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L'avventura (ragionevole) dell'essere Cristiani, dopo il Novecento (1° parte)

di Eleon Borlini

A mia nonna,
affinché non perda la sua fede semplice e genuina
proprio nel tempo dell’ultima prova.


Il fondamento dell’essere cristiano: la Resurrezione come evento storico

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.” (Lc 24,30-35)

La pericope lucana riportata, il celebre passo dei discepoli di Emmaus, mette bene in luce quale sia la base storica che consentì ai discepoli di credere nella Resurrezione dai morti di Gesù, il Cristo. Dopo la morte di Gesù, dopo la notizia del sepolcro vuoto (Mc 16,1 e sgg), addirittura dopo l’attestazione di “coloro i quali affermano che Egli è vivo” (Lc 24,23), gli Undici e coloro che avevano seguito Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme ritornano alle loro precedenti abitudini, quasi come se nulla fosse accaduto, o se l’accaduto fosse rimasto appunto vincolato ad un passato di illusioni messianiche frustrate. Il semplice annuncio della Resurrezione senza l’esperienza del presentarsi del Risorto (es Maria di Magdala) non fu sufficiente ad istituire una fede testimoniale. Pietro ed Andrea tornano alle reti da pesca, in due di Emmaus si incamminarono verso il loro paese. È importante sottolineare la probabilità storica di questi comportamenti: Marco (sia che si consideri fino a Mc 16,8, sia che si prosegua fino al v. 20) non parla di questa debolezza dei discepoli; ne parlano invece Matteo e soprattutto Luca i quali, in ogni altra parte dei loro Vangeli, rispetto alla crudezza marciana (rilevabile ad es in Mc 3,21; 31-35), cercano all’opposto di mettere in buona luce i Dodici e i familiari. Per quale motivo dunque riportare questa attestazione di incredulità, se non perché effettivamente ben nota nelle comunità apostoliche (simile questione per quanto riguarda il rinnegamento di Pietro), e dunque non semplicemente emblematica ed istruttiva, ma storicamente impossibile da tacere? Fondamentale per il processo di comprensione ed attestazione della fede è infatti proprio la comunità (o Chiesa), che diviene garante della veridicità degli scritti canonici, e negatrice della veridicità dei codici apocrifi; la comunità quale lente di ingrandimento ineliminabile attraverso la quale noi possiamo considerare il Gesù storico, e quale nucleo pulsante della prima cristologia (per inciso, tale processo prende il nome di verifica ermeneutica dell’intenzionalità della comunità). Solo tramite attestazione verace della Resurrezione –in sostanza, le apparizioni del Risorto per un tempo ben determinato–, il discepolo può uscire da uno stato regredente e comprendere: solo queste apparizioni fondano la certezza della Resurrezione (inspiegabile altrimenti, dalla Maddalena ai discepoli di Emmaus a Tommaso), che porta i discepoli (fra cui, per comprensione nell’ambito della filosofia ellenistica, spicca san Paolo) a dare la vita per essa. Solo la storicità della Resurrezione finalmente dischiude i discepoli alla comprensione e permette ai medesimi di ricomprendere tutta la vita e la predicazione del Risorto (chiave di lettura delle parabole, proclamazione del Regno, profezie della Passione, interpretazione a posteriori dei passi profetici dell’Antico Testamento) alla luce proprio dell’evento della Resurrezione [1].
L’analisi esegetica della storicità di questo evento richiederebbe da sola intere biblioteche, e non è questo l’intento del presente articolo, sia per i limiti di spazio, sia ancor più per le limitate capacità dell’autore. Ma è conveniente sintetizzare in un elenco, senza pretendere di esaurire l’inesauribile, almeno alcune ragioni della plausibilità storica dell’evento, basate sulle concordanze semantiche e stilistiche –pur nelle diversità di sinossi, come numero ed azioni delle donne giunte al sepolcro e narrazione dell’apparizione angelica– fra i quattro Evangeli [2]:
1.    È da spiegare come i discepoli, disperati e delusi scandalizzati dal loro Maestro (cfr. Mc 14, 27), in seguito agli avvenimenti del venerdì santo (cfr. Lc 24, 19-21), credano improvvisamente che il Maestro giustiziato e sepolto è risorto ed è apparso a diversi di loro.
2.    Essi testimoniano che si tratta di apparizioni del Risorto dal sepolcro, ossia testimoniano concordemente il dato di fatto del sepolcro vuoto.
3.    Essi testimoniano con la stessa unanimità che Egli era “risorto al terzo giorno” (cfr. 1 Cor 15,4).
4.    Le apparizioni del Risorto sono limitate ad un tempo determinato, sono quindi sostanzialmente distinte da altre apparizioni e manifestazioni del Signore.
5.    Essi testimoniano che il corpo del Risorto è entrato, in seguito alla Resurrezione, in una nuova forma di esistenza, non più “nella carne”, che tuttavia conserva una vera corporeità.
6.    Da tutti i resoconti emerge con chiarezza che il fatto del sepolcro vuoto non fu il fondamento della fede pasquale (eccetto forse il misterioso passo giovanneo: “E vide, e credette” (Gv 20,8)).
7.    Tutti unitamente testimoniano la realtà della Resurrezione nel senso di un miracolo operato dalla potenza di Dio, che con questo mezzo ha dimostrato che il crocifisso e il sepolto era il proprio Messia e Figlio (vedasi ultimo paragrafo).
8.    Infine, è comune a tutti i racconti l’astensione dal descrivere l’atto stesso della Resurrezione. Sempre riferendomi agli apocrifi di cui sopra, solo il romanzesco Vangelo secondo Pietro lo ha fatto. Nessuno infatti vi è stato presente come testimone oculare. Ma appunto questo deve venire adottato come una prova fondamentale che essi intendono narrare la storia, e non una leggenda.
È su queste basi, su questa verità, che la fede cristiana sta, o cade.

