlo dalla parrocchia, la comunità di fatto
si sfalda.
In stretti rapporti con
esponenti della sinistra estrema e anche con Marco Pannella e i Radicali con cui
si candida alle elezioni nazionali, è vittima di un raggiro giornalistico per
cui si sparge la voce che abbia celebrato un matrimonio tra omosessuali : è la
goccia che fa traboccare il vaso e viene sospeso a divinis con un documento
comunque di dubbia validità.
Allora fa coming out e a
Roma collabora con l'ARCI (sezione diritti umani) per la quale propone l'idea
di fondare l'ArciGay. Di essa non è quindi il fondatore ma l'ispiratore; infatti
al sorgere concreto dell'associazione, si defila. In questi anni, diventa amico
stretto di Nichi Vendola, primo suo collaboratore.
Ammalatosi di AIDS, viene
reintegrato nel clero e diventa aiuto parrocco nella Chiesa di San Cleto a Roma
gestita dai Padri Venturini (un ordine che ha come missione la cura spirituale
del clero). Qui, una delle sue attività principali è l'assistenza delle suore e
delle donne malate di AIDS ospitate dalle Suore di Madre Teresa. Ma di lui si
perde ogni traccia, quando prima era un uomo immerso senza sosta nelle
pubbliche vicende.
In questa molteplicità e
contradditorietà di azioni e scelte di vita, sta quello che più mi ha
affascinato. Perchè dietro a
tutto c'è un pecorso umano che comunque lo si voglia leggere è lineare.
Sono i nostri schemi umani
che vorrebbero ingabbiare tutto e tutti dentro una presunta logica e coerenza
pubblica e politica. Ma la vita umana è tutt'altra cosa... è una continua
tensione alla ricerca della Verità che ci fa percorrere differenti strade e quel
cammino ci arrichisce. La coerenza di fondo sta nella volontà di rielaborare
continuamente quello che osserviamo, che subiamo e che agiamo alla luce della
nostra più intima Coscienza.
Il radicalismo di Don Marco
gli ha fatto fare queste scelte di vita, ma gli ha dato alla fine la
capacità di confrontarsi con
se stesso. Logoro dal continuo agire, egli ha rimesso al centro la cura della
propria anima.
Nella prima vita ho rilevato
un continuo concentrarsi sulle evidenti ingiustizie sociali che i contadini della bassa Italia
hanno vissuto fino a quegli anni. E dall'altra parte la strutturale
connivenza del clero con
questo sistema non poteva che urtare fortemente un'anima attenta agli ultimi e
ai cittadini emigrati al nord in cerca di una vita migliore. Basta citare il
fatto che era uso far pagare una tariffa per i funerali e che in base alla
quota offerta veniva celebrata una cerimonia più o meno sfarzosa, con o senza
corale.
L'opposizione verso le
Gerarchie Ecclesiastiche è diventata sempre più radicale anche per via dei difficili
rapporti che Bisceglia ha avuto con i suoi Vescovi.
Il suo carattere
tendezialmente oppositivo non gli ha fatto trovare agio in nessuna dimora
strutturata (né nel Partito
Comunista né con i Radicali né con l'ArciGay nel momento in cui si stava organizzando
in modo preciso).
Ma molto affascinante della
sua seconda vita iniziata ben oltre i cinquant'anni è stata la gioia vitale con
cui ha sentito di riappropiarsi del proprio corpo, della propria sessualità,
dell'affetto anche carnale di cui prima si era deprivato tutto concentrato
sulle ingiustizie sociali. Era l'epoca dei campeggi organizzati dai pochi soci
dell'ArciGay e “tutti lo ricordano come un compagnone, sempre gioioso,
disinibito, senza alcun tabù nel cercare e dare amore anche per un'avventura,
per una storiella” (1).
Questa gioia è stata
talmente grande da fargli sopportare la povertà in cui si trovava. La casa alla
estrema periferia di Roma in cui viveva era umida, senza riscaldamento e non
del tutto stabile. Lì ci si nutriva di poco come ricorda anche Nichi Vendola
che da Don Marco era stato ospite durante la loro collaborazione.
In quella fase il rapporto
con la Fede era inevitabilmente in crisi. Vendola ricorda le continue discussioni
che lui cattolico aveva con Don Marco proprio sul nucleo del Credere che non
voleva fosse buttato al vento. Così dice Nichi : “Marco fu molto importante
anche perchè era un prete. Uno dei motivi di discussione più accesa fra me e
lui (…) fu la religione : lui ebbe una fase quasi di iconoclastia. Rileggeva se
stesso, cioè la sua fede e il suo sacerdozio, come frutto di una nevrosi, del
tentativo di occultare la propria omosessualità. (…) Ricordo una notte in cui
gli dicevo che stava trasfigurando il senso della sua esistenza (…). E che quel
suo racconto non restituiva l'immagine di quella Chiesa dei poveri e tra i
poveri che era stata la sua parrocchia a Lavello.”(2)
E infine mirabile ai miei
occhi si apre la terza vita di Don Bisceglia, quella del reintegro. Dopo aver
abbandonato le attività con l'ArciGay, dopo aver rivissuto a cinquant'anni
suonati le gioie dell'affetto carnale e dopo essersi scoperto malato di AIDS,
forse esplode la ricerca di una affettività e di una serenità non solo fisica
ma anche interiore e spirituale. Quella gioisa serenità che Don Marco sembra
non aver vissuto mai prima quand'era sacerdote a Lavello. Non aveva certo
cambiato il suo carattere tendenzialmente conflittuale e radicale tanto da
cercare un taglio netto con tutto il suo passato. La sua ricca biblioteca
sull'omosessualità donato al Centro Culturale Mario Mieli pare essere stato
l'ultima relazione avuta col movimento di liberazione omosessuale.
