1.La
fede che opera mediante l’amore
Si
potrebbe partire da un’idea molto semplice : quello che Dio ci dice
sull’uomo essenzialmente è che l’uomo è chiamato a decidersi
nella carità per la fede o, che è la stessa cosa, nella fede per la
carità; perché i contenuti di queste due virtù fondamentali,
fede e carità, sono identici. Vale a dire: la fede è l’atto col
quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente,
secondo la bellissima descrizione data dalla Dei Verbum; quindi
l’atto col quale liberamente l’uomo aderisce al disegno di Dio è
l’atto di fede.
L’uomo
è colui che è chiamato ad aderire a un disegno, con un atto di
libertà, con un’opzione fondamentale, è chiamato a far suo o a
respingere un disegno, una concezione, un progetto di uomo che
Dio ha.
Questo
atto col quale totalmente e liberamente l’uomo fa suo il disegno di
Dio noi lo chiamiamo atto di fede, che è l’atto salvifico, mentre
l’atto di perdizione, il “peccato”, è quello col quale
l’uomo, invece di far suo il disegno di Dio, lo respinge. D’altra
parte, questo disegno di Dio è un disegno di amore reciproco:
cioè Dio ci convoca, ci chiama a costruire una chiesa, cioè
una convocazione di persone che si amano. Il progetto che Dio ha
sull’uomo consiste nel fatto che l’uomo non deve trovare in
sé la ragione del suo esistere, ma fuori di sé, quindi nella
carità: la carità è non fermarsi a trovare in sé la ragione
del proprio esistere, ma trovarla fuori di sé. Nell’altro, in
pratica, negli altri.
In
questa idea consiste l’antropologia rivelata ridotta proprio
all’osso. Che cosa è l’uomo? Egli è la creatura chiamata a
liberamente decidersi nella fede per la carità. Se decide per il sì,
si dà senso, entra nella vita, nell’immortalità; se invece
decide per il no, si nega senso e va nella morte, cioè l’inferno
(io non so cos’è l’inferno, chiedetelo ai dogmatici). A questo
punto noi abbiamo ritrovato un principio etico discriminante del
bene e del male che è un principio tipicamente rivelato da Dio.
Ciò
che discrimina il bene dal male è questa decisione dì fondo, questa
decisione radicale, questa opzione fon damentale dell’uomo per
o contro la carità. Sono buone tutte le condotte esprimenti
la carità, e sono cattive (chiamiamole così) tutte le condotte
devianti dalla carità. Non è una cosa da poco aver trovato
questo principio discriminante: esso è così assoluto e così
radicale da costituire un ancoramento sicurissimo del discorso
morale.
Tutte
le volte che si accusa la morale cristiana, come viene fatto oggi, di
essere una morale relativistica, che non ha più principi assoluti
immutabili a cui riferirsi, si dimentica che tutta la costruzione
morale parte dall’aver individuato questo come un principio
assolutamente sicuro e assolutamente incontestabile perché
accolto per fede: dal punto di vista puramente razionale infatti non
è così facile dire che la soluzione buona, profittevole, che mi dà
vita, è la soluzione della carità e non quella del pensare a
me stesso. Razionalmente non è tanto facile dimostrare questo
principio.
Cioè
accolgo veramente per fede l’affermazione secondo cui il principio
morale che mi dà vita come uomo è la scelta della carità, quella
di uscire fuori da me, di dare la vita per gli altri, non quella di
pensare unicamente a me stesso. Ci vuol fede per accettare un simile
discorso che sembrerebbe continuamente contestato e negato
dall’esperienza concreta. Sembrerebbe di dover dire, partendo
dall’esperienza individuale, che più una bada a se stesso e meglio
è. Invece no, qui mi si dice che meno bado a me stesso e più
agli altri, più mi realizzo come persona: questo è certamente
un discorso che non è così facile accettare al di fuori del
contesto della parola di Dio che io accolgo per fede, perché
non riesco a elaborarlo con la mia ragione. In base a questo
principio si trova un ancoraggio sicurissimo del discorso
morale: l’aver messo questo piolo, questo gancio supremo che
serve a discriminare le condotte eticamente costruttive (cioè quelle
che mi fanno attuare il progetto di uomo che io sono, che sono
quelle di carità) e le condotte eticamente distruttive (che
sono quelle che mi allontanano da questo progetto, che sono basate
sull’egoismo).
