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L'avventura (ragionevole) dell'essere cristiani, dopo il novecento (2°parte)


Limiti delle neuroscienze: corpo oggetto ed Io-corpo

Pur esercitando indubitabile fascino, al metodo scientifico adoperato nello studio delle neuroscienze, fondato sull’oggettivazione del corpo umano, e talvolta sulla sola analisi elettrochimica molto parziale del sistema nervoso centrale, sfugge qualcosa di fondamentale, ossia gli aspetti che rendono l’uomo tale, e ne qualificano l’essenza. La prima di queste è la capacità di trascendere l’esperienza attraverso l’intuizione. A questo proposito si riportano, sempre per analogia, alcune riflessioni del fisico-matematico R. Penrose, che si basano sulla critica dell’IA forte (assimilazione della coscienza ad un software, più o meno indipendente dall’hardware cerebrale), a partire da alcuni corollari del teorema di Goedel. Uno di essi afferma: esistono proposizioni deducibili dagli assiomi di un sistema formale evidentemente vere ma che non hanno una dimostrazione all’interno del sistema. In altre parole, si riesce a stabilire la verità di certi tipi di proposizioni perché in qualche modo siamo riusciti a “vedere” che la proposizione è vera, pur non essendo ciò formalmente dimostrabile all’interno del sistema. Siffatta proposizione è denominata “proposizione di Goedel”. Si potrebbe pensare di allargare il sistema di assiomi originario per arrivare a comprendere tale proposizione, ma in tale sistema si creerebbero altre proposizioni indecidibili eppur evidenti, in un processo all’infinito. La deduzione logica cui conducono tali teoremi è, secondo Penrose, la seguente: l’algoritmo non è sufficiente per procedere all’interno della matematica, ed è quindi necessario un certo tipo di “intuito matematico”, un “intelletto” capace di “intus legere”: è necessario prendere le mosse da quello che i logici chiamano “principio di riflessione”, ovvero la capacità di riflettere sul significato del sistema di assiomi e di regole procedurali, trascendendo i limiti del sistema stesso, per essere in grado di codificare questa percezione intuitiva in ulteriori enunciati matematici veri, non deducibili da quegli stessi assiomi o regole. La mente non potrebbe dunque essere intesa semplicemente come un software –elenco consecutivo di istruzioni computabili–, seppur di vari ordini di grandezza più complicato dei sistemi operativi dei nostri persona computer, poiché suddette capacità che mostra trascendono la tipica compilazione dei programmi [7].

Ma vi è anche un altro limite, più grave, della pretesa da parte delle neuroscienze di spiegare in toto il “meccanismo”, o “processo”, del pensiero in generale, e della coscienza in particolare. Il corpo che io vivo, infatti, è il corpo che io sono, quello mediante il quale intenziono (in senso fenomenologico) il mondo, mediante il quale, attraverso il linguaggio, “do un significato comprensivo” al mondo (vedi Searle [8]);  il corpo che studio come oggetto, su cui per lo più si basa la ricerca scientifica, è il corpo che io sperimento come estraneo a me. L'errore dello scientismo (ovvero della scienza empirica che attraversa i suoi limiti legittimi) è quello di assolutizzare un modo di apparire, quello del corpo come oggettività. Ora, la scienza ha il diritto di considerare il corpo come una cosa qualunque per comprenderne meglio i fattori fisico-chimici, ma sbaglia quando conclude che il corpo oggettivato è il solo corpo reale, perché ciò significherebbe affermare che i significati scientifici sono gli unici possibili. La scienza, una volta che ha ridotto il corpo a puro organismo, introduce una fantomatica psiche, perché anche la scienza deve riconoscere che ci sono dei fatti nel comportamento umano che non si possono spiegare mediante elementi fisici. Se invece impostiamo il problema a livello fenomenologico, non c'è bisogno della psiche, perché il corpo vivente è già un uomo che conosce, un essere-nel-mondo, quindi già dotato di quelle capacità che la tradizione ha sempre attribuito all'anima. Noi siamo il nostro corpo inteso come corpo vivente. La mia esistenza è corporea, e il mio corpo è la modalità del mio essere: i miei tratti, le mie espressioni esteriori non sono manifestazioni di un io nascosto, ma sono quell'io stesso [9].

