di Eleon Borlini
L’autotrascendenza e l’altro: il
fondamento della morale
Fatta
salva la necessità dell’Io-corpo, l’antropologia filosofica che su di esso si
fonda, e un rinnovato concetto di tempo, se lo svelarsi dell’essere
nell’esistenza dell’uomo è, nel suo sistema di riferimento materiale, “da
sempre”, e dunque ontologicamente fondamentale, ogni riflessione su di esso è
da considerarsi un “atto secondo” della relazione originaria. L’essere-nel-mondo,
per dirla con Heidegger, è la condizione di possibilità che rende l’uomo tale,
poiché esso è da prima della riflessione stessa: esso è un trascendentale, o,
meglio un esistenziale. Ora, è precisamente nella relazione con l’altro “ente”
-per ora generico abitante del mondo, come nella teoria di Edelman- che
anzitutto si dischiude la possibilità della libertà personale dell’uomo. Infatti,
questa facoltà, che noi tutti sentiamo di avere, difficilmente potrebbe
provenire dalla catena di causa ed effetto che sembra propria della maggior
parte del processo epistemologico. Come ricordato sopra, la possibilità di
intuizione matematica e, più in generale, della finitudine personale, e la
critica al concetto spazializzato del tempo fisico, mostrano come sia possibile
all’uomo di autotrascendersi. La “percezione riflessiva” del finito lo apre
infatti, progressivamente, verso l’infinito. Nella prassi, questo è palese
qualora si consideri che la propria volontà finita desidera costantemente
trascendere i limiti prossimi delle capacità e delle competenze, verso limiti sempre
meno definiti. “Verso”, in questo caso, è da intendersi in senso temporale, più
che in senso spaziale (la qualità della coscienza, apprendimento e volontà, è
infatti, come discusso al paragrafo precedente, tipicamente temporale). Proprio
per la temporalità di questa progressione, è possibile intuire l’infinito ma
non praticarlo: un ente finito non può dispiegarsi all’infinito in un tempo
finito. Ma, mentre abbiamo l’intuizione di quest’autotrascendenza, al contempo
e proprio per essa abbiamo esperienza delle immagini della realtà e percepiamo
(anche qui, da ben prima di avere una coscienza autoriflessiva) la presenza di
enti particolari, fra tutti gli enti. Li percepiamo come simili a noi tramite
il linguaggio, per la forma, per gli atti. Dalla similitudine esteriore
intuiamo la similitudine “totale”: riflettiamo che anch’essi sono uomini ed è
grazie ad essi se siamo ancora vivi e se siamo quello che siamo. Sono ad
esempio i nostri genitori che ci hanno dotato di quell’esserci, ed è proprio
per il fatto che siamo grazie ad altri che l’essere-nel-mondo di cui sopra può
diventare un essere-per-gli-altri. Il “trasporto” emotivo verso di loro, anche
per il fatto che ci ricordano, a livello neuronale, “rappresentazioni
disposizionali” (vedi Damasio) che si sono fissate associate ad un determinato
stato corporeo, ci impegna nei loro confronti, anche –ma non solo, perché
abbiamo esperienza della loro differenza– per il fatto che in essi vediamo noi
stessi. E’ il fenomeno morale: l’altro ci appella e noi siamo chiamati a rispondere.
Siamo chiamati a rispondere tramite un atto libero che ci autotrascende: ogni
nostra scelta, pur precedentemente ponderata, nell’attuarsi è –kantianamente–
immediata; non come la pura percezione che è estetica e poi analitica, ma
direttamente analitica, influenzata ma non assolutamente determinata dal puro
stato biologico dell’organismo. Se la libertà si manifesta anzitutto con
l’azione, il discorso che su di essa si impernia non può che essere una
filosofia pratica: è la morale, campo prettamente antropologica che ben qualifica
l’essere umano. Evitando di addentrarci nella selva della questione morale, che
ci porterebbe fuori dagli scopi prossimi di queste riflessioni, ritorniamo per
chiudere il circolo a focalizzarci sulla Speranza che, ragionevolmente,
possiamo nutrire (cfr. 1Pt 3,15).