Alle radici del conoscere: il circolo ermeneutico

Il processo di “nascita alla fede” nei discepoli di Emmaus (articolato su due momenti: il riconoscimento del Maestro nella spiegazione delle scritture, in particolare nella necessità della passione per entrare nella gloria, e nello spezzare il pane, memoria del gesto di offerta di Gesù che ne riassume la vita), e l’operazione di verifica ermeneutica dell’intenzionalità delle proto-comunità cristiane, ci consentono di ancorare la barca della comprensione dal mare della teologia ai lidi della filosofia contemporanea. Lo spunto è l’analisi ermeneutica teorizzata da H. G. Gadamer nella sua opera fondamentale, Verità e Metodo [3]. Gadamer, che prende le mosse dall’esito speculativo di maestri come Dilthey (la critica della ragion storica), Husserl (la scienza fenomenologica), Heidegger (gli esistenziali, fra cui l’essere-nel-mondo), ma anche dalla rivisitazione della grande tradizione metafisica occidentale (Platone, Hegel), afferma che l’ermeneutica, lungi dall’esaurirsi nell’arte dell’interpretazione dei testi, costituisce piuttosto, attraverso il processo del comprendere, il “carattere ontologico originario della natura umana”. Come dire che il comprendere-interpretare non è uno dei possibili atteggiamenti dell’uomo inteso come soggetto, bensì l’esistenza stessa dell’uomo: in questo consiste la funzione filosofica, universale, dell’ermeneutica. Tre sono gli aspetti (compenetrantesi) nei quali possiamo riassumere la riflessione gadameriana intorno alla struttura e al movimento della comprensione storica, nucleo essenziale dell’ermeneutica: 1. La “pre-comprensione”, e la funzione importante ed ineliminabile che in essa assolvono i “pregiudizi” (l’uomo si pone nei confronti dell’opera con un bagaglio di domane e di pregiudizi, l’opposto della tabula rasa di baconiana e lockiana memoria: interprens e interpretandum si coappartengono da sempre); 2. La “lontananza temporale”, necessaria per una comprensione più oggettiva, la “storia degli effetti” (l’evento/lo scritto, ossia l’interpretandum, comincia a vivere di “vita propria”, oltre le intenzioni dell’autore, nelle interpretazioni), e la “fusione degli orizzonti” (orizzonte storico dell’interprens e dell’interpretandum man mano che l’interprens approfondisce l’interpretandum); 3. Infine, l’inesauribilità e l’infinitudine del processo dell’interpretazione. Senza pretendere nemmeno di riassumere il pensiero di Gadamer, si riporta un breve estratto da Verità e Metodo, in cui Gadamer estende l’analisi ermeneutica anche all’ontologia, al disvelamento dell’Essere così centrale in Heidegger, e sottolinea l’importanza del linguaggio:
Ogni discorrere (linguistico, o d’azione) umano è finito, nel senso che in esso c’è sempre un’infinità di senso da sviluppare e da interpretare. Per questo anche il fenomeno ermeneutico si può capire solo in base a questa finitezza fondamentale dell’esserci, che è strutturalmente legata al linguaggio”.
Spostandoci su un livello più propriamente ontologico, che riprenderemo in seguito, la prossimità ermeneutica dell’ente uomo all’Essere (coappartenenza) così si manifesta secondo l’Heidegger di Essere e Tempo:
L’uomo dimora e soggiorna nell’essere. La dimora e il soggiorno intervengono come elementi essenziali nella definizione dell’uomo che non può scegliersi altra dimora perché, in quanto apertura all’essere, se vuol esser uomo, deve soggiornare nelle sue vicinanze” [4]
La critica di Heidegger alla metafisica/tecnica quale “oblio (dell’oblio) dell’Essere” e la ribellione di Gadamer allo scientismo (ma non alle scienze oggettive che restino entro i confini della loro competenza), verranno approfondite nel corso dei successivi paragrafi, allo scopo di schiudere l’autentica essenza dell’uomo.