Il metodo scientifico e i limiti del teismo: la cosmologia può rendere ragione, ma non basta

Dall’antropologia, l’argomentare si sposta in questo paragrafo sulla cosmologia. Il metodo scientifico gode qui della sua “ontologia regionale”, parafrasando un po’ indebitamente il professor Husserl, in particolare nello studio del cosmo (il Kosmos greco e la natura fisica) quale insieme di fenomeni legati, principalmente, dalla relazione causa-effetto. Ci limiteremo, qui, a trattare in modo sbrigativo alcuni aspetti della moderna cosmologia che potrebbero suffragare la convinzione dell’esistenza di un Dio causa prima, ma che di per sé non bastano a dimostrare l’esistenza del “Dio dei filosofi”. Altrove [10], [11], [12], e in altri tempi, ho praticato una strada, al limite del concordismo e di certa apologetica, volta a giustificare l’esistenza di Dio, ma sottobanco l’intento era dimostrativo. La riflessione sulle unicità “antropiche” del nostro universo (il tema principale che avevo affrontato), da sola, non consente di dischiudere il mistero di senso che rende l’uomo tale. Certo l’argomento entropico basato sulla freccia termodinamica [10] attrae molto, la fede nell’unitarietà ultima del reale descritto da un’unica lagrangiana fondamentale è così forte poiché noi stessi siamo esseri unitari [10], la simmetria delle leggi del cosmo affascina lo scienziato [11], il fine-tuning delle costanti fondamentali e le coincidenze eccezionali nei processi di nucleosintesi del carbonio, che in ultima analisi consentono un universo popolato da esseri autocoscienti [11], è un argomento affascinante. Sullo stesso terreno della fisica si possono addurre pesanti critiche ad ognuna di quelle argomentazioni: ad esempio, le costanti di accoppiamento fra le interazioni fondamentali possono aver subito, nel corso dell’evoluzione dell’universo, variazioni pur piccole ma apprezzabili [13]. La Creazione ex-nihilo, suggerita dall’attuale modello cosmologico standard, presenta anch’essa diversi problemi: anzitutto, può essere “spiegata” ricorrendo ad eventi quantistici che si verificano alle scale di Planck, oppure ad elucubrazioni riguardanti un eventuale Multiverso contenente miriadi di universi possibili, o ancora ricorrendo alle conseguenze della teoria cosmologica di stringa che, allargando la singolarità puntiforme in cui le soluzioni delle equazioni di evoluzione tendono ad infinito, elimina il problema della densità infinita, e popola l’iperspazio di strutture (le D-brane) più matematiche che fisiche. O forse, noi, dal nostro sistema di riferimento, mai potremmo spingerci indietro nel tempo, poiché, se il tempo è misurato, ad esempio, dal numero di collisioni fra particelle e dalla velocità/frequenza di queste, esso tenderebbe all’infinito (poiché lo spazio a disposizione della materia-energia che collide tende a zero all’approssimarsi della singolarità primeva, e anche la relatività ristretta fallisce) man mano che cerchiamo di spingersi verso l’Origine? Ma, d’altra parte, al dato rivelato biblico poco importa di una creazione dal nulla: allo Jahvista, infatti, interessa fondare la relazione dell’Alleanza unica con Dio anche a partire dalla natura creata oltre che dalla rivelazione mosaica; gli interessa risalire al senso dell’Essere a partire dalle condizioni attuali e, all’inverso, spiegare il dipanarsi nella storia della Salvezza [14]. Ma il problema fondamentale dell’identificazione del Big-Bang con l’atto della creazione ex-nihilo del mondo –figlia della filosofia greca– risiede nel salto dall’ordine fisico-logico degli eventi all’ordine, ontologicamente diverso, dell’Essere: si corre il rischio di fare di Dio il tappa-buchi della scienza. Sintetizzando, ed estremizzando, questo pensiero, Trinh Xuan Thuanm, nel saggio La Mélodie secrète, (Fayard, Paris 1989), sostiene che
l’apparizione dell’universo, mediante la magia del flusso quantico, non sembra aver bisogno né di una causa prima né dell’esistenza di Dio. L’emergere dell’universo si può spiegare mediante processi puramente fisici. Di più: l’organizzazione e la vita possono sorgere spontaneamente in un universo in espansione e inventore di stelle. La mano di un Dio organizzatore non sembra più necessaria[15]
Fatte queste brevi considerazioni, che necessitano di un approfondimento futuro, ritengo che il teismo (Dio Uno) possa risultare, ad un analisi che non prenda le mosse solo dalla scienza sperimentale, ma anche dalla storia (personale ed epocale) dell’uomo, pari se non meno ragionevole del Cristianesimo (Dio Uno e Trino). Il Dio della metafisica, affermerebbe Heidegger, è un Dio entificato: l’Essere, nella “superbia” dell’uomo, viene concettualizzato, racchiuso in categorie razionali, posto all’inizio della cascata di eventi cosmici, Lui che è altro rispetto alle coordinate spaziotemporali; in una parola, Colui che alcuni hanno avuto l’ardore di definire il Totalmente Altro, l’Essere, viene imbrigliato nella ragnatela dell’ente, pur ammantato di infinita perfezione. Ma procediamo all’analisi di un altro limite fondamentale della scienza.

