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A piedi verso la tomba di san Giacomo il Maggiore


di Eleon Borlini 

Parte I
13 Agosto - Scogliera di Cabo Finisterre (gallego, Fisterra). Mi siedo su uno sperone roccioso levandomi le scarpe che han sopportato dieci giorni di cammino. Dal punto più occidentale del continente europeo, alzando lo sguardo dalle proprie vesciche, si viene rapiti istantaneamente dall’azzurro senza limiti dell’Oceano Atlantico che, incurvandosi leggermente all’orizzonte, si fonde con la linea dell’atmosfera. Mi appare alla mente l’esperienza che ispirò Niccolò Cusano a scrivere il suo De docta Ignorantia. Sulla via del ritorno da Costantinopoli, quel cardinale del XV secolo venne colpito dall’ampiezza del mare, visione che determinò la scoperta filosofica decisiva della sua vita: l’unità, egli affermava, ha il primato rispetto ad ogni divisione in qualsiasi ambito del reale, e questa unità poggia, in ultimo, nell’infinito, in Dio.

Poco distante da me si siede una ragazza spagnola, shorts bianchi e T-shirt . Il suo bel viso mediterraneo sotto i capelli castano-scuro, mossi e lunghi poco sopra le spalle, è denso di malinconia. È giunta da sola a Finisterre, e difficilmente è una semplice turista della domenica. Avrà 25 anni o poco più. Incrocio il suo sguardo profondo e ritorno a contemplare l’Oceano, chiedendomi quale sia stato il senso, se v’è stato, di questo cammino, lì, nel luogo ove i pellegrini solevano bruciare i vestiti che ricoprivano l’uomo vecchio, immergersi nell’Oceano per purificarsi e indossare nuovi indumenti, pronti per il ritorno a casa dopo aver raccolto il guscio di una capasanta, non a caso tassonomicamente denominata Pecten Jacobaeus, o conchiglia di san Giacomo…