2. Le
indicazioni concrete
Continuando
il nostro discorso, adesso noi abbiamo l’esigenza intrinseca,
imprescindibile di dare corpo, di riempire di contenuto questa
opzione fondamentale che è l’opzione per la carità. Noi non
viviamo solo in quell’istante in cui ci decidiamo per la carità o
per l’egoismo. Noi viviamo una vita intera, fatta da mille
scelte quotidiane, se volete più categoriali, più superficiali su
su fino alla puntualità momentanea del comportamento morale: si
tratta allora di trovare un accordo tra esse e quella decisione
di fondo. La mia idea è che proprio nel campo di questi
comportamenti specifici,cioè nel campo delle decisioni più concrete
e più analitiche di quanto non sia questa decisione estremamente
sintetica e omnicomprensiva (“mi decido per la carità”), io devo
stabilire inconcreto cos’è la carità.La carità in questo
momento è star qui a parlare con voi, o andare a pregare, o mettersi
tutti a bere del buon wishky (che comunque non ho), o, che so
io, è piantare lì l’Italia e andare in Brasile,o smettere di fare
il prete per sposarmi, o continuare a fare il prete rinunciando a
sposarmi,cioè la carità, adesso, in concreto, cos’è? Come
comportarsi? La proprietà privata è carità o egoismo?
Il matrimonio è carità o egoismo? Ecco siamo a questo livello
adesso, a livello di scelte più o meno profonde, più o meno
superficiali, ma che devono essere giudicate a partire dal
principio discriminatore della carità.
E
a questo punto io esprimo un parere, (non so quanto è accettato,
comunque io ne sono convinto) che cioè a questo livello la
rivelazione di Dio non dice più niente: o meglio, nelle fasi
concrete in cui si esprime (compresa la fase biblica) la rivelazione
di Dio dice molte cose cioè
contiene
norme, imperativi, direttive, che riguardano i singoli settori della
vita morale, ma nel dire queste cose non dice nulla che sia
imprescindibile, che sia immutabile, che sia perpetuo, che
sia eterno, ma assume le strutture culturali che via via la
convergente esperienza dell’uomo viene costruendo e che
appaiono in quel momento le più capaci di veicolare invece del
disvalore dell’egoismo il valore della carità.
Facciamo
un paragone impegnativo. Quello che riguarda il matrimonio. Il
matrimonio è una struttura culturale, diciamo così, che la
convergente esperienza degli uomini, almeno per quello che noi
conosciamo, è riuscita a costruire (cioè matrimonio nel senso di
convivenza, non solo fisica, ma spirituale tra l’uomo e la
donna), perché dentro di essa è più facile alla sessualità di
esprimersi in termini di carità anziché in termini di egoismo.
Se io inserisco l’esercizio della sessualità in questa struttura
(definitiva o quasi: si potrà poi discutere se è una definitività
totale, una indissolubilità assoluta), insieme sociale e
spirituale che è il matrimonio, mi è più facile gestire la
sessualità in termini non di egoismo, cioè di attuazione di
profitto, di edonismo, di piacere, ecc., ma in termini di amore,
di oblatività, di personalizzazione, di fruttuosità sociale e via
dicendo. Questo per dire che anche il matrimonio, che potrebbe
apparire come una delle strutture più permanenti che sembra di
poter ritrovare ovunque, almeno in certi aspetti fondamentali,
è esattamente, una struttura. In altre parole, è Dio che dice:
non potete gestire la sessualità completamente se non dentro il
matrimonio, ma non come parola esplicita, diretta, immutabile, bensì
come traduzione dell’esigenza di carità a livello sessuale in un
tipo particolare di esperienza umana che è la nostra, che è
quella che noi abbiamo.