Oltre il tempo spazializzato: al confine fra eternità e tempo

Altro studio “limite” del dominio scientifico è infatti quello che riguarda la natura del tempo. Essa è stata uno dei temi centrali del pensiero filosofico fin dalla sua origine, e ha continuato a dominare per secoli il dibattito fra i diversi pensatori. Cosa possiamo dire di esso, basandoci sulla fisica contemporanea? Relatività generale e fisica quantistica si combattono da quasi un secolo nell’arena dello spazio-tempo, e se la contendono. Da una parte, l’indagine intorno a forme di spazio-tempo bizzarre che sembrano permettere di viaggiare nel passato (es. linee di universo chiuse), e intorno ad ipotetiche particelle tachioniche rimane un attivo campo di ricerca. Qui, il tempo che compare come variabile/parametro nelle lagrangiane che descrivono l’evoluzione di campo gravitazionale e materia, gode della simmetria di inversione; la varietà spaziotemporale è liscia e differenziabile, e anche se il concetto di simultaneità ci disorienta un poco, al principio, date le condizioni al contorno di un sistema accelerato noi sappiamo come misurarne il tempo (proprio). Dall’altro versante delle teorie scientifiche contemporanee, si estende il dominio quantistico. Qui, il tempo ricopre davvero un ruolo fondamentale, e tuttavia entra a far parte della teoria in un modo unico, che lo isola in una trattazione a sé. La relatività del tempo mal si adatta alla visione quantistica di un mondo in cui le transizioni, e le “concretizzazioni” o i “collassi” concomitanti con le misurazioni, avvengono apparentemente in maniera improvvisa, in momenti specifici. I problemi nascono quando gli stati quantistici riguardano regioni spaziali di una certa estensione in cui si eseguono osservazioni simultanee [vedasi il paradosso EPR e il teorema di Bell connesso, che trattai in 12]. La stessa misura del tempo diventa un problema, dal momento che gli orologi sono oggetti fisici e quindi soggetti all’indeterminazione quantistica. Le difficoltà si inaspriscono quando bisogna applicare la meccanica quantistica al problema della gravitazione, perché allora lo stesso continuum spaziotemporale è soggetto alla “confusione” quantistica. Gli esperti non sono d’accordo se fissare una sorta di “tempo principale”, una misura naturale del cambiamento in un mondo fisicamente incerto, oppure porre il tempo del tutto al di fuori dell’esistenza. Il mistero del tempo “che scompare”, svanisce, nella schiuma quantica porta alcuni a pensare che il tempo verrà, presto o tardi, abbandonato come entità fisica fondamentale; una proposta, questa, considerata da altri oltraggiosa ed assurda. Potrebbe davvero accadere che, dopo millenni di riflessioni sul tempo, si scopra alla fine che esso non esiste come componente fondamentale della realtà, ma che si tratta, invece, solo di una proprietà approssimativa di un particolare stato quantistico che casualmente è sopravvissuto al Big-Bang? Problematiche non inferiori sorgono a riguardo dell’origine del tempo, se il tempo sia anteriore al Cosmo stesso, o se sia nato con esso, o se ambedue siano eterni: alla questione abbiamo accennato nel precedente paragrafo. Infine, altro grande problema riguarda la natura della cosiddetta “freccia del tempo”, intimamente connesso con la questione cosmologica: essa si traduce in un’asimmetria fra passato e futuro, ma dove ricercare il motivo fisico di questa “direzione preferenziale” se le equazioni godono della proprietà di T-invarianza? La maggior parte degli scienziati concorda sul fatto che la fonte dell’asimmetria possa alla fine essere fatta risalire alla cosmologia e al comportamento su larga scala dell’universo, ma l’esatta natura della relazione rimane tuttavia oscura e controversa (es. espansione = avanti nel tempo e