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La "Luce della Fede" come sguardo pieno sul mondo

di Rocco Gumina

Il 29 giugno scorso è stata presentata l’enciclica Lumen Fidei. L’ultima di Benedetto XVI e la prima di Francesco. Il testo scritto a “quattro mani” e naturalmente firmato dal papa argentino, mostra in maniera evidente la qualità della relazione tra il papa emerito e il nuovo vescovo di Roma. Un rapporto, al di là della dimensione personale, fatto di continuità nell’umiltà, nella chiarezza, nella presa ferma delle responsabilità e di rimando delle azioni da operare. Un legame che ci richiama ai fondamenti del viver da uomini e da credenti con consapevolezza e maturità. Un’enciclica che partendo da questi presupposti viene indirizzata, a parer mio, a tutti i laici credenti e non come quando i primi grandi scrittori cristiani all’alba della cattolicità componevano le loro opere. Un testo che proprio per tali finalità, sembrerebbe una sorta di introduzione - ma allo stesso tempo approfondimento - sul nodo centrale per il cristianesimo e di richiamo per ogni altra credenza: la fede.
   
Con linguaggio semplice e concetti chiari l’enciclica affronta, così, il vulnus per ogni esistenza credente, per ogni uomo apparso sulla faccia della terra: il vedere oltre l’evidente; il sapere oltre il saputo; l’essere conosciuti al di là di se stessi. In sintesi, la relazione comunitaria e personale con Dio. Il vedere e il discernere il mondo e la storia da una posizione diversa da quella solamente umana, eppure radicalmente e profondamente legata all’uomo con il Maestro di Nazareth. 
Il testo ovviamente sviluppa il tema in questione alla luce della visione cristiana del Dio Trinità rivelatosi pienamente in Cristo Gesù. E compie questo con l’utilizzo sapiente della Parola di Dio, della Bibbia che interpella e chiama per nome chiunque sia pronto e voglia ascoltarne il messaggio. Esso non è mai facile da interpretare. A partire, come ci ricorda l’enciclica al numero 19, dal rifiuto da parte di Paolo di giustificare se stessi con le opere, come fanno i farisei, piuttosto che con la fede. Infatti è Dio che agisce, vede, ci interpella nelle nostre profondità nascoste di cui non siamo neanche coscienti, e spetta a noi tendare faticosamente nella storia di ogni giorno una risposta flebile, disordinata, incostante come quando il bimbo comincia a lallare.

Anche se discontinua, manchevole e incerta la fede permette al credente la visione del mondo pienamente in Cristo, come ci ricorda il testo con il riferimento a Romano Guardini. La fede così è un modo nuovo di vedere se stessi, gli altri, le cose. Infatti, l’adesione alla Parola del Signore non estingue sofferenze, prove e dolori e non moltiplica le gioie ma fa vedere, sentire e vivere tutto ciò in un modo radicalmente diverso e nuovo, da convertiti, da uomini nuovi pur rimanendo tali e quali agli altri.

Al numero 24 dell’enciclica si ricorda il legame necessario e vitale tra fede e verità. Verità da intendere non come oggetto a propria disposizione, magari racchiuso dentro un palmo e da utilizzare contro chi non crede; bensì come fatica e dono in perenne accoglienza, movimento, cammino e perciò in divenire. La verità legata alla fede non rende padroni del mondo e degli uomini, ma servi di essi in linea con la sequela Christi. Fede e verità le quali nascono dalla visione di qualcosa o meglio di qualcuno come capita a Giovanni che “Vide e credette” (Gv 20, 8) e a Maria Maddalena “Ho visto il Signore” (Gv 20, 14).
    
Inoltre, come opportunamente precisa il numero 34 dell’enciclica, la fede non può mai essere intesa come esclusiva realtà intima ed individuale. Poiché essa non può far altro che aprire alla dimensione relazionale anzitutto nel riconoscere il Dio della salvezza e dunque anche i fratelli nella fede e tutta quanta l’umanità insieme al creato. Per tali motivi la fede ha “statutariamente” necessità di una dimensione pubblica con la quale operare verso una città affidabile come si ricorda al numero 50.

La luce della fede, pertanto, è in grado di consentire uno sguardo pieno sul mondo. Questo è da intendere senza nessuna pretesa imperialista e/o esclusivista (di conquista e/o emarginazione nei confronti di chi non crede) ma come possibilità per via dell’accoglienza di una proposta capace di dare non la risposta ma un senso, il senso agli interrogativi che gli uomini in ogni epoca, spazio e situazione si pongono. Tale enciclica, dunque, si offre a noi come perfetta sintesi del magistero di Benedetto XVI e lucido proposito per il ministero petrino di Francesco.   


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