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Per un rinnovamento del servizio papale nella Chiesa. I primi “cento giorni”


Gli atti iniziali di un nuovo pontificato rivestono un’importanza decisiva anche per tutto lo sviluppo successivo, perché costituiscono un indizio pubblico degli orientamenti del papa e della Chiesa, e soprattutto perché nelle prime settimane il nuovo eletto ha una freschezza interiore intatta e un prestigio non ancora mortificato dalla routine. È pertanto fondamentale che nei primi “cento giorni” emergano con chiarezza e vigore gli orientamenti-guida, che indichino coraggiosamente la fisionomia dominante del nuovo periodo di servizio petrino che si apre. 

VESCOVO DI ROMA SENZA PIÙ VICARI

In quanto vescovo di Roma sarà decisivo che il nuovo eletto mostri di sentirsi tale (indipendentemente dalla sua nazionalità di provenienza), assumendosi in prima persona oneri e funzioni attinenti alla vita della Chiesa di Dio pellegrina in Roma. Non vi è possibilità di onorare le dichiarazioni dottrinali del Vaticano II e di Paolo VI sul fatto che il papa è anzitutto vescovo di Roma se non facendo in modo effettivo, cioè non solo simbolico od occasionale, il vescovo di questa Chiesa: una Chiesa d’altronde che ha un antico bisogno insoddisfatto di una diretta paternità episcopale. Occorrerà dunque esprimere con atti non equivoci che il papa ha la consapevolezza di fede di essere tale in forza non del titolo, ma del fatto reale di essere in concreto il vescovo che celebra a Roma l’eucarestia, diffidando dalle formule “vicariali”, che hanno ormai un significato di sgravio di responsabilità e di disimpegno.

GOVERNO COLLEGIALE

In quanto patriarca della Chiesa occidentale e capo della Chiesa cattolica romana alcuni dei primi atti non potranno non riguardare il nodo cruciale degli organi preposti alla comunione, alla solidarietà e all’unità delle Chiese. A questo proposito si pone anzitutto il problema della creazione di un vero e proprio organo che insieme al vescovo di Roma presieda agli aspetti comuni della vita delle Chiese (in analogia con il concistoro medievale e con il sinodo permanente orientale). Si può pensare cioè a un organo collegiale che, sotto la presidenza personale ed effettiva del papa, tratti almeno bisettimanalmente i problemi che si pongono alla Chiesa nel suo insieme, prendendo le decisioni relative.

La formazione di tale organo potrebbe, inizialmente, non essere che “ad experimentum”, a condizione che comprenda esclusivamente membri del collegio episcopale scelti liberamente dal papa. In un secondo tempo alcuni di essi potranno essere designati dal sinodo dei vescovi e altri ancora cooptati con una maggioranza speciale dai membri di nomina papale e sinodale. Questo organo, dovendo adempiere essenzialmente a un servizio di orientamento, di guida e di decisioni operative, dovrà essere stabile (ma con rinnovamenti periodici) e di composizione ristretta e perciò agile: forse non più di dodici membri. Potrà esere opportuno che di volta in volta esso sia integrato da presidenti o delegati di determinate conferenze episcopali per argomenti specifici. La competenza di questo organo dovrebbe essere la stessa del capo del collegio episcopale, cioè tutte le “causae maiores” sulle quali singoli membri dovrebbero riferire di volta in volta. Le decisioni dovrebbero essere prese all’unanimità o, in caso di necessità, a maggioranza, purché essa comprenda sempre anche il voto del papa. Dovrebbe essere chiaro che non si tratta di uno strumento di coordinamento delle congregazioni della curia romana, ma bensì di un organo nuovo che si situa al livello della guida suprema della Chiesa cattolica per esprimere e rendere operante la corresponsabilità del collegio episcopale universale col suo capo, il vescovo di Roma. Ciò implicherebbe rendere abituale la modalità collegiale di esercizio della responsabilità suprema nella Chiesa ed eccezionale la modalità personale.

SINODO DELIBERATIVO

Simmetricamente sarebbe necessario riconoscere al sinodo dei vescovi una capacità legislativa vera e propria, sempre sotto la presidenza e direzione del papa. Conseguentemente esso potrebbe avere una periodicità almeno annuale e forse semestrale (in analogia con i sinodi romani che per secoli si sono celebrati nel periodo pasquale e in quello dell’avvento) e possibilmente anche una maggiore rappresentatività del popolo di Dio.

CURIA IN SUBORDINE

È facile vedere che la curia romana – possibilmente snellita e in taluni casi dislocata in altre aree cristiane – dovrebbe svolgere un servizio subordinato di preparazione e, rispettivamente, di esecuzione delle decisioni del sinodo dei vescovi ed dell’organo collegiale di governo.

CHIESE LOCALI VALORIZZATE

Peraltro, direttamente connesso con questi aspetti istituzionali generali dovrà essere l’atteggiamento e la prassi del papa di promuovere con rispetto e delicatezza fraterna la responsabilità e i carismi delle singole Chiese locali nel fermo ed esplicito convincimento che ciascuna di esse consuma nell’eucarestia l’intero mistero del Cristo Signore e che, nello stesso tempo, tutte hanno bisogno di vivere, di confermare la propria fede e di correggersi nella comunione universale presieduta e alimentata dal successore di Pietro sulla cattedra romana. In questa prospettiva il criterio di sussidiarietà attende ancora di essere reso operante nel riconoscimento di ambiti nei quali l’originalità cristiana delle Chiese, e soprattutto delle Chiese del terzo Mondo, può recare apporti preziosi a una maggiore fedeltà della Chiesa intera al suo Signore e all’Evangelo.

