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L'avventura (ragionevole) dell'essere cristiani, dopo il novecento (3°parte)


di Eleon Borlini

L’autotrascendenza e l’altro: il fondamento della morale
Fatta salva la necessità dell’Io-corpo, l’antropologia filosofica che su di esso si fonda, e un rinnovato concetto di tempo, se lo svelarsi dell’essere nell’esistenza dell’uomo è, nel suo sistema di riferimento materiale, “da sempre”, e dunque ontologicamente fondamentale, ogni riflessione su di esso è da considerarsi un “atto secondo” della relazione originaria. L’essere-nel-mondo, per dirla con Heidegger, è la condizione di possibilità che rende l’uomo tale, poiché esso è da prima della riflessione stessa: esso è un trascendentale, o, meglio un esistenziale. Ora, è precisamente nella relazione con l’altro “ente” -per ora generico abitante del mondo, come nella teoria di Edelman- che anzitutto si dischiude la possibilità della libertà personale dell’uomo. Infatti, questa facoltà, che noi tutti sentiamo di avere, difficilmente potrebbe provenire dalla catena di causa ed effetto che sembra propria della maggior parte del processo epistemologico. Come ricordato sopra, la possibilità di intuizione matematica e, più in generale, della finitudine personale, e la critica al concetto spazializzato del tempo fisico, mostrano come sia possibile all’uomo di autotrascendersi. La “percezione riflessiva” del finito lo apre infatti, progressivamente, verso l’infinito. Nella prassi, questo è palese qualora si consideri che la propria volontà finita desidera costantemente trascendere i limiti prossimi delle capacità e delle competenze, verso limiti sempre meno definiti. “Verso”, in questo caso, è da intendersi in senso temporale, più che in senso spaziale (la qualità della coscienza, apprendimento e volontà, è infatti, come discusso al paragrafo precedente, tipicamente temporale). Proprio per la temporalità di questa progressione, è possibile intuire l’infinito ma non praticarlo: un ente finito non può dispiegarsi all’infinito in un tempo finito. Ma, mentre abbiamo l’intuizione di quest’autotrascendenza, al contempo e proprio per essa abbiamo esperienza delle immagini della realtà e percepiamo (anche qui, da ben prima di avere una coscienza autoriflessiva) la presenza di enti particolari, fra tutti gli enti. Li percepiamo come simili a noi tramite il linguaggio, per la forma, per gli atti. Dalla similitudine esteriore intuiamo la similitudine “totale”: riflettiamo che anch’essi sono uomini ed è grazie ad essi se siamo ancora vivi e se siamo quello che siamo. Sono ad esempio i nostri genitori che ci hanno dotato di quell’esserci, ed è proprio per il fatto che siamo grazie ad altri che l’essere-nel-mondo di cui sopra può diventare un essere-per-gli-altri. Il “trasporto” emotivo verso di loro, anche per il fatto che ci ricordano, a livello neuronale, “rappresentazioni disposizionali” (vedi Damasio) che si sono fissate associate ad un determinato stato corporeo, ci impegna nei loro confronti, anche –ma non solo, perché abbiamo esperienza della loro differenza– per il fatto che in essi vediamo noi stessi. E’ il fenomeno morale: l’altro ci appella e noi siamo chiamati a rispondere. Siamo chiamati a rispondere tramite un atto libero che ci autotrascende: ogni nostra scelta, pur precedentemente ponderata, nell’attuarsi è –kantianamente– immediata; non come la pura percezione che è estetica e poi analitica, ma direttamente analitica, influenzata ma non assolutamente determinata dal puro stato biologico dell’organismo. Se la libertà si manifesta anzitutto con l’azione, il discorso che su di essa si impernia non può che essere una filosofia pratica: è la morale, campo prettamente antropologica che ben qualifica l’essere umano. Evitando di addentrarci nella selva della questione morale, che ci porterebbe fuori dagli scopi prossimi di queste riflessioni, ritorniamo per chiudere il circolo a focalizzarci sulla Speranza che, ragionevolmente, possiamo nutrire (cfr. 1Pt 3,15).