Di
fatto l’uomo, mettendoci magari dei millenni ha fatto l’esperienza
che se gestisse la sessualità al di fuori di questo contesto, troppo
spesso la sessualità diventerebbe tramite di egoismo; se la
gestisse invece in questo contesto più facilmente la sessualità
diventerebbe veicolo, tramite, canale di carità, darebbe la
capacità di uscire fuori da sé per integrare la sessualità in un
discorso di carità che è un discorso molto più vasto di
quanto non sia il discorso sessuale stesso.
Ma
la stessa cosa si può dire di tutto. Non so, prendete ad esempio un
altro imperativo molto classico e sacro che è quello del non
uccidere. C’è questa struttura culturale che è la tutela della
vita fisica. La comunità s’impegna a tutelare la vita fisica
e ognuno sente, avverte, s’impegna a tutelare, a difendere, a
non oltraggiare, a non sopprimere la vita fisica degli altri. Noi
esprimiamo questo tipo di struttura culturale, attraverso un
imperativo etico molto categorico che dice: “Tu non ucciderai”.
Anche
questa è una struttura culturale che è il frutto di una esperienza
comune degli uomini,questa forse più facile e più elementare
che non l’altra, che è il rispetto della vita altrui. La non
uccisione dell’altro è un segno autentico di carità, è un
modo per veicolare la carità (che poi voi la chiamate carità o
in qualche altro modo, come uscire fuori da sé, non importa). Anche
questa, che pure è così sacra, ammette, come tutte le strutture
culturali, delle eccezioni,
che
però sono eccezioni anch’esse strutturate, cioè non sono
eccezioni arbitrarie che l’uomo fa: è la stessa convergente
esperienza umana che, mentre ha detto «tu non devi uccidere», ha
soggiunto, magari con variazioni a seconda del tempo e dello
spazio, «non però, ad esempio, nel caso della legittima
difesa, oppure nel caso della guerra, o nel caso della inutilità
della vita». Oh, io non dico che tutte queste strutture
culturali dobbiamo accoglierle o no, però, di fatto, è interessante
notare come, mentre si elabora una struttura normativa, che è
la carità, si elaborano anche strutture che rendono la carità
stessa praticabile.
3.
Morale cristiana e morale laica
Allora
è da questo punto di vista che in fondo sempre più noi comprendiamo
come la cosiddetta morale speciale (la morale che si occupa
delle condotte settoriali, categoriali degli uomini nei singoli
ambiti, non so, l’ambito sessuale, politico, sociale, economico, la
morale speciale, quella che si studia dopo la cosiddetta morale
generale) appare di marca non tipicamente cristiana, cioè
non tipicamente rivelata. Essa si presenta piuttosto come una
normativa stabilita secondo il tempo e il luogo, da
un’esperienza antropologica accettabile, universale in
quell’ambiente e in quel tempo.
Essa
avviene attraverso strutture particolari, le quali sono più capaci
che non altre di veicolare,tradurre - in quel contesto
storico-ambientale - quella esigenza di fondo che è il decidersi per
la carità, il decidersi per l’altro.
Il
cristiano, che è sollecitato da quello che chiamavo prima
ancoramento, che è sollecitato da questa intuizione sinteticissima
sull’uomo: “tu devi deciderti nella fede per la carità”, va
alla ricerca criticamente, entro il tempo e luogo in cui vive,
di quelle strutture di comportamento speciale (cioè in
ciascuno dei settori della vita e della condotta morale) che più di
altre esprimono la sua urgenza interiore di carità, non
fidandosi di sé soltanto, del suo arbitrio, ma affidandosi a questa
sapienza morale, a questa saggezza normativa che la comunità
umana sa esprimere da sé in ogni tempo e in ogni luogo. Questo
pensiero dà molta sicurezza all’uomo, perché non è solo a
decidere, si affida all’esperienza antropologica, morale, del
tempo e del luogo; ma insieme relativizza molto il discorso
morale, perché si tratta di strutture sì fondamentali a cui mi devo
riferire, ma non così permanenti e immutabili com’è la
decisione di fondo che dà senso alla mia vita, quella per la
carità.
