di
Severino Dianich
in
“Corriere della Sera” del 1 marzo 2013
Attendiamo
un papa che sia un coraggioso riformatore. Senza un cambiamento
deciso di tanti aspetti della vita della Chiesa e delle sue
istituzioni, la ripresa dell'evangelizzazione non può decollare,
perché in molti Paesi della terra, paradossalmente, proprio certi
aspetti del volto della Chiesa ostacolano quell'approccio simpatetico
con il mondo, la reciproca stima, la disponibilità al dialogo,
indispensabili per comunicare la fede agli uomini.
«Liberata
dai privilegi materiali e politici».
Il
papa Benedetto XVI, che ora ha lasciato il suo ministero, consegna al
suo successore, irrisolto, il problema che egli coglieva
perfettamente, quando nel suo discorso del 25 settembre 2011, rivolto
nella Konzerthaus di Freiburg in Germania ai «cattolici impegnati
nella Chiesa e nella società», guardava a una Chiesa finalmente
«liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici».
Ponendosi implicitamente questo interrogativo, il papa guardava alle
vicende della storia nelle quali la Chiesa veniva «liberata»
forzatamente e così le giudicava: «Le secolarizzazioni infatti —
fossero esse l'espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione
di privilegi o cose simili — significarono ogni volta una profonda
liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per
così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare
pienamente la sua povertà terrena».
La
riforma interiore non basta.
La
santità personale di coloro che operano a capo delle istituzioni
ecclesiastiche non risolve il problema, perché coloro che non
sperimentano dal di dentro la vita della Chiesa ne scorgono il volto
solo dalle sue manifestazioni pubbliche, attraverso i mezzi di
comunicazione, e deducono il loro giudizio dalle immagini che ne
percepiscono. L'uomo contemporaneo non è più disponibile, in nessun
ambito della vita comune, ad approvare a priori tutto ciò che si
decide e si fa in alto: l'emancipazione da ogni forma di autocrazia
fa parte ormai dell'animo dell'uomo contemporaneo. (…). L'annuncio
cristiano è che Gesù, e lui solo, è il Signore, per cui nemmeno
alla Chiesa si conviene di esercitare una signoria sulle coscienze:
il suo linguaggio, pur nel dovuto esercizio del suo magistero, che ha
il carisma dell'annuncio autorevole della parola del Signore, dovrà
essere sempre segnato da un forte senso di sottomissione a Dio e
presentarsi al mondo come espressione di «un pensiero umile».
L'imprescindibile
povertà della forma Christi.
Da
questo atteggiamento di umile condivisione del travaglio del mondo
deriva per la Chiesa anche il bisogno di abbracciare la povertà, la
forma Christi, quella di cui Cristo si rivestì, egli che «da ricco
che era, si è fatto povero» perché noi diventassimo «ricchi per
mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). L'uomo d'oggi, che abbiamo
l'immane compito di evangelizzare, è abituato alle forme di una vita
pubblica marcata da uno spirito democratico e ugualitario. Le stesse
autorità civili si sono spogliate delle forme barocche che
intendevano esaltarne il potere. Ma soprattutto, di fronte allo
spettacolo impressionante della spaventosa miseria di masse enormi di
uomini, nessuno oggi è più capace di tollerare manifestazioni di
ricchezza là dove si predica il Vangelo.
Verso
un'ampia sinodalità.
Già
Antonio Rosmini a metà dell'Ottocento considerava una piaga della
Chiesa la distanza tra i fedeli e i pastori. Che la distanza si sia
molto raccorciata è sotto gli occhi di tutti. Restano però due
fondamentali aspetti dell'ecclesiologia conciliare, che chiedono
ancora alcune riforme strutturali per portare i loro frutti. Tutti
nel battesimo hanno ricevuto una fondamentale consacrazione
sacerdotale, che comprende la grazia e il compito di essere mediatori
fra Dio e gli uomini. Ebbene questa forma ecclesiae di un popolo
cristiano, non destinatario ma soggetto della missione, per
diventare da ideale reale, esigerebbe l'attuazione del principio
della sinodalità. Al livello più alto sta il problema della
collegialità episcopale e, agli altri livelli, quello
dell'attribuzione ai fedeli di una effettiva partecipazione alle
decisioni riguardanti la vita della comunità. Collegialità
episcopale. La collegialità episcopale non può attendere la
straordinaria convocazione di un concilio ecumenico per essere
attuata pienamente. L'esercizio della collegialità intermedia che
venisse a determinare autorevolmente l'andamento comune delle Chiese
di una certa regione,
colmerebbe
il vuoto oggi esistente fra l'autorità del singolo vescovo e quella
del papa, dal quale deriva una situazione di solitudine dell'uno e
dell'altro soggetto. Manca al singolo vescovo il conforto sufficiente
di una decisione collegiale presa al livello più alto e di una
decisione sinodale presa al livello più basso all'interno della sua
Chiesa. (…). Una condizione, però, perché la collegialità possa
mettersi in moto con quelle sue vivaci e feconde dialettiche che
hanno sempre animato i concili, apportando preziosi frutti per la
Chiesa, è che la composizione del collegio episcopale rappresenti
davvero la varietà delle Chiese. L'elezione dei vescovi dovrebbe
tendere quindi a creare un collegio episcopale che non sia
semplicemente esecutivo della linea romana, ma la possa arricchire
con prospettive diverse.
Quale
forma di esercizio del primato?
Infine
merita ricordare la preoccupazione di Giovanni Paolo II, il quale
voleva si cominciasse a progettare, in vista della sospirata unità
dei cristiani, una vera e propria nuova «forma di esercizio del
primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della
sua missione, si apra a una situazione nuova», in vista della
sospirata unità delle Chiese. Così ci si apre davanti un altro
grande spazio nel quale la Chiesa può desiderare che il nuovo papa
sia un coraggioso riformatore.
Con
libertà e fiducia. Oltre a questi complessi ambiti della vita della
Chiesa, nei quali il
rinnovamento
promosso dal Vaticano II ha bisogno di essere proseguito con
coraggio, nuovi problemi al di dentro della vita vissuta nel
quotidiano dal popolo cristiano sono diventati drammatici e stanno
mettendo in crisi il rapporto di molti con la Chiesa, quando non
addirittura la loro fede. Se in Italia, Paese nel quale la tradizione
cristiana ancora continua a essere abbastanza condivisa, solo un
terzo delle coppie, che inaugurano una loro convivenza di tipo
famigliare, lo fa chiedendo alla Chiesa il sacramento del matrimonio,
è evidente l'urgenza di una riforma della disciplina canonica, che
non tradisca il dettato evangelico, ma renda la Chiesa capace di
affrontare positivamente, e non solo con dei divieti, il problema.
(…). Tutti i papi precedenti hanno sentito conforza la gravità di
questa situazione: essa sta passando ora nelle mani del nuovo papa,
il quale potrà aprire nuove prospettive, perché molte sofferenze
possano essere lenite e la fede di molti non sia messa in pericolo.
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