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Elogio del modernismo


Cosa rappresentò il movimento modernista nella storia della Chiesa?
Domanda spontanea e che tuttavia e dubbio se consenta risposta: giacché nessuno può sapere se il mutare dell'atteggiamento della Chiesa non sarebbe stato lo stesso senza il moto modernista, se questo abbia accelerato o ritardato (la reazione che suole aversi al prospettarsi di un pericolo, e che suole eccedere per dimensioni il pericolo stesso) quel mutamento.
Il modernismo nasceva dalla esigenza di quella parte delle classi colte non distaccata dalla religione, di averne una meno ancorata a risposte date molti molti secoli addietro, magari nel mondo degl'imperatori cristiani di Bisanzio, meno legata a problemi, a preoccupazioni scomparse dall'orizzonte dell'uomo europeo da qualche secolo; dalla esigenza di una religione fatta per gli uomini e che non può prescindere dall'uomo storico qual e in un dato momento, né pretendere di dare agli adulti il pane degl'infanti.
Ma sorgeva altresì da una posizione particolare dell'ultimo ottocento, la grande fede nella scienza, nella risposta definitiva che questa in ogni ambito poteva dare. La storia della creazione, i libri sacri, la tradizione, andavano coordinati con la scienza; questa non poteva errare (perché non si dubitava delle risposte definitive della scienza, ne si pensava che un'altra generazione avrebbe potuto modificarle od annullarle).

Intorno al 1900 nel mondo della cultura laica gia cominciava la crisi di questa fede nella scienza; ma era naturale che nei seminari, tra il giovane clero, giungesse col ritardo di una generazione. E quel problema della conciliazione di scienza e fede, che per le generazioni attuali non è più tale (anche per l'ampia libertà lasciata dagli ultimi Papi di opinare in tutto ciò che non è strettamente articolo di fede), appariva assillante in anni ov'era diffusa una forma mentale per cui sembrava possibile perdere la fede se un iota di ciò che si riteneva dogma apparisse inaccettabile. Non si può comprendere questa storia pur recente senza ricordare tale diffuso sentire: se un solo punto della Rivelazione crolla (o pare crollare), tutto si dissolve. Positivismo, mentalità scientifica, davano ai credenti l'assillo di una religione con stretto sistema logico, ove, rivelatosi falso un passaggio, perdono valore tutte le conclusioni successive.
Per Buonaiuti era compito essenziale dei sacerdoti della sua generazione eliminare il «contrasto fra le conclusioni delle discipline morali e storiche applicate al fatto religioso e al fatto cristiano, e le proclamazioni cosiddette infallibili degli ultimi concili ecumenici, di Trento e del Vaticano ».
Sulla formazione dei modernisti influiva anche quella reazione all'immobilismo, quel culto dell'azione, del rinnovamento, ch'era pur esso nello spirito del tempo.
È oggi opinione pur di ecclesiastici d'indubbia ortodossia che la reazione antimodernista tagliò ad un tempo il grano ed il loglio (qualcosa di simile era avvenuto anche alla controriforma). E se la naturale ripugnanza della Chiesa a tutto ciò che possa avere l'aspetto di una resipiscenza fa sì che si continui ad imporre il giuramento antimodernista, sta che oggi sono tesi comunemente accolte quelle che nel decennio posteriore al 1907 sarebbero state esposte a sicura condanna. La parte più sana del modernismo – so­prattutto del filone storico e politico – è oggi accettata.
Forse la miglior giustificazione delle condanne pontificie sta in quel che la dottrina modernista aveva di vago, di suscettibile d'interpretazioni individuali: la Chiesa non può non preoccuparsi che la massa dei credenti conosca ad ogni ora concretamente ciò che deve credere, ciò che è di fede.
Quel che non si riuscirà mai a giustificare è la caccia ai modernisti sulla base di sospetti, di delazioni, di abusi di fiducia a danno di amici; in cui emersero ambigui personaggi, non certo onore dell'abito talare. Per anni nel clero si respiro un'aria avvelenata; ogni parola, ogni riga, poteva, male interpretata, dare luogo ad un'accusa. Anche eminenti cardinali avvertirono quel malessere.
Ho sempre scorto una certa armonia di ritmo (sarebbe troppo dire parallelismo) tra la controversia fra giansenisti e gesuiti nel sec. XVII e quella tra gesuiti e modernisti all'inizio di questo secolo. I giansenisti erano per l'immobilismo; la Chiesa non doveva preoccuparsi dei nuovi atteggiamenti dello spirito europeo dopo il rinascimento, non della ripugnanza che l'uomo moderno poteva provare per certi insegnamenti: la dannazione con pena sensibile dei bambini morti senza battesimo, il diniego della grazia ai non eletti, l'umanità massa dannata con pochi salvi. Gl'insegnamenti di Sant'Agostino dovevano valere per ogni secolo; diffidavano anche della critica storica, di Richard Simon.
La teologia gesuitica rispondeva alle esigenze del tempo, rendeva la giustizia di Dio comprensibile, comunque non ripugnante, agli occhi umani. Potevano esserci rilassamenti soverchi nella morale; peraltro i casisti erano fini analizzatori del cuore umano, comprendevano l'impossibilità di rinchiudere entro rigide categorie, entro poche leggi generali, l'infinita varietà dei casi, le infinite scelte dell'uomo.
Quest'opera di rendere la fede accetta all'uomo contemporaneo, da lui assimilabile, volle essere pure l'impresa dei modernisti; e le voci di diniego e d'immobilismo, che partivano dalla «Civiltà cattolica », echeggiavano quelle dei giansenisti.

Arturo Carlo Jemolo,1964

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