“Processo” ermeneutico all’opera: lo spunto delle neuroscienze e la “morte” della Res Cogitans

Anche discipline diverse da quella storica o letteraria, per analogia, possono aiutare ad illuminare alcuni aspetti epistemologici e gnoseologici della teoria ermeneutica riassunta nel precedente paragrafo. È il caso di alcuni sviluppi nel campo delle neuroscienze, che riporto brevemente nell’essenziale, rimandando l’approfondimento ai relativi volumi. Un primo esempio interessante, limitatamente al meccanismo di formazione della struttura cerebrale, è la teoria di selezione dei gruppi neurali, o TSGN, proposta dal Nobel per la medicina del 1972 G. Edelman. Esponente del cognitivismo, egli propone una teoria propriamente biologica, che prende il nome di darwinismo neuronale [5a]. L’autore considera il funzionamento del sistema nervoso come un meccanismo capace, in virtù delle sue caratteristiche morfologiche e funzionali, di "anticipare" le risposte comportamentali in grado di soddisfare i bisogni dell'organismo, di "memorizzare" le risposte che si fossero rivelate adattative, e di "evolvere" tale capacità di risposta - ovvero di svilupparla ed affinarla progressivamente nel corso dell'esistenza individuale (o "tempo somatico") - grazie alla continua interazione con l'ambiente. Interazione che è “da sempre”, ovvero sin dall’utero materno: quivi infatti, tramite molecole dette "morforegolatrici” presenti sulla membrana cellulare, l'organizzazione strutturale dell'embrione in fase di crescita (e, successivamente, dell'organismo adulto) sarebbe ampiamente determinata dalle interazioni fra le cellule in fase di moltiplicazione e l'ambiente interno ed esterno dello sviluppo, anziché essere rigidamente e completamente prefigurata a livello dell'informazione genetica contenuta nell'uovo fecondato, come vorrebbe invece l’ipotesi preformista (che sosterrebbe, nella sua forma forte, l’intera codifica dell’evoluzione delle sinapsi neuronali all’interno del DNA dei neuroni stessi; per una questione numerica di rapporto #geni/ #sinapsi, l’ipotesi non regge). Si vede bene in questa teoria, pur riduzionista, l’importanza dell’interazione “da sempre” con l’ambiente a livello di morfogenesi del sistema nervoso e, nello sviluppo della teoria, anche a livello di selezione primaria e secondaria dei gruppi neurali (per approfondimenti [5b]).
Un passo ulteriore, ai nostri scopi che diverranno più chiari in seguito, è compiuto dagli studi di un altro neurologo contemporaneo, A. Damasio, che focalizza la sua attenzione non soltanto sull’interazione con l’ambiente, ma anche verso l’altro, in quanto persona. Nel suo “L’errore di Cartesio” [6a], lo scienziato prende le mosse dall’analisi di alcuni casi clinici, fra cui alcuni suoi pazienti (Phineas Gage, Elliot, etc) per tratteggiare una critica del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa. Questi pazienti, a causa di diversi incidenti, si ritrovavano lesa parte della corteccia ventromediana del lobo frontale. A dispetto della consuetudine che sembra consigliare alla ragione di domare sempre più le passioni e i sentimenti, e considera il raggiungimento dell’apatia come gradino sommo della razionalità, Damasio mette in luce come in tali pazienti le facoltà razionali di calcolo e linguaggio restino integre, e al contempo anche i ricordi non subiscano variazioni, mentre si evidenzia nei pazienti un’incapacità relazionale e decisionale che compromette l’intera vita sociale, lavorativa e familiare dei soggetti. Questo perché sono stati lesi i collegamenti fra le aree “antiche” deputate all’elaborazione degli stati interni e viscerali dell’organismo (ippocampo, amigdala, etc) e le aree più recenti della corteccia cerebrale. Ma lasciamo alle parole del neurologo la spiegazione di questa intima e necessaria relazione fra ragione e sentimento.