contrazione = indietro nel tempo?) L’altra direzione verso cui cercare la direzionalità del tempo è il mondo subatomico: la scoperta che le particelle chiamate kaoni violano la simmetria temporale (che tuttavia è da associare alla rarità del quark strange rispetto a up e down, più che ad una percezione intrinseca del tempo da parte del kaone) ha dato origine a svariate ricerche sulla T-violazione, finora senza successo: si ricercano indizi nella simmetria del momento di dipolo elettrico del neutrone (i dettagli tirano in ballo l’assioma dell’invarianza fondamentale CPT) e in alcune molecole, ma anche qui, finora, i risultati si sono dimostrati deludenti [16].
Eppure, sussiste un problema ancora più sconcertante di quelli finora proposti: esso riguarda l’evidente discrepanza fra tempo fisico (o, per dirla alla Bergson, tempo spazializzato) e tempo soggettivo o psicologico. Le opinioni a questo proposito, fra filosofi e scienziati, sono totalmente discordanti. Taluni (soprattutto fra questi ultimi) ritengono reale il tempo fisico, e il flusso del tempo soltanto un costrutto mentale; talaltri affermano la priorità ontologica del tempo come “durata” sul tempo spazializzato. In questa sommaria esposizione, cercheremo di vedere la ragionevolezza dell’opinione di questi ultimi, anzitutto perché, come mostrato poc’anzi, un’analisi fisica del tempo rischia di lasciarci, in definitiva, con un pugno di mosche, soprattutto in riferimento alla differenza di approccio fra relatività generale e mondo quantistico, e alla sostanziale simmetria passato-futuro tipica della fisica; in secondo luogo, perché una diversa concezione del tempo potrebbe rendere possibili conclusioni non scettiche sulla relazione tempo-eternità. Nel suo “Saggio sui dati immediati della coscienza” [17], Bergson espone la propria dottrina del tempo come “durata interiore”. Ad essa il filosofo perviene attraverso la critica del tempo come concepito dalla meccanica e, a monte, dalla matematica stessa: esso, grandezza che gli orologi dividono in particelle uguali, corrisponderebbe ad un concetto spurio, prodotto dall’intrusione delle idee di spazio, numero e quantità. Il tempo si riduce così a grandezza misurabile ed omogenea, del tutto simile a quella spaziale, e pertanto si distingue dal tempo reale della vita, cui Bergson riserva il nome di “durata”: essa è costituita da momenti diversi fra loro solo qualitativamente, irriducibili a misura, irripetibili, a differenza del tempo della fisica caratterizzato dalla reversibilità. Ponendo al centro della propria riflessione il concetto di “intervallo di tempo”, e di “atto irriducibile”, Bergson propone una sua spiegazione ai paradossi di Zenone:
“Traducendo il movimento in un intervallo spaziale divisibile all’infinito, ne deriva inevitabilmente che Achille mai potrebbe raggiungere la tartaruga. Ma la verità è che ogni passo di Achille è un atto semplice, indivisibile, e che, dopo un certo numero di questi atti, Achille avrà superato la tartaruga. L’illusione degli Eleati deriva dal fatto che essi identificano questa serie di atti indivisibili e sui generis con lo spazio omogeneo che li sottende[17]
Inoltre, alla meccanica non interessa l’intervallo di tempo nella sua differenza qualitativa, per cui un momento della nostra vita può valere assai più di una lunga successione di anni (si pensi, solo, all’istante dell’innamoramento). Nel suo Saggio, Bergson si propone di recuperare l’autentica dimensione del “tempo-durata” attraverso “un potente sforzo di astrazione”, che restituisca alla coscienza la sua qualità primaria. Mentre infatti nello spazio i diversi elementi fisici che in esso si distinguono, gli oggetti materiali, sono esterni gli uni agli altri, separati da intervalli che ne fissano i contorni, e stanno tra loro