Nella costituzione di Giovanni Paolo II la possibilità delle dimissioni Il ministero petrino come garante dell’unità della fede
Le
dimissioni di Papa Benedetto XVI dall’esercizio del ministero
petrino per alcuni sono apparse in linea di discontinuità con la
scelta di Giovanni Paolo II a rimanere sul soglio pontificio fino
allo stremo delle energie fisiche. D’altronde, si è detto pure,
ogni Papa è diverso da suoi predecessori, così come anche ogni
esercizio di santità è intessuto di vissuto, di esperienza, di
consapevolezza che lo rende altamente personale. Da un lato lo
slancio eroico, tipica della spiritualità slava, di Wojtyla;
dall’altro la razionalità teologica, propria della mentalità
tedesca, di Ratzinger: entrambi, però, insegnano di una Chiesa che
trova fondamento nel mistero incarnato della Parola di Dio e che è
guidata da forze che travalicano quelle umane.
In
realtà il gesto di Benedetto XVI è molto più vicino di quanto si
possa immaginare alle sollecitazione di Giovanni Paolo II, che nel
promulgare il 23 febbraio 1996 la costituzione apostolica “Universi
Domini Gregis” (la stessa che è attuata in questo Conclave)
esplicitamente al paragrafo 3 prevede una novità di non poco conto:
cioè che la Sede Vacante si apre oltre che per la morte anche per
“valida rinuncia” del Pontefice, facendo riferimento al canone
332 del Codice di Diritto Canonico.
In
più al paragrafo 1 del documento si legge che durante la Sede
Vacante il Collegio dei Cardinali “non ha nessuna potestà o
giurisdizione sulle questioni spettanti al Sommo Pontefice, mentre
era in vita o nell'esercizio delle funzioni del suo ufficio” e, con
tale ultima espressione, si fa chiaramente cenno alla possibilità
del Pontefice di dimettersi.
Che
sia una sorta di apertura profetica oppure semplicemente una
necessaria specificazione per “coprire” ogni evenienza, è
difficile dirlo. Ma, quel che è certo, è che fu proprio Papa
Wojtyla a prevedere esplicitamente, forse pure con un pizzico di
“coraggio”, la concreta possibilità del Pontefice di dimissioni
dall’ufficio di Vescovo di Roma. Come fa notare il vaticanista
Gianfranco Zavoli nel suo testo “Il Conclave. Storia e segreti”
(Newton, 1997), “per la prima volta una Costituzione elettorale ha
ammesso la possibilità di un papato ‘a tempo’, non fosse altro
che per adeguare la strumentazione elettorale alla normativa del
Codice di Diritto Canonico e per fronteggiare eventuali, sfortunate
emergenze che potrebbero ridurre la validità del soggetto papale a
esercitare un ministero ritenuto così complesso ed enorme da
richiedere delle forze personali senza comune misura” (p. 12).
Zavoli sottolinea ancora che l’eventualità introdotta da Giovanni
Paolo II risponde all’esigenza di “dotare il sistema romano d’uno
strumento giuridico adeguato nel caso deprecabile di un’invalidità
tale del Sommo Pontefice da rendergli impossibile l’esercizio delle
potestà, le quali hanno carattere personale e in delegabile” (p.
381).
Si
fa strada quindi nell’età moderna, a cominciare da Giovanni Paolo
II, l’idea di un pontificato che non sia un ufficio “a vita”.
E’ sempre Wojtyla che nell’enciclica sull’impegno ecumenico
“Ut unum sint” del 25 maggio 1995 sollecita una discussione
ecumenica sul ruolo del ministero petrino, ed in particolare sulla
domanda di trovare una “forma di esercizio del primato che … si
apra ad una dimensione nuova” senza però perdere di vista l’
“essenziale della sua missione” (par. 95). La chiave di
interpretazione è velata nelle righe successive in cui Wojtyla
afferma che il primato ha “funzione di unità”.
Gli
studiosi sono concordi nel rilevare che la Chiesa di Roma assume, nel
corso dei primi secoli della cristianità, sempre maggiore rilevanza
per le altre Chiese in quanto interprete e garante ortodossa
dell’unità nella professione della fede; un compito che essa
stessa ha recepito da quello che era il ruolo “arbitrale” di
Pietro nel collegio degli apostoli. E’ proprio Pietro a
pronunciare, infatti, la prima professione di fede nell’incertezza
degli altri: “Disse loro: ‘Voi chi dite che io sia?’. Rispose
Simon Pietro: ‘Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente’”
(Mt 16, 15-16). E su queste parole decise nasce la Chiesa di Cristo:
“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le
porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18).
Il
ministero petrino in questo modo si configura non come una
particolare situazione di potere governativo e di supremazia, quanto
piuttosto come necessità di sintesi e di conciliazione all’interno
delle stesse comunità locali che, raccordate unitariamente, tendono
verso la “cattolicità”, cioè l’universalità della fede
cristiana. L’essenziale, irrinunciabile si intende, della missione
petrina si deve leggere proprio all’interno di questo ruolo di
catalizzatore dell’unità ritrovata dalle Chiese nella Parola
evangelica del Maestro di Nazareth. Lo stesso termine “pontefice”,
nella sua etimologia latina deriva da “pontem facere”, e cioè
dall’essere costruttore di ponti. Proprio un bel messaggio nel
tempo in cui le dimissioni di Benedetto XVI spersonalizzano il
ministero del Papa per porre l’accento sull’ essenza concreta di
segno di cattolicità.
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