Ancora antropologia fondamentale: la concezione greca e quella biblica
L’autotrascendenza ci mostra filosoficamente la differenza qualitativa fra uomo e animale, ma essa non ci consente di dedurre, di per sé, l’immortalità dell’anima umana. Non siamo autorizzati a sostenere, saltando dal logico all’ontologico, che, essendo l’anima razionale capace di intendere, ad esempio, le verità matematiche, allora essa, essendo quelle ritenute eterne ed immutabili (ma si veda a tal proposito la disputa filosofica di inizio Novecento fra logicismo e psicologismo, es. nel primo Husserl), quale sostanza capace di intenderle dev’essere immortale (a rigor di logica, essa dovrebbe essere addirittura eterna), secondo il principio del “simile che conosce il simile”. Nemmeno possiamo esser certi dell’esistenza di un Intelletto agente, che fra l’altro spersonalizza l’Io, in diretto contrasto con le argomentazioni neurobiologiche che fanno di ciascun individuo un unicum statisticamente irripetibile. Anche l’argomento kantiano che postula l’immortalità nella considerazione che, basandosi sull’evidenza della quotidianità, per accordare virtù e felicità sarebbe necessario un tempo infinito, ha le sue falle: una fra tutte l’aver concepito il tempo newtonianamente inteso come una dimensione propria anche dell’ “aldilà”. Difficile in ogni caso concepire un’anima che, alla morte del corpo, si diparta da esso, come se l’avesse abitato come un inquilino talvolta indifferente. Le lesioni cerebrali progressive mostrano in parallelo la perdita progressiva delle facoltà tipicamente attribuite all’anima. La necessità, poi, del nostro corpo in ogni situazione della nostra vita, le modifiche della corteccia cerebrale appaiate allo sviluppo/perdita della memoria, la corporeità dei sensi e dell’esperienza, l’influenza degli stati degli organi sia sull’emozione, e sulla razionalità, ci fanno comprendere che, senza il nostro corpo, non saremmo più noi stessi. In effetti, non saremmo più del tutto.
Come uscire da questa impasse, se non riduzionista, almeno riduttiva? È proprio qui che la Rivelazione può venirci incontro, è qui che l’evento della Resurrezione, nella cui storicità ragionevolmente possiamo credere (cfr. primo paragrafo), può fondare la Speranza. Si è visto sopra come l’antropologia filosofica greca, dualista in Platone, nei neoplatonici, nello gnosticismo; monista con riserve in Aristotele e in alcuni commentatori, difficilmente possa essere conciliata con la teoretica del Novecento. Eppure l’antropologia filosofica biblica fatti salvi alcuni libri, per lo più sapienziali, redatti tardivamente (Sapienza, Siracide, 2 Maccabei), apocrifi per la Tanak ma presenti nella Traduzione dei LXX (200 a.C. circa), non parla mai di un’anima separata dal corpo: recenti studi di filologia biblica, nel loro approfondimento dei valori semantici, hanno accertato che la lingua ebraica vetero-testamentaria non possiede un vocabolo per indicare quello che la tradizione greca e poi quella latina chiameranno corpo, anima e spirito. Seguendo infatti lo studio di H.W. Wolff,  Antropologia dell'Antico Testamento del 1973, notiamo anzitutto che i termini fondamentali dell'antropologia biblica sono quattro, tutti di origine corporea: nefes, basar, ruah, leb. Il primo termine designa l'indigenza dell'uomo, l'ordine dei suoi bisogni, perciò l'uomo non ha una nefes, ma è nefes e vive come nefes. Basar, la caducità della carne, non si riferisce alla negatività della medesima rispetto alla positività dell'anima come nel mondo greco postplatonico; per l'uomo dell'Antico Testamento, infatti, la carne è positiva o negativa a seconda della sua fedeltà o infedeltà all'alleanza con Dio. Ruah invece è la potenza di Dio e dell'uomo fedele all'alleanza con Dio: non è tanto un concetto antropologico, ma antropo-teologico (come il vento che spira sulle acque primordiali, in Gn 1,1). Infine il significato di leb è di natura fisiologica, designa il cuore come noi lo conosciamo: un cuore fisico e un cuore intimo-morale [19].

