di Jorge Mario
Bergoglio
Omelia del 2 settembre 2012 a Buenos Aires.
L’ascolto della Parola mi ha fatto sentire tre cose: vicinanza,
ipocrisia e mondanità. La prima lettura dice: «Per caso esiste una nazione così
grande da avere i propri déi vicini quanto lo è il Signore nostro Dio a noi?».
Il nostro Dio è un Dio che si avvicina. È un Dio che si fa vicino. Un Dio che
ha iniziato a camminare con il suo popolo e dopo si è fatto uno di loro come
Gesù Cristo, per esserci più vicino. Ma non con una vicinanza metafisica, ma
con quella vicinanza che descrive Luca quando Gesù va a curare la figlia di
Jairo, con la gente che lo spintona fino a soffocarlo mentre un’anziana tenta
di toccargli il mantello. Con questa vicinanza della moltitudine che voleva
azzittire il cieco che con le grida voleva farsi sentire all’entrata a Gerico.
Con questa vicinanza che ha dato animo a quei dieci lebbrosi per chiedergli di
lavarli. Gesù è qui. Nessuno voleva perdersi questa vicinanza, persino il
bambino salito sul sicomoro per vederlo. Il nostro Dio è un Dio vicino. Ed è curioso.
Curava, faceva del bene. San Pietro lo dice in maniera chiara: «Ha vissuto
facendo il bene e curando». Gesù non ha fatto proselitismo: ha accompagnato. E
le conversioni che otteneva erano proprio grazie a questa sua attitudine di
accompagnare, insegnare, ascoltare, fino al punto che la sua condizione di non
essere uno che fa proseliti gli fa dire: «Se anche voi volete andarvene, fatelo
adesso e non perdete tempo. Avete parola di vita eterna, noi rimaniamo qui». Il
Dio vicino, vicino con la nostra carne. Il dio dell’incontro che esce dall’incontro
del suo popolo. Il Dio che - userò una parola bella della diocesi di San Justo
-: il Dio che mette il suo popolo nelle condizioni dell’incontro.
E con questa
vicinanza, con questo camminare, crea questa cultura dell’incontro che ci rende
fratelli, figli e non soci di una ong o proseliti di una multinazionale.
Vicinanza. Questa è la proposta. La seconda parola è ipocrisia. Mi richiama l’attenzione
che San Marco, sempre così conciso e breve, abbia dedicato tanto spazio a
questo episodio - che, nella versione liturgica, è ancora più ampio. Sembra che
se la prenda con quelli che si allontanano, quelli che del messaggio della
vicinanza di questo Dio, che cammina con il suo popolo, che si è fatto uomo per
essere uno di noi e camminare, hanno preso questa realtà, la hanno sviscerata
in una lunga tradizione, la hanno resa idea, puro precetto e, infine, l’hanno
allontana dalla gente. Gesù sì che accuserà coloro che fanno proseliti per
questo: fare proselitismo. Voi percorrete mezzo mondo per fare proseliti e poi
li uccidete con tutto ciò. Allontanando la gente. Quelli che si scandalizzavano
quando Gesù andava a mangiare con i
peccatori, con la gentaglia, a questi Gesù rispondeva: «La gentaglia e le
prostitute vi precederanno», che era la peggior cosa da dire all’epoca. Gesù
non li blandisce. Sono quelli che hanno clericalizzato - per usare una parola
che si capisca - la chiesa del Signore. La riempiono di precetti e lo dico con
dolore e scusatemi, se questa cosa sembra una denuncia o un’offesa, ma nella nostra
regione ecclesiastica ci sono presbiteri che non battezzano bambini nati da
ragazze madri perché concepiti fuori dalla santità del matrimonio. Questi sono
gli ipocriti di oggi. Quelli che hanno clericalizzato la Chiesa. Quelli che
allontanano il Dio della salvezza dalla gente. E questa povera ragazza, pur
potendo rispedire suo figlio al mittente, ha avuto il coraggio di portarlo alla
luce, sta peregrinando di parrocchia in parrocchia affinché qualcuno lo
battezzi. A coloro che cercano proseliti, i clericali, quelli che
clericalizzano il messaggio, Gesù indica il cuore e dice: «Dal vostro cuore
escono le cattive intenzioni, le fornicazioni, i furti, gli omicidi, gli
adulteri, l’avarizia, il male, gli inganni, la disonestà, l’invidia, la
disinformazione, l’orgoglio, la mancanza di stima...».
Bella gente,
eh?E così li tratta: li denuncia. Clericalizzare la Chiesa è un’ipocrisia
farisaica. La Chiesa del «venite, gente, che vi diamo il premio e chi non entra
non entra» è fariseismo. Gesù ci insegna un’altra via: uscire. Uscire a portare
testimonianza, uscire a interessarsi al nostro fratello, uscire a compatire,
uscire a chiedere. Farsi carne. Contro lo gnosticismo ipocrita dei farisei,
Gesù torna a mostrarsi in mezzo alla gente tra gentaglia e peccatori. La terza
parola che mi ha toccato è il finale della lettera di San Giacomo: non
contaminarsi con il mondo. Perché se il fariseismo, questo «clericalismo » tra
virgolette, ci danneggia, anche la mondanità è uno dei mali che minano la
nostra coscienza cristiana. Questo lo dice San Giacomo: non contaminatevi con
il mondo. Nel suo addio, dopo cena, Gesù chiede al Padre che lo salvi dallo
spirito del mondo. È la mondanità spirituale. Il peggior danno
che possa capitare alla Chiesa: cadere nella mondanità spirituale. Per questo,
sto citando il cardinale De Lubac. Il peggior danno che possa capitare alla
Chiesa, persino peggiore di quello di avere avuto Papi libertini. Questa
mondanità spirituale di fare quel che sembra buono, di essere come gli altri,
questa borghesia dello spirito, degli orari, di spassarsela, dello status: «Sono
cristiano, consacrato, clerico». Non contaminatevi con il mondo, dice San
Giacomo. No all’ipocrisia. No al clericalismo ipocrita. No alla mondanità
spirituale. Perché questo dimostrerebbe che siamo più imprenditori che uomini o
donne di vangelo. Sì alla vicinanza. Al camminare con il popolo di Dio. A
sentire tenerezza per i peccatori, per quelli che si sono allontanati, e sapere
che Dio vive in mezzo a loro.
Che Dio ci
conceda questa grazia della vicinanza, che ci salvi dall’atteggiamento
imprenditoriale, mondano, proselitista, clericalista e ci avvicini al Suo
cammino: quello di camminare con il santo popolo fedele di Dio. Che così sia.
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