in un rapporto di “giustapposizione”, che consente di numerarli e misurarli, i fatti di coscienza, quali si svolgono nel tempo reale –che Bergson chiama anche “tempo vissuto”– non sono separati gli uni dagli altri, bensì si organizzano fra loro, si arricchiscono sempre più, si “compenetrano” l’un l’altro, “cosicché nel più semplice di essi si può riflettere l’anima intera”. La durata temporale è pura successione senza esteriorità reciproca di elementi, caratterizzata sì da una molteplicità di stati di coscienza, ma ben diversa, per essere una “molteplicità qualitativa” priva di distinzioni numeriche, da quella molteplicità che è propria di ciò che si colloca nello spazio, che al numero è invece irriducibile. Ma come conciliare la radicale dualità di spazio e mondo degli oggetti materiali, con la durata, la vita interiore dell’io? “È per noi incredibilmente difficile rappresentarci la durata nella sua purezza originaria”: ciò dipende dal fatto che, per esigenze pragmatiche della vita sociale, ed in particolare del linguaggio, che di essa è il veicolo indispensabile, si adatta molto meglio un io i cui stati interiori siano ben definiti, solidificati, numerabili e misurabili. Nascerebbe così quel tempo omogeneo della meccanica e della vita quotidiana, vera e propria “quarta dimensione dello spazio” (sebbene nel continuum spaziotemporale il tempo, in riferimento alle variabili reali dello spazio, sia descritto da variabili immaginarie), immagine simbolica della durata reale, nel quale gli stati di coscienza vengono ad allinearsi l’uno accanto-dopo l’altro, in una successione-giustapposizione, che assume l’aspetto di un dispiegamento nello spazio. Ciò si verificherebbe in questo modo:
“C'è uno spazio reale, senza durata, ma in cui certi fenomeni appaiono e scompaiono simultaneamente ai nostri stati di coscienza. C'è una durata reale, i cui momenti eterogenei si compenetrano, ma ciascun momento della quale può essere avvicinato a uno stato contemporaneo del mondo esterno e, per l'effetto di questo stesso avvicinamento, separato dagli altri momenti. Dal confronto di queste due realtà si genera una rappresentazione simbolica della durata, ricavata dallo spazio. La durata assume così la forma illusoria di un mezzo omogeneo, e il collegamento fra questi due termini - lo spazio e la durata - è la simultaneità, che si potrebbe definire come l'intersezione tra il tempo e lo spazio” [17]
Ma perché tutto questo ripensamento del concetto di tempo? Perché è proprio in queste categorie filosofiche che, forse, si inserisce la possibilità dell’Essere, eterno, di comunicare con l’ente temporale “uomo”: è l’irriducibilità dell’evento, dell’istante, la fusione di passato-presente-futuro nella temporalità della coscienza. L’approfondimento di questa fondamentale riflessione, che si trova ad un livello teologico, con i dovuti distingui, nell’autocomunicazione di Dio in Rahner come nella presenzialità del Kerygma in Bultmann, o in Pannenberg ed in Theobald, per limiti di spazio e di competenze dell’autore, viene lasciata al lettore [18].

(continua...)

Note

[7]        R. Penrose, La mente nuova dell’imperatore, BUR Scienza, 2000
[8]        J. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel modo reale, Raffaello Cortina Editore, 2000
[9]        don R. Cortinovis, Antropologia filosofica ed etica, ISSR BG, 2013
[14]     don P. Rota Scalabrini, Corso di introduzione al Pentateuco e Libri storici, ISSR BG, 2013
[15]     Trinh Xuan Thuanm, La Mélodie secrète, Fayard, 1989
[16]     Paul Davies, I misteri del tempo, Mondadori, 2011, pagg. 312 e sgg
[17]     H. BergsonSaggio sui dati immediati della coscienza,  in Opere (1889-1896), Mondadori
[18]     M. Epis, op.cit., pagg. 213 e sgg.

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