Faccio
un esempio che mi sembra molto espressivo: in alcune tribù vi è un
particolare costume sessuale, che è quello di considerare
definitivamente sancito il matrimonio soltanto dal momento in cui
la donna resta incinta. Se da questa unione uomo-donna (che noi
chiamiamo il matrimonio) a un certo punto salta fuori il
bambino, quel matrimonio è definitivo ed è tutelato con un
rispetto, con delle garanzie che sono anche più stringenti di
quelle dei nostri matrimoni. Se invece entro un dato periodo,
non so, entro due anni, non viene il frutto di questa convivenza
uomo/donna, quella convivenza non si considera matrimoniale, e
ciascuno è libero di instaurare un altro rapporto in ordine al
bene della fecondità. Ora questa evidentemente è una struttura
tempo-culturale, però io dico che probabilmente è frutto di una
millenaria saggezza la quale ha intuito quanto importante sia il
valore della fecondità in quel contesto, per la sopravvivenza
della famiglia, della tribù e di tutti i beni sociali che
sono collegati con la fecondità e così via, e ha tutelato
l’adempimento, il conseguimento di questo bene immenso che è
la fecondità, attraverso questa particolare struttura culturale,
questa particolare struttura morale, secondo la quale il
matrimonio, o meglio la coabitazione uomo/donna che non ha
possibilità di fecondità non si considera definitiva.
Il
problema è posto talvolta da certi missionari: «Ma qui vi è un
comportamento contro la morale sessuale, perché questi due vanno
insieme sessualmente e non sono ancora sposati in maniera definitiva,
anzi è una specie di matrimonio di prova, che se gli va bene, bene;
se non gli va bene... Questa è una prassi che noi non possiamo
accettare dal punto di vista della morale cristiana».
Ecco
noi dovremmo rispondere: «Ma cosa dice la morale cristiana? Non dice
niente su questi problemi. La morale cristiana dice: “Tu devi
vivere la sessualità in termini di carità”, cioè in termini non
di comodo personale, ma di servizio degli altri».
Allora
in questo particolare contesto storico in cui certi valori sono
sentiti come preminenti sugli altri (io non dico che il valore delle
fecondità sia più importante di tutti, anzi, un certo tipo di
antropologia sessuale in cui siamo inseriti oggi ci fa capire
che la sessualità non è tanto orientata alla fecondità,
quanto piuttosto a tanti altri beni personali che non sono la
fecondità), però la fecondità è comunque un bene: perciò
entro quel contesto specifico gestire la sessualità in ordine alla
carità vuol dire gestire la sessualità in ordine alla fecondità.
Questa è una gestione della sessualità in ordine alla
fecondità, tant’è vero che si perpetua in convivenza definitiva,
e dunque educativa, se la fecondità c’è; invece cessa di
dar luogo a una convivenza se la fecondità non si verifica.
Allora se ci domandiamo: questo tipo di gestione della sessualità è
un diversivo edonistico, egoistico, privatistico,
individualistico? No! è una gestione della sessualità in ordine a
un bene comune, a un bene sociale, a un bene di tutto il gruppo,
avvertito in quel momento come preminente, che è il bene della
fecondità.
Perciò
il cristiano che viene a contatto con singole strutture culturali,
evidentemente è privilegiato rispetto ad altri. Perché? Perché
dispone di questo punto di ancoramento di cui abbiamo parlato,
vale a dire della convinzione di dover vivere non per profitto
personale, ma nell’esercizio della carità. Questo
accostamento alle strutture gli dà già, direi, un criterio di
giudizio su di esse, che gli consente di discernere quelle che
sono conformi al disegno di Dio, perché capaci di tradurlo, e
quelle invece che sono difformi, perché invece di tradurre la
carità, traducono l’egoismo.
Quindi
al primo posto c’è l’idea rivelata della fede/carità: «l’uomo
è chiamato alla fede/carità».
Al
di sotto c’è la riflessione antropologica-morale della vita, che
si richiede in quel contesto, in quel tempo, che indica come
devo incanalare questa urgenza di fede/carità: quindi io sono
guidato anche da queste strutture culturali, grandi o piccole.