VESCOVI ELETTI IN LOCO

A questo proposito un segno inequivocabile potrebbe riguardare sin dai primi giorni l’accettazione e la promozione da parte di Roma di modalità differenziate e sperimentali nella scelta dei vescovi, onde preparare una progressiva riappropriazione effettiva di tale responsabilità da parte delle comunità ecclesiali interessate, evitando che ciò avvenga attraverso lacerazioni conflittuali, ma in un equilibrio sano tra spontaneità e comunione ecclesiale.

NUNZIATURE ABOLITE

Un segno diverso, ma di significato analogo, potrebbe consistere nell’affidare le funzioni attualmente deputate ai nunzi ai presidenti delle conferenze episcopali nazionali, accentuando progressivamente lo spostamento di tale servizio dai rapporti tra la Santa Sede e i governi alle relazioni di comunione tra le Chiese di una determinata area e il centro della comunione stessa. Con ciò si supererebbe una delle sopravvivenze più sconcertanti della concezione della Chiesa come potenza tra le potenze e del papato come “monarchia”.

NUOVI GESTI ECUMENICI

Se si dilata ulteriormente l’orizzonte a tutte le Chiese e comunità ecclesiali cristiane dell’Oriente come dell’Occidente, è evidente che i tempi sono maturi – soprattutto per l’opera di Giovanni XXIII e di Paolo VI, del Vaticano II e di molte altre istanze ecclesiali – perché la dimensione effettivamente ecumenica del servizio petrino cominci a riacquistare la sua consistenza. In questa direzione si possono immaginare almeno due atti iniziali.

Anzitutto un invio ai grandi patriarcati della tradizione apostolica (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme), alle altri sedi maggiori – a cominciare da Mosca – e a coloro che sono preposti alla comunione delle Chiese e comunità delle grandi tradizioni cristiane (nestoriani, monofisiti, protestanti, anglicani) della comunicazione dell’elezione del nuovo vescovo di Roma. Una comunicazione che, pur senza assumere del tutto il modello delle antiche lettere di comunione, trascenda completamente i livelli burocratici o diplomatici e costituisca un umile e consapevole atto di offerta e di richiesta di comunione nella fede e nella carità. Ciò rappresenterebbe uno sviluppo della “teologia delle Chiese sorelle” profilata ripetutamente da Paolo VI, e un rilancio della ricerca di unità potentemente alimentata dal Vaticano II.

A breve distanza potrebbe far seguito una seconda iniziativa consistente in una solenne e pubblica dichiarazione di disponibilità del papa, in accordo col suo organo collegiale, a partecipare a un’assemblea cristiana preconciliare destinata a raccogliere tutte le Chiese cristiane nel rispetto della loro attuale consapevolezza evangelica, nella prospettiva di realizzare livelli sempre più pieni di unità, destinati a trovare infine sanzione in un concilio “ecumenico” vero e proprio.

PAPA MONARCA, ADDIO

Non occorre qui sottolineare il valore e i limiti di atti e inziative prevalentemente istituzionali, come quelli ora ipotizzati. Basti aggiungere che anche tali atti o altri equivalenti, e magari anche più adeguati, potrebbero mancare quasi completamente gli effetti di rinnovamento del servizio papale nella Chiesa se non fossero accompagnati e animati da un’attitudine di servizio tanto profonda da far superare la vischiosità tenacissima di un costume papale, in cui i secoli hanno lasciato vistose incrostazioni.

Il convincimento di dovere decidere da solo, di non potere rinunciare ai simboli monarchici del potere e dell’autorità, la rassegnazione a nascondere la virtù personale sotto i paludamenti pontificali (residenza, abiti, titoli, segreto, ecc.) costituiscono solo gli aspetti più vistosi di tale vischiosità. Sarebbe perciò altamente desiderabile che il futuro vescovo di Roma fosse confortato e incoraggiato a mostrarsi per quello che realmente è, e non sotto le spoglie di suoi antecessori forse lontanissimi. Per questa generazione la prova della perennità del papato consisterà soprattutto nell’assistere alla sua capacità di rinnovamento e di veracità, e non nella sua immutabilità, come è stato in altri tempi. Nella misura in cui tutto ciò è vero, occorrerà prestare grande attenzione alla prassi ordinaria del servizio papale, affinché la sua routine non contraddica lo sforzo di rinnovamento ma anzi lo esprima con coerente docilità. Ciò potrà essere agevolato se il nuovo papa vorrà compiere tempestivamente, secondo il suo genuino carisma personale, alcuni segni emblematici realmente capaci di realizzare ciò che significano, e non altisonanti enunciazioni ideologiche.

Altrettanto importante sarebbe la convinzione che nel papa le virtù pubbliche sono almeno altrettanto indispensabili di quelle private. Il che significa che la salvezza del papa si gioca non solo sulla sua fedeltà interiore all’Evangelo ma ancor più sulla sua capacità di essere papa secondo modalità evangeliche, di modo che nel papa e al di là del papa ogni uomo possa e debba riconoscere l’unico Signore della Chiesa e della storia che salva nell’amore. 


Giuseppe Alberigo, “L’officina bolognese, 1953-2003”,

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