Siamo partiti, io ed un collega di lavoro, all’alba del 4 agosto da Piedrafita O’Cebreiro, 1099 mt slm, Galizia orientale, 160 km da Santiago, dopo una notte in autobus da Madrid. Il Camino non passa per Piedrafita, e quindi è necessario orientarsi per trovarlo. Costeggiando la statale per 5 km si giunge al caratteristico nucleo di O’Cebreiro, 1400 mt slm, meno di 200 anime, luogo in cui, secondo la leggenda, alla transustanziazione del pane e vino eucaristico sarebbe seguita anche la trasfigurazione dei medesimi. Cominciamo ad incontrare diversi pellegrini, e da subito l’impressione è che il Camino abbia perso da tempo l’antica carica spirituale e sia diventato un percorso di allenamento trekking. Avrò dieci giorni di tempo per scoprire, con un po’ di sollievo, che le cose non stanno necessariamente così. La prima tappa è la più lunga: 27 km per giungere, scendendo a 660 mt slm, a Triacastela. Lo zaino di 14 kg, decisamente eccessivo ma caricato così, oltre che per l’inesperienza, anche per un particolare motivo, rallenta la salita e sforza sulle ginocchia la discesa. I cippi scansionano il cammino ogni mezzo km, e finalmente nel primo pomeriggio arriviamo al termine della tappa. Già i piedi e le suole delle scarpe paiono un tutt’uno, e il dolore all’interno del piede destro ed alle spalle non lascia presagire un cammino semplice. Non abbiamo molta idea di come prenotare la notte negli Albergue, o ostelli, e quello pubblico è già colmo, ma la Provvidenza ci assiste e nell’ultima casa del piccolo centro troviamo un’anziana vedova disposta ad ospitarci. Qui riceviamo la Credencial del pellegrino.
Alle ore 6.00 del giorno seguente lasciamo quel paesino dai tipici tetti azzurro-grigi e dall’unica strada che lo attraversa, in direzione Sarria, 13.500 abitanti, passando per San Xil. La tappa è breve, 18 km, ma la fatica al piede destro porta l’organismo a sforzare sulla gamba sinistra, e il ginocchio non è contento. Fino alla penultima tappa, l’infiammazione alle ginocchia aumenterà, facendosi sempre più acuta ad ogni discesa, per poi fortunatamente diminuire e scomparire praticamente in vista di Santiago. La tappa di San Xil è fra tutte quella più immersa nel verde: si sale nel bosco gallego fino a quota 900 mt slm, e s i discende quindi verso la città di Sarria, 450 mt slm. Memori del giorno precedente, appena entrati nella città prenotiamo una tripla in una pensione, letto in camera e wi-fi free, non proprio come veri pellegrini… A Sarria si scopre, in una locanda gestita da italiani, il piacere di ascoltare i cantautori del proprio Paese.
Sarria dista circa 22 km dalla depressione orografica di Portomarin, 300 mt slm e, di buon mattino, dopo una colazione a base di cioccolata e churros, le frittelle spagnole, saliamo verso Rente Barbadelo, superando sulla sinistra il Convento de la Merced. Attraversiamo quindi il cippo dei 100 km presso Ferreiros, minuscolo abitato di 27 anime, bovini inclusi, ove le condizioni delle ginocchia urgono l’acquisto di un bastone di sostegno. Discendiamo quindi, percorrendo la sterrata, i restanti 10 km che ci separano da Portomarin, un borgo di medie dimensioni inerpicato sulle pendici di un piccolo promontorio, che si affaccia su di un laghetto naturale. L’arrivo nel primo pomeriggio preclude la possibilità di riposo negli ostelli, ma il materasso offerto dalla palestra del paese, unito al sacco a pelo, è più che sufficiente. La Chiesa fortificata di san Nicolàs, secoli XII-XIII, è tanto bella quanto vuota, tanto quanto i bar sono pieni: dove sono i pellegrini che per la fede lasciavano la casa senza sapere se avrebbero mai fatto ritorno? Dove la fede che ti porta ad inginocchiarti di fronte alla pur non bellissima statua della Vergine, in quella chiesa?
Ore 5:30 di mattina del 7 agosto, come da previsioni già pioviggina: si sale nel bosco oltre il laghetto di Portomarin su fino all’Alto de Ligonde, dopo circa 500 mt di dislivello spalmati su 15 km. È una tappa di 26 km ed è lo snodo del tratto O’Cebreiro-Santiago. La tentazione di fermarsi ad Eirexe è grande, perché il tempo peggiora e la tabella di marcia è stata finora rispettata. Ma si decide di proseguire ancora per 8 km, fermandosi in un bar di un paesino denominato Brea, quasi si fosse alla Locanda del Puledro Impennato di tolkeniana memoria. All’ingresso del Concello di Palas de Rei, arrivo della quarta tappa, il diluvio ci sorprende e ci affrettiamo a trovare riparo all’ingresso del paese. Alcune partite a biliardo ed un menù completo a 9 euro ci rimettono in sesto per la tappa, breve, del giorno dopo.
Melide, cittadina di 9.000 abitanti, è sita a 15 km da Palas de Rei: alle ore 10:30, dopo aver attraversato il confine fra la provincia di Lugo e la deputazione de La Coruna, siamo già arrivati al nucleo primitivo della città, che si raggiunge dalla vegetazione oltrepassando un ponte romanico. Il Cristo della chiesetta vecchia, che protende un braccio verso il pellegrino, è carico di una consolazione senza pari. Un km più avanti il centro città: l’intenzione è quella di trascorrere la giornata nella parrocchiale trecentesca. In un’ora di riflessione personale pomeridiana solo due pellegrini entrano in chiesa: un terzo invece è semplicemente troppo in anticipo per ricevere il sello da applicare alla Credencial. La brevità della tappa e l’alloggio confortevole ricaricano l’organismo e i vari dolori cominciano pian piano a scomparire. I km che ci separano da Santiago sono ora poco più di 50.