Ancora antropologia fondamentale: la
concezione greca e quella biblica
L’autotrascendenza
ci mostra filosoficamente la differenza qualitativa fra uomo e animale, ma essa
non ci consente di dedurre, di per sé, l’immortalità dell’anima umana. Non
siamo autorizzati a sostenere, saltando dal logico all’ontologico, che, essendo
l’anima razionale capace di intendere, ad esempio, le verità matematiche,
allora essa, essendo quelle ritenute eterne ed immutabili (ma si veda a tal
proposito la disputa filosofica di inizio Novecento fra logicismo e
psicologismo, es. nel primo Husserl), quale sostanza capace di intenderle
dev’essere immortale (a rigor di logica, essa dovrebbe essere addirittura
eterna), secondo il principio del “simile che conosce il simile”. Nemmeno
possiamo esser certi dell’esistenza di un Intelletto agente, che fra l’altro
spersonalizza l’Io, in diretto contrasto con le argomentazioni neurobiologiche
che fanno di ciascun individuo un unicum statisticamente irripetibile. Anche
l’argomento kantiano che postula l’immortalità nella considerazione che,
basandosi sull’evidenza della quotidianità, per accordare virtù e felicità
sarebbe necessario un tempo infinito, ha le sue falle: una fra tutte l’aver
concepito il tempo newtonianamente inteso come una dimensione propria anche
dell’ “aldilà”. Difficile in ogni caso concepire un’anima che, alla morte del
corpo, si diparta da esso, come se l’avesse abitato come un inquilino talvolta
indifferente. Le lesioni cerebrali progressive mostrano in parallelo la perdita
progressiva delle facoltà tipicamente attribuite all’anima. La necessità, poi,
del nostro corpo in ogni situazione della nostra vita, le modifiche della
corteccia cerebrale appaiate allo sviluppo/perdita della memoria, la corporeità
dei sensi e dell’esperienza, l’influenza degli stati degli organi sia
sull’emozione, e sulla razionalità, ci fanno comprendere che, senza il nostro
corpo, non saremmo più noi stessi. In effetti, non saremmo più del tutto.
Come
uscire da questa impasse, se non riduzionista, almeno riduttiva? È proprio qui
che la Rivelazione può venirci incontro, è qui che l’evento della Resurrezione,
nella cui storicità ragionevolmente possiamo credere (cfr. primo paragrafo), può
fondare la Speranza. Si è visto sopra come l’antropologia filosofica greca,
dualista in Platone, nei neoplatonici, nello gnosticismo; monista con riserve
in Aristotele e in alcuni commentatori, difficilmente possa essere conciliata
con la teoretica del Novecento. Eppure l’antropologia filosofica biblica fatti
salvi alcuni libri, per lo più sapienziali, redatti tardivamente (Sapienza,
Siracide, 2 Maccabei), apocrifi per la Tanak ma presenti nella Traduzione dei
LXX (200 a.C. circa), non parla mai di un’anima separata dal corpo: recenti studi di filologia biblica,
nel loro approfondimento dei valori semantici, hanno accertato che la lingua
ebraica vetero-testamentaria non possiede un vocabolo per indicare quello che
la tradizione greca e poi quella latina chiameranno corpo, anima e spirito.
Seguendo infatti lo studio di
H.W. Wolff, Antropologia dell'Antico
Testamento del 1973, notiamo anzitutto che i termini fondamentali
dell'antropologia biblica sono quattro, tutti di origine corporea: nefes, basar,
ruah, leb. Il primo termine designa
l'indigenza dell'uomo, l'ordine dei suoi bisogni, perciò l'uomo non ha una
nefes, ma è nefes e vive come nefes. Basar, la caducità della carne, non
si riferisce alla negatività della medesima rispetto alla positività dell'anima
come nel mondo greco postplatonico; per l'uomo dell'Antico Testamento, infatti,
la carne è positiva o negativa a seconda della sua fedeltà o infedeltà
all'alleanza con Dio. Ruah invece è la potenza di Dio e dell'uomo fedele
all'alleanza con Dio: non è tanto un concetto antropologico, ma
antropo-teologico (come il vento che spira sulle acque primordiali, in Gn 1,1).
Infine il significato di leb è di natura fisiologica, designa il cuore
come noi lo conosciamo: un cuore fisico e un cuore intimo-morale [19].