“Sembra che l’apparato della razionalità, tradizionalmente ritenuto neocorticale, non operi senza quello della regolazione biologica, tradizionalmente considerato subcorticale; sembra cioè che la natura abbia edificato il primo non semplicemente alla sommità del secondo, ma anche con questo e a partire da questo. La neocorteccia risulta impegnata insieme con il più antico nucleo cerebrale, e la razionalità è l’effetto della loro attività in concreto” [6b]
Da questo Damasio deduce l’importanza fondamentale –ed ermeneutica– dell’emozione, suddividendola in primaria e secondaria, e distinguendola dal sentimento (lo stato corporeo che prevale fra le emozioni). Il “meccanismo” primario, l’unico su cui ci soffermiamo brevemente, sarebbe il seguente:
In quale misura le reazioni emotive sono “installate” già alla nascita? Direi che né gli animali né gli esseri umani recano preinstallata, in modo innato, la paura dell’orso, o la paura dell’aquila. Non ho difficoltà a riconoscere che è possibile che siamo predisposti a rispondere con un’emozione, in modo preorganizzato, quando vengono percepite nel mondo esterno o nel nostro corpo certe caratteristiche di stimoli, di cui sono esempi la dimensione, l’estensione, il tipo di movimento, certi suoni, certe configurazioni di stati del corpo. Una per una o in associazione, queste caratteristiche saranno elaborate e quindi rivelate da un componente del sistema limbico (es. l’amigdala); i sui nuclei di neuroni posseggono una rappresentazione disposizionale che innesca l’instaurarsi di uno stato corporeo tipico dell’emozione paura, e modifica l’elaborazione cognitiva in una maniera che si adatta allo stato paura” [6c]
L’emozione, che spaziando dalla paura all’amore verso l’altro-da-sé muove e plasma l’intero organismo, addirittura la sua “anima razionale” è fondamentale proprio a livello razionale-neurale. L’errore di Cartesio sta infatti nell’aver considerato nettamente separati emozioni e ragione, quasi vi fosse un Io-penso che alberga in un corpo sottoposto al meccanicismo. Come avvenga concretamente l’interazione fra due sostanze così diverse era un’obiezione avanzata sin da subito a Cartesio, che non ha trovato una soddisfacente spiegazione. Bisogna quindi sostituire all’Io-penso l’Io-corpo. Infatti, sono difficoltà come queste, unite allo studio approfondito delle patologie psichiche dovute a lesioni cerebrali, ad aver fatto comprendere come l’uomo non possa essere pensato senza il suo corpo, come la struttura del sistema nervoso centrale e periferico in interazione con l’organismo sia necessaria per definire l’uomo in quanto tale. Su queste basi, ma senza ridursi ad esse, si assesta la linea dell’antropologia filosofica contemporanea.

(continua….)


Riferimenti bibliografici:

[1]          M. Epis, Teologia fondamentale, Queriniana, 2009, pagg. 331 e sgg.
[2]          J. Schmid, Commento all’Evangelo secondo Matteo, Morcelliana, 1962 pagg. 495-502
[3]          H. G. Gadamer, Verità e Metodo, Bompiani, 1983
[4]          M. Heidegger, Essere e Tempo, citazione
[5a]       G. M. EdelmanSecondo natura, Raffaello Cortina Editore, 2007
[5b]       (A cura di) C. Catenacci, Darwinismo neurale. Analisi di una teoria biologica della mente, 2008
[6a]       A. R. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi edizioni, 2001
[6b]       A. R. Damasio, op. cit, pagg. 188-189

[6c]        A. R. Damasio, op. cit., pagg. 192-193

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