Non so, io potrei chiedermi: il codice della strada è una
piccola struttura culturale, qual è il suo significato dal punto di
vista cristiano? La risposta è che esso consiste nella
capacità di trasmettere, attraverso queste serie dì regolazioni, a
volte persino troppo analitiche, le esigenze del rispetto
altrui, della carità. Al di sotto poi di queste strutture c’è la
libertà del singolo, cioè una certa libertà di gioco.
Queste
strutture hanno una permanenza più o meno grande. Per stare nel
campo sessuale, Levi Strauss scrive che la proibizione
dell’incesto è una grande struttura culturale in cui si esprime
il senso della sessualità. Ovunque noi troviamo che l’incesto
è proibito. Va bene. Questa è una struttura più permanente
che non, supponiamo, la proibizione dei rapporti prematrimoniali.
La proibizione dei rapporti prematrimoniali nel senso inteso da
noi è una struttura culturale che noi troviamo molto meno
operante, molto meno diffusa, molto meno permanente. Poi possono
esserci delle strutture ancora più provvisorie. Quindi c’è
un insieme di strutture culturali delle quali talune sono più
permanenti altre sono più provvisorie; al di sotto di tutto queste,
nell’analiticità del comportamento, c’è la decisione
personale del singolo, dell’individuo, il quale opta per
alcune scelte che gli sembrano più espressive di carità che
non altre, e respinge quelle invece che gli sembrano
espressione di egoismo, con una certa libertà personale. Allora di
autenticamente cristiano in tutta la morale cosiddetta speciale
non c’è che la risposta al disegno di Dio rivelato sull’uomo, in
forza della quale l’uomo è chiamato a decidersi nella fede per la
carità. È importante poi che questa decisione dia
materia, contenuto, alle singole scelte quotidiane, se no è
tutta un’illusione. Ma, mentre dà contenuto, fa fare
contemporaneamente l’esperienza che tutta questa materia di
cui riempie la sua scelta fondamentale è indispensabile alla scelta
stessa, se non on vive la carità se non a parole e non invece
in verità, nei fatti (come dice s. Giovanni). Ma nello stesso tempo
ha l’esperienza che queste scelte in cui cerca di trasmettere
l’urgenza di vivere la carità sono provvisorie, sono scelte
che valgono qui adesso e che potrebbero non essere tali e
quali materialmente altrove e in un altro momento. Se vogliamo
fare un discorso oggettivo, c’è la parola di Dio che mi invita
alla fede/carità: sotto
questa
parola di Dio che mi invita alla fede/carità ci sono tutte le
strutture culturali che servono (anche alla parola di Dio) per
veicolare momento per momento e luogo per luogo la decisione di fede
e carità; più in profondità, ci sono le singole scelte libere e
individuali.
A
questo discorso oggettivo, estrinseco all’uomo, corrisponde tale e
quale il discorso soggettivo e intrinseco all’uomo. Nell’uomo
c’è la scelta fondamentale, l’opzione fondamentale che è quella
trascendente tutti i condizionamenti, con la quale l’uomo si
decide per la fede/carità in modo globale, sintetico,
onnicomprensivo. Poi ci sono le scelte, le decisioni più analitiche,
categoriali, tematiche che riguardano i grandi comportamenti
della sua vita che egli assume per dar contenuto alla sua
scelta fondamentale, desumendole, per così dire, da una
regolamentazione che viene da queste strutture culturali. E
infine ci sono tutte le altre scelte più analitiche, che egli fa di
volta in volta, che sono più puntuali, più superficiali, più
lontane dall’opzione fondamentale perché sono più libere
rispetto ad essa.
4.
Il compito della Chiesa
Qual
è allora il ruolo della Chiesa in campo morale? Se intendiamo per
Chiesa il popolo di Dio guidato dai suoi pastori, è da 2000 anni che
essa è in mezzo a questi uomini, è da 2000 anni che fa una
certa esperienza, che conduce avanti certe vicende antropologiche, fa
anch’essa una sua
esperienza
di umanità, che è una esperienza, direi, particolarmente
qualificata. Essa infatti riconosce con chiarezza, cosa che
magari altri non fanno, che ciò che dà senso alla vita è la
decisione in favore della carità, mentre ciò che rinnega la
vita, la sbriciola, l’annulla, dà la morte, è la decisione per
l’egoismo.