“Solo un Dio può salvarci”: la morte del
corpo e gli ultimi tempi
È il
Nuovo Testamento a fornire la chiave di volta del discorso intorno all’essenza
dell’uomo: l’evento storico della Resurrezione di Gesù vero Uomo, per volontà
del Padre (e per la potenza dello Spirito Santo), si mostra come possibilità
concreta per il corpo di trascendere la Storia, impensabile altrimenti. Una
possibilità che va al di là dell’autotrascendimento, attraverso cui l’uomo
riesce già ad andare oltre il tempo spazializzato, e che, anzi, grazie ad esso lo
compie. Ma questa possibilità definitiva, cifra ultima del discorso sull’uomo,
passa deve passare da un particolare stato “emotivo”: quello dell’angoscia
esistenziale, quale intuizione della possibilità dell’impossibilità e apertura,
in primis, al nulla ed al silenzio: siamo di fronte all’esistenziale ultimo,
l’essere-per-la-morte. In esso si percepisce, concretamente, anche la
drammaticità della Croce: Gesù, al momento della morte, lanciò il grido del
Salmo 22,1 (“Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?”) proprio perché si sentì
abbandonato da Dio Padre, proprio perché vide in faccia la morte nel suo
orrore. Forse per un istante interminabile disperò pure delle promesse, quando
sentì il corpo venire meno nel collasso cardiocircolatorio, le membra
atrofizzarsi sotto lo spasmo tetanico, gli occhi pieni di siero appannarsi per
sempre… Ma non finì lì: infatti, “dopo il
suo intimo tormento vide la luce, e si saziò della sua conoscenza” (cfr. Is
53,11). Non il cadavere restò nel sepolcro, ma l’intero corpo risorse. È,
questa, la promessa degli ultimi tempi –con tutto ciò che, cosmologicamente,
questa espressione può significare (il cosmo, e con esso lo spazio-tempo,
ricollasserà in uno stato singolare, oppure si assisterà ad una morte
entropica, o ancora, se la costante cosmologica è diversa da zero, di giungerà
ad un’accelerazione dell’espansione tale per cui lo stesso spazio tempo verrà
stirato fino a “disgregarsi”?)– questa, dicevo, è la promessa: la Resurrezione
del corpo, trasfigurato, “retto” dalla sostanza dello Spirito, la medesima
sostanza di quell’Essere che, noi esseri temporali, vediamo rivelarsi nella
storia, e che non riusciamo a concepire avulso da spazio e tempo, se non,
forse, come concetto limite. Solo quando l’uomo, attraverso l’angoscia, supererà
l’io-minimo in cui sembra relegato nell’epoca post-moderna, e scoprirà pienamente
di essere mortale, allora potrà aprirsi, dal baratro del nulla, al Totalmente
Altro, perché allora si comprenderà privo di difese, limitato all’unicità di
questa vita. Compresa la ragionevolezza della Resurrezione, dirà: “Il
Crocifisso è il Risorto!”: e di fronte alla comprensione che “davvero quest’uomo è Figlio di Dio” (Mc
15,39) avrà un fondamento necessario –un paterno “tu devi”– per orientare la
propria morale. Avrà infatti fiducia che, seguendo l’insegnamento rivelato del
Figlio, allora, come Dio Padre resuscitò Cristo nel tempo per dare un senso
all’intera storia dell’uomo, similmente farà con i suoi figli: ovvero, non
semplicemente con “coloro che dicono
Signore, Signore”, ma con coloro che “fanno
la volontà del Padre suo” (cfr. Mt 7,21). Cercherà di immaginare il corpo
trasfigurato al di là dell’ultimo istante cosmico, e comprenderà che al momento
della morte, mentre il mondo continuerà ad avanzare nel tempo fisico, egli sarà
–nel suo sistema di riferimento– già alla fine ed oltre i tempi, come un sonno
da cui istantaneamente, per libera volontà Altrui, ci si sveglia. E si
ricorderà delle parole Gesù giovanneo e di Paolo: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà alla verità tutta
intera” (Gv 16,13) poiché “l'ora
viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità” (Gv 4,23); e quando
avverrà che, nel tempo nostro non fisico in cui intuiamo l’Eternità, “non sarò più io che vivo, ma Cristo vivrò
in me” (cfr. Gal 2,20) allora “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
E vivrà la buona vita in questa Speranza, secondo l’insegnamento del Figlio: insegnamento
non già statico e “dogmatico” nel senso deleterio, poiché finanche la
comprensione che Gesù ebbe della propria missione attraversò un’evoluzione,
come si può evincere dall’analisi progressiva dei cinque discorsi matteani, o
dalle parabole di Marco [cfr Mc 4,11 vs Mc 12]; ma un insegnamento che è un tesoro
da cui la comunità in cammino nel tempo può
“estrarre cose nuove e cose antiche” (cfr Mt 13,52): perché Dio è il Dio
vivente, che si relaziona non come un ente metafisico, ma come il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo [20],
capace di dare risposte concrete alle istanze di senso dell’uomo di ogni tempo.
“Così anche voi, quando avrete fatto tutto
quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto
quanto dovevamo fare” ” (Lc 17,10)
A
Dio che è, che era e che viene (Ap 1,8),
Signore
del Tempo e della Storia,
lode
e gloria nei secoli dei secoli.
Amen.
Note
[19] H. W. Wolff, Antropologia dell'Antico Testamento, Queriniana, 1973
[19] H. W. Wolff, Antropologia dell'Antico Testamento, Queriniana, 1973
[20] B.
Pascal, (dal) Memoriale, 1654, trovato
da un domestico, pochi giorni dopo i funerali di Pascal, cucito all'interno del
corpetto che il filosofo aveva indossato fino alla morte.
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