Per quanto si sa non ha mai
negato se stesso e la sua vita passata, ma sembra rileggerla con occhi diversi.
In particolare cambia il suo rapporto con le Gerarchie. In una lettera scritta
all'amico Giancarlo dice : “Sono consapevole che sono tante le strutture della
Chiesa che non corrispondono allo spirito del Vangelo. Ma non lasciamoci
irretire dai facili stereotipi. Per esempio il 'mio' vescovo col quale ho avuto
da fare in questi ultimi anni non ha niente dello stile prelatizio : è un uomo
mite, ricco di umanità che ha favorito la mia integrazione, pur sapendo di
avere a che fare con un soggetto 'sieropositivo' in cura presso il Gemelli qui
a Roma. Ti lascio con questi pochi righi perché oggi stesso debbo ricoverarmi
per sottopormi a una serie di controlli.”(3) Forse il definitvo ed ultimo
ricovero... In silenzio ricordo questa vita che credo meriti di essere
reinserita nel pieno della memoria della comunità cristiana e della Chiesa.
Lo dice bene anche Vendola
quando ricorda tutti i preti gay che ancora vivono con clandestinità nella
Chiesa perchè hanno il terrore che si venga sapere della loro tendenza omo-sessuale,
o meglio ancora, omo-affettiva. “La storia di Don Marco andrebbe raccontata anche
per questo. Il legame fra il Don Marco che fa della Chiesa la polis dei
braccianti, il Don Marco che fa dell'omosessualità un'epifania, il Don Marco
che sceglie di salire in cielo, cioè di abbandonare la terra, questo strano movimento
che lui fa, lui va e torna contemporanemente, perché torna alle origini, a
Lavello, alla sua terra. Torna alla carne di famiglia, alla sorella, è un
ritorno che però lo fa salire fuori dal mondo: ci sarà una relazione fra tutte
queste facce di Don Marco.” Vendola, che a questo prete ha voluto davvero molto bene, chiude
l'intervista fatta all'autore alzando per l'ultima volta gli occhi al cielo e facendo
l'ennesimo sospiro, dice : “E' la prima volta che parlo di Don Marco. Non è
facilissimo per me.”(4)
Ma il Don ha trovato pronti
ad accoglierlo e sostenerlo le braccia di Don Luigi Di Liegro
(fondatore della Caritas di
Roma) che l'ha indirizzato a Padre Paolo Bosetti, il padre della
Congregazione di Gesù
Sacerdote e parrocco alla Chiesa di San Cleto a Roma. In quella comunità Don
Bisceglia ha passato gli ultimi anni della sua vita impegnato in opere pastorali
volutamente lontane dai mass-media. E, sopresa per me ancora maggiore, lì ha fatto
richiesta di tornare al sacerdozio, richiesta assecondata dal Cardinale Ugo
Poletti che ha inoltrato la domanda a Giovanni Paolo II, mentre a lavorare al
caso è stata la Congregazione del Cardinale Joseph Ratzinger.
La mia sensibilità non è mai
stata vicina alle modalità comunicative delle “comunità di base” né ha alcun
punto di assonanza con un carattere radicale e conflittuale. Eppure questa
figura di uomo mi ha colpito proprio per la sua trasparente voglia di Fede e di
Umanità.
Proprio per questa apparente
contradditorietà, Don Marco non merita nessuna damnatio memoriae collettiva, e
tantomeno nessuna manipolazione finalizzata a qualsiasi scopo contingente. La procedura
del reintegro e l'osservazione di Vendola testimoniano, su fronti
apparentemente opposti, che davvero nessun figlio può e deve essere escluso
dalla casa materna o in essa tenuto nascosto, come un tempo si faceva in alcuni
casi con i figli portatori di handicap fisici.
Da questa storia sorgono
davvero mille spunti e mille emozioni da cui sarebbe fondamentale e bello
ripartire per tutti, non solo per i figli omosessuali della Chiesa, ma per
tutti quelli che temono di essere vittime di maldicenze e di stereotipi laddove
si venisse a sapere qualcosa che essi tengono nascosto nella mente e nel cuore.
(1) Rocco Pezzano, “Troppo
amore ti ucciderà – Le tre vite di don Marco Bisceglia” (ed.
Edigrafema), pag. 155
(2) ivi, pag. 271
(3) ivi, pag. 191
(4) ivi, pagg. 276 -
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