Ora
quando io accosto un’esperienza umana culturale di qualsiasi genere
a partire da questa convinzione di fondo che ritengo immutabile, io
sono avvantaggiato nel giudicare le singole
strutture
culturali perché ho un punto di riferimento che magari altri non
hanno: io l’ho per fede. Quindi in questo senso, proprio perché ho
molto più chiaro di tanti altri il fine a cui tendere, vengo anche
di riverbero avvantaggiato nell’illuminare e verificare i mezzi in
rapporto al fine. Non però, a mio avviso, perché vi sia una
particolare assistenza dello Spirito Santo. A meno di vedere
questa assistenza nel fatto che, se tutte queste strutture
morali, pur restando momentanee, si solidificano e diventano
stabili, ciò non può avvenire se non per una volontà di Dio. È
Dio infatti che conduce la storia e fa emergere da queste
esperienze di uomini la formulazione ideale di una condotta che
è salvifica perché ispirata dalla carità, diversamente da
altre che sono perditrici perché espressione di egoismo. Dio è
veramente presente in tutto questo grande processo che porta questa
piccola umanità che noi siamo, che è in viaggio su questo
piccolo pianeta emarginato nell’universo da milioni di anni, a
prendere sempre più coscienza che il progetto di Dio su di noi, come
su tutto l’universo, è di instaurare tutte le cose in Gesù
Cristo, cioè nella carità.
Con
un milione di anni alle nostre spalle, attraverso una serie di
vicende storiche, di intuizioni spirituali, profetiche di tante
persone, attraverso la particolare vicenda di una Chiesa che da
2000 anni è l’erede di un messaggio particolare, che è
quello di Cristo, noi riusciamo a capire sempre meglio qual è
il progetto di uomo che ciascuno di noi deve attuare per avere
l’immortalità che è la più profonda aspirazione dello
spirito umano. Perciò il vero compito della Chiesa è quello di
creare quei presupposti per cui un uomo si decide per la carità,
non quello di imporgli le strutture da essa elaborate. In altre
parole, essa deve aiutarlo a utilizzare quei presupposti che già
esistono,scegliendo fra essi quelli che gli permettono di essere più
solidamente ancorato sulla carità che non su altro.
Per
esempio, ai missionari si può dire: «Andate molto adagio a
distruggere le strutture sessuali che hanno alle spalle
l’esperienza secolare di questi popoli, di queste tribù, con le
quali essi hanno saputo esprimere il meglio possibile
all’interno di un particolare tipo di civiltà, quelle
esigenze permanenti di bene comune che per noi sono esigenze
permanenti di carità». È lo stesso discorso che si fa da noi.
È come una che si alza al mattino e dice: «Oggi non è più
proibito il rapporto prematrimoniale». Un momento, io dico: questa è
una struttura che alle spalle ha una sua tradizione, una sua
serietà. Siccome è una struttura culturale, non è la parola di
Dio. Quindi possiamo anche renderci conto che a un certo punto
che va storicizzata e va dunque anche mutata. Però uno non inventa
tutto d’un tratto le nuove strutture dentro le quali è certo di
veicolare la carità rispetto ad altre. Ma lo stesso preciso
discorso che questi moralisti fanno molto bene qui, per dire
«non tocchiamo certe strutture», si guardano bene dal farlo
laggiù, perché vanno e dicono: «No quello che fate voi, di
andare a letto insieme e di considerare definitiva la vostra unione
solo quando c’è di mezzo il bambino, questo è immorale, non
va bene, va cambiato!»