“Solo un Dio può salvarci”: la morte del corpo e gli ultimi tempi
È il Nuovo Testamento a fornire la chiave di volta del discorso intorno all’essenza dell’uomo: l’evento storico della Resurrezione di Gesù vero Uomo, per volontà del Padre (e per la potenza dello Spirito Santo), si mostra come possibilità concreta per il corpo di trascendere la Storia, impensabile altrimenti. Una possibilità che va al di là dell’autotrascendimento, attraverso cui l’uomo riesce già ad andare oltre il tempo spazializzato, e che, anzi, grazie ad esso lo compie. Ma questa possibilità definitiva, cifra ultima del discorso sull’uomo, passa deve passare da un particolare stato “emotivo”: quello dell’angoscia esistenziale, quale intuizione della possibilità dell’impossibilità e apertura, in primis, al nulla ed al silenzio: siamo di fronte all’esistenziale ultimo, l’essere-per-la-morte. In esso si percepisce, concretamente, anche la drammaticità della Croce: Gesù, al momento della morte, lanciò il grido del Salmo 22,1 (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) proprio perché si sentì abbandonato da Dio Padre, proprio perché vide in faccia la morte nel suo orrore. Forse per un istante interminabile disperò pure delle promesse, quando sentì il corpo venire meno nel collasso cardiocircolatorio, le membra atrofizzarsi sotto lo spasmo tetanico, gli occhi pieni di siero appannarsi per sempre… Ma non finì lì: infatti, “dopo il suo intimo tormento vide la luce, e si saziò della sua conoscenza” (cfr. Is 53,11). Non il cadavere restò nel sepolcro, ma l’intero corpo risorse. È, questa, la promessa degli ultimi tempi –con tutto ciò che, cosmologicamente, questa espressione può significare (il cosmo, e con esso lo spazio-tempo, ricollasserà in uno stato singolare, oppure si assisterà ad una morte entropica, o ancora, se la costante cosmologica è diversa da zero, di giungerà ad un’accelerazione dell’espansione tale per cui lo stesso spazio tempo verrà stirato fino a “disgregarsi”?)– questa, dicevo, è la promessa: la Resurrezione del corpo, trasfigurato, “retto” dalla sostanza dello Spirito, la medesima sostanza di quell’Essere che, noi esseri temporali, vediamo rivelarsi nella storia, e che non riusciamo a concepire avulso da spazio e tempo, se non, forse, come concetto limite. Solo quando l’uomo, attraverso l’angoscia, supererà l’io-minimo in cui sembra relegato nell’epoca post-moderna, e scoprirà pienamente di essere mortale, allora potrà aprirsi, dal baratro del nulla, al Totalmente Altro, perché allora si comprenderà privo di difese, limitato all’unicità di questa vita. Compresa la ragionevolezza della Resurrezione, dirà: “Il Crocifisso è il Risorto!”: e di fronte alla comprensione che “davvero quest’uomo è Figlio di Dio” (Mc 15,39) avrà un fondamento necessario –un paterno “tu devi”– per orientare la propria morale. Avrà infatti fiducia che, seguendo l’insegnamento rivelato del Figlio, allora, come Dio Padre resuscitò Cristo nel tempo per dare un senso all’intera storia dell’uomo, similmente farà con i suoi figli: ovvero, non semplicemente con “coloro che dicono Signore, Signore”, ma con coloro che “fanno la volontà del Padre suo” (cfr. Mt 7,21). Cercherà di immaginare il corpo trasfigurato al di là dell’ultimo istante cosmico, e comprenderà che al momento della morte, mentre il mondo continuerà ad avanzare nel tempo fisico, egli sarà –nel suo sistema di riferimento– già alla fine ed oltre i tempi, come un sonno da cui istantaneamente, per libera volontà Altrui, ci si sveglia. E si ricorderà delle parole Gesù giovanneo e di Paolo: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,13) poiché “l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Gv 4,23); e quando avverrà che, nel tempo nostro non fisico in cui intuiamo l’Eternità, “non sarò più io che vivo, ma Cristo vivrò in me” (cfr. Gal 2,20) allora “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28). E vivrà la buona vita in questa Speranza, secondo l’insegnamento del Figlio: insegnamento non già statico e “dogmatico” nel senso deleterio, poiché finanche la comprensione che Gesù ebbe della propria missione attraversò un’evoluzione, come si può evincere dall’analisi progressiva dei cinque discorsi matteani, o dalle parabole di Marco [cfr Mc 4,11 vs Mc 12]; ma un insegnamento che è un tesoro da cui la comunità in cammino nel tempo può “estrarre cose nuove e cose antiche” (cfr Mt 13,52): perché Dio è il Dio vivente, che si relaziona non come un ente metafisico, ma come il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo [20], capace di dare risposte concrete alle istanze di senso dell’uomo di ogni tempo.
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” ” (Lc 17,10)

A Dio che è, che era e che viene (Ap 1,8),
Signore del Tempo e della Storia,
lode e gloria nei secoli dei secoli.
Amen.

Note

[19]     H. W. WolffAntropologia dell'Antico Testamento, Queriniana, 1973
[20]     B. Pascal, (dal) Memoriale, 1654, trovato da un domestico, pochi giorni dopo i funerali di Pascal, cucito all'interno del corpetto che il filosofo aveva indossato fino alla morte. 

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