Parte II
Da Melide, con una sola sensibile variazione altimetrica, il Camino si snoda per una quindicina di km fra i paesi di Boente, Castaneda e il gioiellino Ribadiso, quattro ridenti abitazioni affacciate sul torrente omonimo (l’Iso). Arzùa, mèta della tappa, sta a 3 km: vi giungiamo abbastanza presto, decisi finalmente ad alloggiare nell’Albergue municipal, l’ostello pubblico che non riceve prenotazioni, ma dà la priorità di pernottamento ai pellegrini che, a piedi, sono giunti per primi. Qui facciamo le prime vere conoscenze: una simpatica coppia di fidanzati originaria dell’Emilia (con cui condivideremo, a causa di disguidi logistici, ben più di un giorno, volo di rientro incluso), un paio di giovani ragazze spagnole appassionate di danza sevillana, un oscuro quanto prestante quarantenne con una storia di vita lunga quanto il Camino Portugues (percorso che da Faros attraversa il Portogallo in direzione Sud-Nord, verso Santiago) che, ormai da più di 20 giorni lontano dal lavoro e dalla famiglia, stava percorrendo. Qui ci concediamo diverse porzioni di pulpo gallego, il quale poveraccio non ha alcuna colpa che ne giustifichi l’esser sacrificato in massa per soddisfare gli affamati pellegrini del terzo millennio.
Tra Arzùa e Santiago de Compostela sono rimaste solo due tappe, cariche di storia e di riti per il pellegrino che, da Saint-Jean-Pied-de-Port o addirittura dalla propria abitazione, giungeva sfinito agli ultimi km. 15 km da Arzùa dista la Fuente Santa di Santa Irene, dove il pellegrino recuperava le forze in vista degli ultimi 30 km. Di qui si scende a Pedrouzo, ultima tappa dove conosciamo due simpatici camminatori bresciani (padre e figlia) e dove abbiamo la grazia di ascoltare una s. Messa in italiano celebrata dai padri guanelliani, preceduta dalla santa Confessione. Era infatti questo il luogo in cui venivano lasciati i peccati che avevano spinto il pellegrino a centinaia, quando non migliaia, di km a piedi. Ricevo l’assoluzione da don Fabio, con una penitenza semplice quanto alla pratica, profondamente complicata quanto alla coscienza, perché rivolta ad una particolare persona, da espletare al termine della Via Lattea, sulla tomba di Giacomo il Maggiore.
La peregrinatio ad limina beati Jacobi culmina domenica 11 agosto: i 25 km finali vengono percorsi con le ali ai piedi senza nemmeno fermarsi a far colazione, e quando, attraversata Lavacolla, finalmente giungiamo all’altura di Monte de Gozo, il Monte del Godimento che sovrasta Santiago da est, scorgiamo la periferia della mèta. Gli ultimi 100 mt di dislivello scorrono rapidi e man mano che ci si addentra nella città si riprende a salire verso la cittadella ove riposa l’amico di Cristo in attesa della Resurrezione della carne. Decido di proseguire con zaino e bastone, lasciando le incombenze per la prenotazione di un giaciglio nel Seminario Menor al mio paziente collega, e arrivo in tempo per la s. Messa domenicale del pellegrino. Insensibile al fascino del Botafumeiro che oscilla attraverso il transetto della Cattedrale, cerco un posto in terra, presso una colonna, per sedermi e seguire la celebrazione, cuore e mente carichi di pensieri… La pericope lucana tuona nella mia testa: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (Lc 12,33)… All’abbraccio rituale della statua segue finalmente l’inginocchiarsi di fronte alla tomba di Giacomo: il mantenimento della promessa vacilla, perché i pensieri si sovrappongono con troppa forza… Lì, di fronte al pellegrino genuflesso, è l’essere-per-la-morte in tutta la sua concretezza, a pochi giorni dalla solennità dell’Assunzione: se il corpo mortale dell’amico di Cristo si è corrotto, cosa potrà succedere a noi? Quanto ha senso parlare di un’anima, di per sé immortale, distinta dal corpo, quando Cristo stesso risorse nel Tempo con il corpo? È proprio il corpo che determina l’anima, e l’anima che a sua volta determina il corpo, lo insegna l’antropologia filosofica biblica, così come il cervello si modifica in base agli stimoli ambientali esterni ed interni, ma consente all’uomo di agire liberamente. Sì, proprio la pochezza del nostro qui ed ora concorrerà con la Grazia dello Spirito alla fine dei Tempi quando, grazie al sacrificio di Cristo vero uomo, il Padre, nella sua completa volontà libera da spazio e tempo ma non dall’Amore, dacché ne è l’essenza, farà risorgere trasfigurandoli nell’unico essere i corpi dei giusti, che non avranno più le mancanze date dalla sessualità dell’Io-corpo, né vi saranno legami di parentela, né schiavo né libero, né giudeo né greco, ma tutti parteciperanno dell’unica sostanza della Trinità, perché Dio sarà tutto in tutti…
La tomba di Giacomo il Maggiore, brutalmente assassinato per Cristo, e l’assoluzione densa di affetto del sacerdote si confondono nella mia mente… Riapro gli occhi al sole della canicola di agosto, pur allietata dalla brezza marina, nelle orecchie il suono del rifrangersi delle onde ai piedi della scogliera e lo stridere dei gabbiani. La ragazza spagnola se n’è andata, non senza prima aver appeso un fazzoletto a ricordo del passaggio al faro della “fin del mundo”. Mi volto verso l’entroterra, senza guardare l’Oceano: l’infinito fu all’inizio e sarà alla fine, forse l’infinito è anche nel Tempo, ma a noi è dato di comprendere solo la finitudine della vita, e proprio la tomba ne è la cifra antropologica. Non è un inno alla morte, non una lode alla disperazione, perché nell’intimo dell’essere finito brucia il desiderio, inestinguibile, del senza-fine, che né un’epistemologia esclusivamente empiristica né un razionalismo solipsistico potranno mai confutare. Un desiderio che adopera come mezzo di supporto e come alimento la vista del mare sconfinato, la bellezza malinconica o solare di una ragazza, la tormentata amicizia dei compagni di viaggio (anche del cammino della vita), la terribile semplicità di un ostensorio con l’ostia, ma che sempre vuole trascendersi per cercare l’altro, sempre, perché solo il vivente può lodare Dio attraverso le sue creature. E la preghiera di un salmista morto 2.500 anni fa è quanto mai -filosoficamente- attuale: “Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla Sapienza del cuore” (Sal 90, 12)

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