È
l’identico discorso: può darsi che sia una struttura imperfetta,
che deve essere mutata, proprio perché storica deve essere
storicizzata e quindi a un certo punto può benissimo essere
cambiata, ma a patto che ci sia una altra struttura e che sia
così bene solidificata da sapere altrettanto bene, anzi meglio
di essa, veicolare i valori della carità e non dell’egoismo. Ora è
incredibile vedere come l’estrema fedeltà che molti mostrano
di avere verso la tradizione morale del loro ambiente vada di pari
passo con l’assoluta infedeltà alla tradizione morale di un
ambiente diverso. Questo è un errore perché il cristiano come
del resto ogni uomo, non è da solo, è dentro una comunità, la
quale ha sperimentato e sta ancora sperimentando quali sono le
condotte che verificano l’uomo, e quali sono invece quelle
che lo distruggono come uomo. Certo si può anche contestare tale
esperienza, però bisogna andarci piano. La cosa incredibile è
che moralisti di questo stampo, che rinnegano completamente il
profetismo da noi e dicono che «non è possibile che uno si erga
sopra la comunità a dire una parola nuova rispetto a quella che
dice la comunità», poi altrove ammettono tale profetismo come
pane quotidiano.
Quindi
è vero, io non ho come cristiano una parola particolare da dire, per
esempio sul problema della pillola, o sul problema della pornografia,
o sul problema dei rapporti prematrimoniali. Come cristiano non ho
altro da portare se non questa affermazione: «sono valide quelle
strutture che mi aiutano a realizzarmi nella carità; sono invalide
quelle che mi spingono a cadere nell’egoismo». Che certe
strutture piuttosto che altre siano espressione di egoismo non
mi viene dal giudizio perentorio e inappuntabile della parola di
Dio: mi viene dall’esperienza umana vissuta in modo onesto e
sincero, se non pretendo di capir tutto subito in un mese, ma mi
affido a una valutazione che può comportare anche anni e anni
di ripensamento, di riflessione e di studio e di esperienza. In
un arco di 20 anni succedono tante cose. Stiamo a vedere cosa
succederà, ad esempio, per quanto riguarda problemi quali la
regolazione delle nascite e i mezzi di contraccezione.
5.
L’infallibilità in campo morale
Nella
prospettiva finora delineata, come valutare il ruolo del magistero in
campo morale?
Potremmo
rispondere in questo modo: «Quanto più io riesco a collegare con
l’esplicita parola di Dio un particolare comportamento, tanto
più so che è infallibilmente quello buono». Ma siccome questo
collegamento è tanto più remoto quanto più i comportamenti in
questione sono analitici, il giudizio di infallibilità deve
essere sottoposto a verifica perché, se no, corriamo il rischio
di «infallibilizzare» tutto.
Cosa
vuol dire infallibilizzare una affermazione di morale? Vuol dire
attribuirla direttamente a Dio. Perché è infallibile ciò che dice
Dio, non ciò che dice l’uomo: ciò che dice l’uomo è
sempre fallibile. Ora infallibilizzare un’affermazione di
carattere morale vuol dire ritenere che essa provenga da Dio. Ma
la dice veramente Dio? Dal punto di vista morale siamo sicurissimi
che quello che Dio dice è: devi vivere nella carità, questo
sì! ma adesso, è Dio che mi dice di non usare la pillola? o è
l’esperienza umana di un particolare ambiente che ti dice «l’uso
della pillola è normalmente un mezzo di strumentalizzazione
egoistica e non invece un mezzo di apertura nell’amore? Bene!
Questa affermazione è infallibile nella misura in cui è infallibile
questa esperienza umana, ma l’esperienza umana non è di per
se infallibile.
No!
Si è tanto più sicuri che c’è l’infallibilità quanto più
l’affermazione morale si avvicina al nucleo fondamentale che il
cristiano porta innanzi come discorso morale, il principio cioè
della carità. Quanto più invece è un’applicazione sempre più
ramificata, analitica, dunque attenuata, di questo nucleo, anche
l’infallibilità si attenua. Riguardo alle strutture culturali, io
partirei dalla
constatazione
di fatto che su certi problemi, sia la Chiesa a livello di magistero
che le persone che si riconoscono in essa, sono andate fuori
strada, imponendo comportamenti che a volte sono in rottura con
tutta una struttura culturale. Ciò è imputabile al fatto che si
sono dogmatizzate e infallibilizzate delle affermazioni che non
erano né dogmatiche né infallibili. Facciamo il caso classico: la
ragione per cui ci si è opposti per un sacco di tempo a ogni
apertura al comunismo è stata la difesa a oltranza della
proprietà privata, perché la Chiesa riteneva che fosse patrimonio
rivelato da Dio, che la proprietà dei beni fosse organizzata
privatisticamente e non comunisticamente. Ora, perché i cristiani
sono andati fuori strada? Non per fedeltà ma per infedeltà alla
parola di Dio. Se fossero stati fedeli alla parola di Dio
avrebbero semplicemente trovato in essa che l’assetto economico
deve rispondere alla esigenza di carità, e dunque può essere
che l’assetto privatistico sia espressivo di carità, ma può
esserlo anche quello comunistico.
Quanto
più uno è vincolato al fine, tanto più è svelto nell’accettare
la mutabilità dei mezzi. Il ritardo è proprio da imputare quasi
sempre al fatto che si è voluto attribuire esplicitamente a
una immutabile parola di Dio ciò che invece appartiene
puramente e semplicemente a una esperienza culturale entro la
quale la parola di Dio è stata interpretata. La cultura in cui vivo
è il luogo di risonanza e di interpretazione della parola di
Dio, adesso. Qui e adesso la parola di Dio risuona attraverso la
cultura, mettiamo, politica, economica, sociale... Perché dobbiamo
sostenere il regime democratico? Perché il tipo di cultura
socio-politica in cui siamo inseriti ha fatto l’esperienza che qui
e adesso, magari non in Africa e non due secoli fa o tra due secoli,
l’organizzazione democratica del potere è il meglio che si
possa dare per garantire il bene comune e non il profitto
individuale (cioè in termini cristiani, per garantire la carità
e non l’egoismo).
Perché
si è arrivati in ritardo a capire tutto ciò, come purtroppo è
capitato alla Chiesa, che ne ha parlato praticamente solo con
Pio XII, nel grande radiomessaggio natalizio del 1954? Perché
la Bibbia non dice niente del regime democratico, anzi presenta
un modello di convivenza sociopolitica che è quello teocratico,
oligarchico, con il re e cose simili. Ora, siccome è Dio che mi dice
di fare così (anche S. Tommaso d’Aquino nel
De
regimine principium è di questo parere), la teocrazia è stata
ritenuta come il sistema migliore di governo. Ma non è avvenuta, nel
frattempo, una purificazione ermeneutica, per cui n on si è
capito che la parola di Dio, quando presenta come modello ideale
la monarchia davidica, non fa che assumere un modello culturale, alla
stessa maniera che assume una particolare concezione culturale
quando dice che il sole gira attorno alla terra.
6.
Conclusione
Nel
momento stesso in cui una struttura culturale entra in crisi, il
comportamento morale del cristiano non è più sicuro. Prendiamo
questa piccolissima struttura morale che è, appunto, la proibizione
dei rapporti sessuali prematrimoniali: oggi è andata in crisi.
Badate, non nel comportamento, cosa che interessa poco, perché può
esserlo sempre stata. Ma in crisi nella giustificazione razionale di
questo comportamento, cioè nella riflessione sul costume. In altre
parole, quello che importa non è tanto che si vada a letto prima di
sposarsi, ma che si dica che questo è un bene, e si portino molte
ragioni per far capire che non è egoismo ma esperienza
di oblatività. In questo momento, se sono coerente e prudente,
devo mettermi in questione anch’io.
Oh,
questo non vuol dire che sbatto via questa struttura: vuol dire che
la faccio oggetto di una nuova riflessione, pronto anche, una
volta che esista il vestito nuovo, ad abbandonare quello
vecchio perché non è capace di coprirmi adeguatamente. In
definitiva, è ancora lo stesso tipo di discorso che veniva
fatto prima, in quanto si collegava la bontà o no del comportamento
sessuale allo stato di vita in cui uno viveva. Cioè
praticamente si diceva: in questo contesto specifico, il
comportamento sessuale è buono nel matrimonio ed è cattivo
fuori del matrimonio. Ma in un altro contesto culturale potrebbe
essere diverso.
(Ambrogio
Valsecchi)
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